di Cosimo Perrotta
Spesso si crede che il progresso tecnico crei occupazione. E’ esattamente il contrario. Il progresso tecnico consiste nel sostituire lavoro umano con lavoro meccanico o digitale (che è più produttivo e dà maggior profitto). Il progresso tecnico quindi, di per sé, crea disoccupazione, e questa è tanto più estesa quanto più il primo è rapido.
Perché allora si pensa l’opposto? Perché si confonde il progresso tecnico con lo sviluppo economico complessivo. Il progresso tecnico aumenta la produttività, cioè a parità di costo produce una quantità maggiore di beni o servizi. Di conseguenza il costo dei singoli beni diminuisce, e ciò va a vantaggio di tutti. È questo propriamente il meccanismo che accresce la ricchezza della società. L’aumento della ricchezza sociale può portare a maggiori investimenti e quindi a una maggiore occupazione.
Dunque è vero che il progresso tecnico alla fine può dare maggiore occupazione, ma solo indirettamente, attraverso una serie di passaggi e a determinate condizioni. La condizione principale è che l’abbassamento del costo dei beni, accrescendo il potere d’acquisto dei salari e degli altri redditi, provochi un aumento della domanda. Ma questo non accade necessariamente.
Oggi molti autori ci assicurano che il progresso tecnico non ridurrà i posti di lavoro, anzi li accrescerà, nonostante il diffondersi dei robot nella produzione. I nuovi posti di lavoro, essi dicono, saranno sempre di più di quelli distrutti. Questi autori si illudono, come si illudeva Ricardo 200 anni fa (1). Oggi non ci sono le condizioni di mercato per accrescere la domanda, e senza domanda – cioè la prospettiva di vendere – le imprese non investono.
Questa situazione si trascina sin dagli Ottanta. Le politiche del welfare state, mentre avevano accresciuto la produttività del lavoro, avevano anche esaurito la domanda di consumi elementari. Occorreva quindi aprire nuovi mercati per soddisfare nuovi bisogni. Bisognava avviare la transizione all’economia post-industriale, cioè accrescere rapidamente i consumi immateriali, i servizi, i beni collettivi, l’istruzione. Verso questo tipo di consumi spingeva anche il decollo dell’informatica che avveniva proprio in quegli anni. Ma questa transizione non avvenne, per motivi sociali complessi, che qui sarebbe troppo lungo spiegare.
Da allora l’economia digitale ha trainato il progresso tecnico a ritmi mai visti prima e in poco tempo ha reso inutili nei paesi più sviluppati centinaia di milioni di posti di lavoro. Ma mentre il progresso tecnico galoppava la società ristagnava. Alla dirompente disoccupazione tecnologica si è aggiunta nello stesso periodo il trasferirsi di capitali e poi macchinari e intere fabbriche dall’Occidente verso i paesi emergenti. Infatti la saturazione dei mercati interni occidentali portava i capitali a cercare investimenti all’estero. Così la disoccupazione si ingigantiva ancor più.
Le politiche neoliberiste dell’austerità vietavano (e vietano) allo stato di intervenire. Intanto la disoccupazione larghissima ha reso disponibili per le imprese masse di persone disposte a qualsiasi lavoro precario, mal pagato e privo di garanzie. Quindi lo sviluppo, invece di progredire parallelamente al progresso tecnico, si è bloccato. Ad esempio in Italia – economia particolarmente fragile – la produttività complessiva non cresce da 20 anni. Questa spirale perversa ci sta portando verso la disgregazione sociale: caduta del senso civico, capri espiatori ad ogni angolo (i migranti, i neri, i complotti), rigurgiti nazifascisti, ecc.
Oggi dunque la disoccupazione, creata naturalmente dal progresso tecnico, non viene compensata da un aumento sufficiente della domanda. D’altra parte non si può e non si deve frenare il progresso tecnico, sarebbe il disastro finale. Quasi tutti gli osservatori e i politici (compreso, sembra, l’attuale governo italiano) si arrovellano per inventare nuove politiche di incentivi alle imprese, perché investano allargando così l’occupazione. Ma è un errore che ci sta portando alla rovina.
Le imprese sussidiate in qualsiasi modo (sgravi fiscali, “ristori”, ecc.) o puntano sul progresso tecnico (le start-up, i giganti del digitale, Big Farma, ecc.), e allora non creano occupazione, oppure si industriano per sopravvivere, e in tal caso non investono proprio. Per non parlare delle imprese speculative e di quelle “prendi i soldi e scappa”.
Allo stato attuale nessun tipo di impresa è in grado di rialzare la domanda. Deve farlo lo stato (come è successo tantissime volte nella storia del capitalismo). Serve un piano di larghissimi impieghi che ricostituisca livelli sufficienti della domanda interna dando salari e stipendi, e in questo modo rilanci la convenienza delle imprese ad investire.
Ciò non sarebbe lavoro improduttivo o parassitario. Al contrario. La crisi attuale ha privato una parte crescente della società dei beni elementari per una vita appena dignitosa e ha privato l’intera società di servizi pubblici decenti. C’è tanto lavoro produttivo da impiegare per incontrare la domanda potenziale di chi ha bisogni insoddisfatti.
(1) V. David Ricardo, Principi di economia politica … (1821), Milano, Isedi, 1976, cap. 31. V. anche C. Perrotta, Unproductive Labour …, New York-London, Routledge, 2018.