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Gaza: Il fallimento dell’Europa come guida morale

22 Apr

di Muddassar Ahmed (Social Europe 1° marzo 2024) – IL DOCUMENTO, 22-4-2024

La demolizione di Gaza da parte di Israele perseguiterà la coscienza dell’Europa per generazioni e mette in forse le pretese del mondo democratico.

Nonostante le crescenti pressioni del pubblico e dei politici, Israele ha stabilito che la scadenza per il suo attacco a Rafah sarà alla fine del mese sacro del Ramadan. Ma invadere la città che ospita attualmente più di un milione di persone non sarebbe solo un’apocalisse per i palestinesi, ma perseguiterebbe la coscienza europea per le future generazioni.

Israele, massacrando i palestinesi di Gaza, sta rompendole regole di guerra consolidate, e questo svela la sua storia e rinnova i ricordi di persecuzione dei palestinesi.

Distruzione senza freni
Negli ultimi mesi oltre 650mila case sono state distrutte e circa 1 milione e 800mila persone obbligate a spostarsi. l’Unesco ha dovuto diffondere immagini satellitari della distruzioni di siti storici ed ha espresso profonda preoccupazione. Ma una cosa è chiara: la cultura e la vita dei palestinesi non saranno più le stesse. Il 19 ottobre scorso è stata distrutta la più antica chiesa di Gaza, S. Porfirio, che era un vero mosaico della sua storia antica. Aveva pietre e targhe con impresse iscrizioni in greco antico (compresa la parola Gaza). Anche la Grande Moschea Omari, che era prima un tempio pagano, è stata distrutta, con il solo minareto che emerge come un dito mozzato.

Quando Alessandro Magno assediò Gaza nel 332 a.C. stava tentando di conquistare una città culturalmente ricca che collegava l’Assiria con l’Egitto lungo la Via della Seta. Oggi le sue biblioteche sono state bruciate e oltre 200 siti religiosi e culturali unici sono in macerie a causa della riduzione in polvere di Gaza da parte di Israele.

Quando lo Stato Islamico mosse la sua guerra alla storia, all’identità e all’eredità materiale, il mondo espresso unanime sdegno. Oggi l’Europa e gli USA sono stranamente in silenzio su Israele, ignorano l’infinito incubo dei palestinesi e lo spianamento della loro storia, che avrebbero dovuto da tempo preservare.

Ispirandosi ai Monument Men [i cacciatori di opere d’arte] della II guerra mondiale], alcune organizzazioni come il Comitato del Blue Shield [scudo blu] sono stati instancabili nel cercare di preservare l’eredità culturale durante i recenti conflitti in Iraq, Siria, Mali. Ma Israele non mostra alcuna intenzione di fare lo stesso. I palestinesi sono messi di fronte a scene di devastazione che si trovano solo sui libri di storia.

Appello urgente
Non è solo Gaza che sta perdendo la sua anima. La coscienza europea sarà segnata per sempre se non si prendono misure per portare i governi più potenti a chiedere un cessate-il-fuoco. Già si vedono le crepe nella leadership morale e politica dell’Europa. Le proteste per avere un cessate-il-fuoco a Gaza crescono di giorno in giorno, e si allarga il divario tra i popoli e i loro rappresentanti, persino tra i rappresentanti ufficiali. Tutto ciò, nell’anno delle tante elezioni, mette in pericolo la nostra democrazia.

In Gran Bretagna il principe William ha fatto un passo senza precedenti, è intervento pubblicamente per dire che “troppe persone sono state uccise” e invocare un impegno perché questo cessi “il più presto possibile”. Israele lo ha bollato come “ingenuo”, ma questa è la leadership che stiamo perdendo come governi europei e americani.

Gli stati del Golfo, visti da tempo come l’unica via possibile per normalizzare la regione insieme con Israele, hanno le chiavi per la pace dell’area, ma adesso sono costretti a osservare il doppio standard del sistema internazionale. Mentre l’UNRWA [agenzia ONU per i soccorsi) è collassata, l’Arabia Saudita … ha dato più di 5mila tonnellate di aiuti e guida la diplomazia dietro le quinte.

A Riyadh, i ministri dell’Autorità Palestinese, Emirati, Qatar, Arabia Saudita, Giordania ed Egitto si sono incontrati per discutere su un riconoscimento irreversibile dello stato palestinese. Ad alcuni incontri hanno partecipato anche rappresentanti di USA, UE, e Gran Bretagna.
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[Fra gli esponenti delle società civile che sostengono con motivi morali il cessate-il fuoco, l’autore cita il papa, la marcia delle 150 miglia verso Washington e la maggioranza dei gruppi religiosi, inclusi quelli ebrei e gli evangelici. Cita inoltre la Lega Mondiale dei Musulmani e il suo capo Al-Issa che ha chiesto pubblicamente il rilascio degli ostaggi tenuti da Hamas.

Queste autorità morali hanno capito ciò che non è chiaro ai leader politici]:
in questo conflitto che sembra a somma zero siamo tutti destinati a perdere: distruzione di vite umane, opere d’arte e siti storici, aumento dell’odio e disumanizzazione del mondo. I diritti umani e i valori democratici rischiano di essere seppelliti insieme con tanti palestinesi di Gaza.

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Transizione ecologica: investire oggi per non spendere domani

4 Mar

di Guillaume Kerlero de Rosbo e Nicolas Desquinabo – IL DOCUMENTO – 4-3-2024

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I paesi UE si sono impegnati a decarbonizzare le loro economie fino al Net Zero entro il 2050, cioè con emissioni di gas serra non superiori a quelle che la natura è in grado di assorbire.
La UE ha responsabilità storiche su questo piano ed è il secondo mercato mondiale per la maggior parte dei prodotti manifatturieri, perciò il suo impegno è essenziale …
Ma alcuni contestano questi impegni come punitivi o incompatibili con altri impegni più urgenti …
Ma, come dimostra il rapporto “Road to Net Zero” dell’Institut Rousseau, che ha impegnato più di 150 ricercatori…, questo obbiettivo è raggiungibile.
Entro una generazione la UE è in grado di ridurre le emissioni dell’85%, ma non è una prospettiva nera. Tutt’altro. Tre quarti dei fondi necessari esistono già e possono essere collocati diversamente (ad es. dalle auto diesel al trasporto pubblico o a veicoli a bassa emissione di carbone). A questo si dovranno aggiungere ca. 360 miliardi l’anno, cioè il 2,3% del PIL europeo. Ma nel 2022 la UE ha speso il doppio per importare carburante fossile. Non è la transizione ecologica ad essere troppo costosa ma la mancata programmazione dell’uscita dai carburanti fossili.
Un rapporto della Commissione europea di febbraio prevede maggiori investimenti in trasporti su strada con la relativa energia, e quindi obbiettivi di decarbonificazione più modesti. Tuttavia, rispetto a quello dell’Institut Rousseau, il rapporto UE non prevede rilevanti finanziamenti dell’agricoltura e prevede impegni minori per il rinnovo degli edifici.
Il rapporto UE propone più di 70 misure pubbliche suggerite da esperienze regionali positive, come l’agricoltura organica dell’Italia centrale, i trasporti ferroviari austriaci, piste ciclabili danesi. Dei 360 miliardi annui addizionali che sono necessari, 260 saranno pubblici.
Questo livello di investimento pubblico è indispensabile per due ragioni. Innanzitutto il 25% di questo servirà a trasporti pubblici, rinnovo degli edifici pubblici, ecc. Il resto servirà a suscitare investimenti privati sostenendo vari operatori … Per il successo dello European Green Deal è essenziale il sostegno finanziario a categorie che saranno colpite, come quella degli agricoltori.
Queste spese sono del tutto giustificate se si pensa al costo che si avrebbe se non si modifica niente. Il mondo degli affari già capisce che la sfida climatica minaccia l’economia, se la compagnia di assicurazioni Swiss Re stima normale una perdita media annua di PIL europeo del 10,5% entro il 2050 (l’equivalente del costo di una guerra).
In secondo luogo, questo investimento è ben minore della spesa pubblica della UE per la ripresa dopo la pandemia di Covid (338 miliardi l’anno) o gli attuali sussidi ai carburanti fossili (359 miliardi l’anno, inclusi i limiti ai prezzi dell’energia). Quindi gli investimenti per la transizione semplicemente ricollocano gli attuali sussidi pubblici; e questa spesa diminuirà mano a mano che la decarbonizzazione procede.
Terzo, la spesa pubblica stimolerà l’attività economica, generando milioni di posti di lavoro aggiuntivi su base locale; incoraggiando la capacità competitiva e di resilienza e accrescendo il potere d’acquisto nel breve periodo. Come sottolinea Mariana Mazzucato, senza investimenti pubblici le economie vacillano.
Dopo un decennio di austerità controproducente, l’Europa ha perso l’occasione delle nuove tecnologie; la Cina è emersa come leader nelle batterie, nell’energia eolica e in quella solare e nei trasporti elettrici. Mentre la UE parla di rallentare la sua iniziativa per il clima, in USA la legge sulla Riduzione dell’Inflazione, del 2022, ha mobilitato ca. 400 miliardi per il sostegno alle industrie decarbonizzate. L’India ha avviato il programma di Incentivi per la Produzione e la Cina sta sovvenzionando le sue industrie a vari livelli amministrativi con incentivi fiscali e monetari.
Infine, questo investimento pubblico produrrà risparmio nel lungo periodo e alleggerirà la pressione sui bilanci pubblici.
Tutti questi vantaggi saranno ancora maggiori se si darà la priorità alla produzione locale e si ridurrà il consumo. L’elettrificazione dell’energia, senza una simultanea riduzione della domanda, innanzitutto alzerebbe i costi, con una spesa di ca. 200 miliardi l’anno per importare carburanti fossili, mentre i consumi si riducono. In secondo luogo creerebbe rischi maggiori per la sovranità energetica a causa della scarsità di risorse e della delocalizzazione delle industrie.
L’obiettivo Net Zero non è fatto per ideologie cieche che vogliono tagliare gli investimenti. … L’austerità … porta solo al collasso. Non finanziare il cambiamento ecologico sarebbe alla fine molto più costoso.
Attuare la transizione ecologica non è solo un imperativo per l’ambiente; è una scelta strategica razionale ed economicamente vantaggiosa per l’Europa.

(Social Europe 21-2-2024. Titolo orig.: “Getting to Net Zero: Europe’s investment challenge”)

Appello di Greenpeace contro i mega-allevamenti

5 Feb

pubblicato il 9 gennaio 2024 (5-2-2024)


Sembra incredibile ma i Paesi dell’Unione Europea hanno concesso ai più grandi allevamenti intensivi l’esenzione dalle norme UE sulle emissioni industriali.
Cosa significa? Le lobby dell’industria della carne sono riuscite a garantirsi il diritto di continuare a inquinare, sostenendo inoltre che queste modifiche avrebbero colpito negativamente i piccoli e medi allevamenti bovini europei.
 La realtà è un’altra ed è uno schiaffo alla verità che fa male agli animali, alle persone e all’ambiente. Le dichiarazioni delle lobby della carne sono false, per nulla supportate dai dati, dal momento che le proposte di modifica riguardavano appena l’1% di tutti gli allevamenti di bovini in Europa e solo quelli più grandi e più inquinanti.
 Gli allevamenti intensivi sono luoghi di sofferenza per miliardi di animali destinati al macello – circa 75 miliardi ogni anno in tutto il mondo -. È un sistema che divora risorse preziose del Pianeta (acqua e foreste in primis) e che contribuisce pesantemente al riscaldamento globale e all’inquinamento. Ma perché, allora, dovremmo continuare a sostenerlo? 
Hai mai pensato a quanto possa essere inefficiente oltre che distruttivo, questo sistema su scala mondiale? Ecco qualche dato: il modello di produzione intensiva degli allevamenti e della produzione di mangimi impiega circa l’80% della superficie agricola mondiale per ottenere solo il 18% del fabbisogno calorico. In più, a livello globale, generano il 60% delle emissioni di gas serra dell’intero settore agricolo, aggravando così la crisi climatica che sta trasformando in peggio la vita sulla Terra.
 Solo in Europa il settore zootecnico è responsabile di quasi il 90% delle emissioni di ammoniaca che l’agricoltura immette nell’atmosfera e dell’80% della dispersione di azoto. 
 Sono dati che ci preoccupano molto perché hanno conseguenze concrete sulle nostre vite. Ad esempio, gli allevamenti intensivi contribuiscono all’inquinamento di polveri sottili (i pericolosi PM 2,5) che causa migliaia di morti premature ogni anno solo in Italia! 
Il nostro obiettivo è spingere il Governo Italiano a bloccare la costruzione di nuovi allevamenti intensivi e di frenare le conseguenze disastrose di quelli esistenti.
 Bisogna combattere quelle istituzioni e aziende che ancora credono che questo modello economico, basato sullo sfruttamento incondizionato degli animali e dell’ambiente, produca ricchezza.
 La verità è che dietro i loro margini di profitto si nascondono costi ambientali e sociali enormi, pagati da tutti noi e che danneggiano economicamente tutte quelle piccole e medie aziende agricole che avrebbero tratto un vantaggio competitivo dall’imposizione di limiti più stringenti agli allevamenti intensivi più grandi e industrializzati.
 

I genocidi non sono tutti uguali

24 Gen


di Cosimo Perrotta – 24-1-2024
Quest’anno alcuni gruppi politici vogliono far coincidere il 27 gennaio – Giorno della Memoria della Shoah – con la condanna dell’aggressione in corso a Gaza e la richiesta del cessate il fuoco. Con questa coincidenza essi vogliono rinfacciare a Israele di essere passato da vittima ad autore di un genocidio. In effetti per un numero crescente di persone a Gaza è in atto oggi un genocidio, e qualche ragione per dirlo forse c’è.
Ma sarebbe un grave errore e fonte di confusioni pericolose far coincidere la memoria della Shoah con altri episodi di massacro, per quanto efferati. Il genocidio è probabilmente il crimine più grave di tutti, e forse questo induce a pensare che ogni genocidio sia uguale all’altro, essendo tutti il massimo dell’ignominia. Purtroppo non è così; sembrerà cinico dirlo ma ci sono diversi gradi di gravità anche nel genocidio. Dopo il ripugnante eccidio di 1.300 innocenti perpetrato da Hamas, ci sono stati i crudeli bombardamenti sulla Striscia di Gaza, che hanno colpito tutti gli ospedali, molte scuole e chiese, hanno lasciato finora oltre 25mila civili uccisi, fra cui diecimila bambini (quelli conteggiati) e tanti altri, piccoli e grandi, con gli arti amputati, operati spesso senza anestesia, un milione di persone che soffre la fame e non sa dove rifugiarsi.
Sono stati uccisi oltre cento giornalisti palestinesi, gli unici testimoni del massacro, e oltre cento funzionari dell’ONU, gli unici agenti di soccorso esterno. L’attuale governo israeliano sta cercando in tutti i modi di cacciare con la violenza i palestinesi da Gaza e dalla Cisgiordania, la loro terra, imputando loro le colpe di Hamas in quanto palestinesi. Hanno persino distrutto consapevolmente gli archivi anagrafici, i casellari giudiziari, i catasti, in un annientamento delle persone che è peggiore della semplice uccisione.
Nonostante tutto questo, però, la Shoah è un’altra cosa; è il punto più basso dell’abiezione umana; è lo sterminio scientificamente pianificato di un popolo, gli ebrei, che avevano una sola “colpa”: essere ebrei, e in quanto tali erano considerati sotto-uomini. Perché? Erano meno obbedienti, meno intelligenti, più ostili verso i regimi di destra? Nient’affatto. Essi avevano il “sangue non-ariano”. Questa idiozia fu giustificata da alcuni biologi e antropologi privi di dignità negli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Essi si arrampicarono sugli specchi per spiegare che c’è una divisione fra razze superiori e inferiori. Non ci riuscirono, ma intanto 6 milioni – lo sappiamo tutti, ma ripetiamolo – sei milioni di innocenti, tra cui tantissimi bambini, furono uccisi per questo.
Accanto a loro furono uccisi altri uomini innocenti: sinti, rom, omosessuali, disabili, slavi; anch’essi considerati razze inferiori o persone degenerate. Ma nessuno fu oggetto di una persecuzione tanto feroce, accanita e sistematica quanto gli ebrei.
Ripetiamo anche questo: i nazisti pianificarono la raccolta di denti d’oro, abiti, e oggetti delle loro vittime (personalmente ricordo ancora nel lager di Theresienstadt l’enorme contenitore di scarpette dei bambini uccisi); fecero sapone o rivestimenti in pelle umana con molti dei cadaveri. Insieme con gli altri fascisti, sguinzagliarono per tutta Europa spie e delatori prezzolati e confiscarono i beni degli ebrei a vantaggio di chi li aggrediva o li accusava. Prima di ucciderli li sfruttavano per lavori pesanti, li umiliavano in tutti i modi, li torturavano o li sottoponevano a folli esperimenti medici; strapparono i bambini ai genitori; uccisero i non ebrei che nascondevano gli ebrei per solidarietà umana.
È per tutto questo che la Shoah è stata chiamata il male assoluto. Essa è stata la fine dell’innocenza (o presunta tale) del genere umano, e il suo ricordo è sacro. Nessuno dei tantissimi genocidi che conosciamo della storia passata e del presente si avvicina a questa disumanità totale. La Shoah deve rimanere distinta, come monito contro tutti gli episodi di disumanità perpetrati oggi.

La violazione sistematica dei diritti dei migranti nella UE

24 Lug

di Mary Lawlor

IL DOCUMENTO — A un mese da Pylos: questo articolo inchioda l’Europa alle sue terribili responsabilità. Sabato 22 luglio è uscita sulla stampa la foto di una mamma e la sua bambina morte, abbandonate nel deserto, come altre centinaia di persone, dal governo tunisino. Human Rights Watch ha dichiarato che la Tunisia non è un paese sicuro e ha chiesta alla UE di sospendere i finanziamenti.

Il 14 giugno vicino la Grecia è affondato un peschereccio con centinaia di persone mentre cercava di raggiungere l’Europa. 104 sono state salvate; ma con 81 morti e 500 dispersi. Ancora non si sa come sia successo, … ma alcune cose sono già chiare.

È chiaro che questa tragedia si poteva evitare. Le autorità greche sono state allertate da attivisti di Alarm Phone ore prima che il peschereccio si capovolgesse. La guardia costiera greca era in contatto con i passeggeri e aveva l’obbligo per la legge internazionale di intervenire, dato l’evidente sovraffollamento della barca e la sua incapacità di tenere il mare.

È chiaro che il disastro si deve a decisioni politiche. La Grecia e l’UE, comprese Frontex e le guardie costiere, danno la colpa ai trafficanti di uomini, ma non sono questi che fanno la scelta di intraprendere percorsi molto pericolosi per raggiungere la UE. Finché non ci saranno vie sicure, legali e accessibili per sfuggire ai conflitti e al cambiamento climatico, o per raggiungere i propri cari o cercare una vita migliore, ci saranno occasioni di affari per i trafficanti. Solo gli stati possono aprire queste vie, ma hanno scelto di non farlo.

È chiaro che la UE e i suoi stati membri sono disposti ad accettare la morte della gente ai propri confini. Questo non è il primo naufragio ai confini dell’Europa, tutt’altro. Nell’ottobre 2013 almeno 400 persone morirono … vicino Lampedusa. L’allora presidente della Commissione Europea, Barroso, dichiarò che l’UE non poteva accettare che migliaia di persone morissero ai suoi confini. Il governo italiano lanciò Mare Nostrum, un’operazione di ricerca e salvataggio che soccorse più di 150mila persone, ma finì dopo solo un anno. Da allora più di 24mila sono morti tentando di attraversare il Mediterraneo, di cui 18.380 nella rotta centrale.

La capacità di soccorso della UE si è ridotta e la solidarietà, compresi i soccorsi privati, è stata repressa. Mentre i trafficanti hanno continuato ad operare, nessuno risponde per le violazioni di massa dei diritti umani. Con i respingimenti sistematici, si perpetrano crimini commessi impunemente.

Perché succede? Perché la UE ha inserito la migrazione e la protezione internazionale in un paradigma di sicurezza e controllo, con poco o nessuno spazio per i diritti umani. Questo appare chiaro nel recente accordo degli stati membri sull’accoglienza. Se questo accordo diventa legge, rafforzerà alcuni degli aspetti più problematici dell’attuale sistema di accoglienza, fra cui la regola di Dublino che impone l’accoglienza limitata ai paesi di arrivo. In più, l’accordo aggiunge nuove regole per scoraggiare gli arrivi e facilitare i rimpatri forzati.

Eppure l’UE si fonda sul rispetto della dignità e dei diritti umani. L’articolo 2 del suo trattato stabilisce che vi “devono prevalere il pluralismo, la non discriminazione, tolleranza, giustizia, solidarietà ed uguaglianza tra uomini e donne”. Gli stati membri sono vincolati dalla Convenzione sui Diritti Umani, obbligati al rispetto della Carta dei diritti fondamentali della UE, che fra l’altro protegge il diritto di chiedere asilo. Questi stati sono anche firmatari delle maggiori convenzioni di legge sui diritti umani.

I difensori dei diritti umani nella UE insistono sugli obblighi derivanti da questi accordi, perché tali diritti vengano protetti, mentre oggi di solito vengono cinicamente violati e ignorati. …

Gli stati UE sono fra i maggiori sostenitori dei difensori dei diritti umani. Ma durante il mio mandato di rapporteur speciale dell’ONU su questo tema, ho dovuto sollevare casi di ritorsione contro difensori dei diritti umani da parte dei governi di Grecia, Italia, Polonia, Lettonia, Cipro e Francia. Molti casi riguardavano la criminalizzazione, sia nel senso di aprire indagini e procedure criminali contro alcuni difensori dei diritti sia nel senso di deliberata e sistematica associazione, pubblicamente espressa, del loro lavoro con l’attività criminale.

Altri casi riguardano restrizioni amministrative o sanzioni, oppure modifiche di legge per rendere più difficile o impossibile il lavoro dei gruppi di sostegno ai migranti. Ma anche al livello comunitario ci sono leggi che criminalizzano i difensori dei diritti umani, grazie al c.d. ‘Facilitator’s Package’, il quadro giuridico adottato nel 2002 per definire il reato di facilitazione agli ingressi illegali e le relative sanzioni, … che fornisce una base per criminalizzare la solidarietà.

L’art. 12.2 della Dichiarazioni dei Diritti Umani fa obbligo agli stati di proteggere dalle ritorsioni i difensori dei diritti, ma gli stati UE con l’acquiescenza delle istituzioni comunitarie fanno proprio l’opposto. Le violazioni contro i diritti dei migranti … – come ha detto Dunja Mijatović, Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa – “sono così frequenti che non vengono più registrate dalla coscienza pubblica”. Mettere a tacere i difensori dei diritti umani è diventata una tattica per non cambiare le cose.

(da Social Europe: “EU’s values should dictate an ethos of hospitality”, 20 giugno 2023)
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G. Viesti: il PNRR per guardare di nuovo al futuro (II parte)

4 Lug


di Cosimo Perrotta

Il problema più grave che il PNRR non ha affrontato è la debolezza amministrativa del Sud e di altre aree arretrate, che è stata aggravata dalle politiche di austerità. E’ questo che rende così lenta la realizzazione di opere pubbliche nel Sud (cap. VI, p. 6). Il Sud ha bisogno degli investimenti del Piano più degli altri. Ma la mancanza di personale qualificato impedisce ai suoi Comuni di elaborare progetti appropriati per concorrere ai finanziamenti. Né il Piano prevede un aumento degli organici dei Comuni. E’ quindi prevedibile che i finanziamenti andranno a chi ne ha meno bisogno, cioè ai comuni delle aree più sviluppate.

La stessa logica perversa emerge nei territori: università, complessi scolastici, strutture idrauliche, trattamento dei rifiuti, ecc.

Detto tutto questo, il Piano prevede la creazione di una grande rete digitale che registri tutti i dati degli utenti dei servizi pubblici e delle strutture pubbliche, grandi reti elettriche, un forte potenziamento dell’alta velocità, dei collegamenti ferroviari da costa a costa e delle linee regionali. Al Sud dovrebbe andare il 61% dei finanziamenti per le ferrovie, per recuperare in parte il suo grave ritardo. Il rilancio nazionale delle ferrovie ripara la stortura attuata negli anni Sessanta che privilegia i trasporti su gomma.

Una particolare attenzione è riservata alle città, i cui investimenti sono anch’essi diminuiti negli ultimi decenni. Ci sono grandi progetti per l’attività culturale, l’edilizia residenziale, quella scolastica e giudiziaria, la mobilità ciclistica. Lo stesso vale per la rigenerazione urbana di aree degradate, con maggiore attenzione alle città e regioni più deboli.

Ma anche per questo aspetto, si sente la mancanza di un progetto coerente. Non viene contrastata l’emarginazione delle aree più deboli, come quelle montane. Lo stesso si può dire sugli asili-nido, le cui allocazioni sono state decise in base al dato presunto della popolazione del 2035, il che dà esiti incerti. Per i nidi, 1.700 Comuni (alcuni anche al Nord) non hanno partecipato ai bandi di gara (cap. IX, p. 6); il che contraddice l’obbiettivo del Piano di offrire un nido a tutti i bambini italiani.

Ci sono inoltre 6 miliardi per palestre, mense e ristrutturazione delle scuole (cap. IX, p. 7); e 2,1 miliardi per nuove tecnologie, ma col 60% vincolato ai computer, di cui molte scuole sono già ben fornite.

Per le università, un settore che soffre da decenni di gravi tagli, è prevista una tale massa di finanziamenti da far pensare, dice l’autore, a un diluvio su un terreno ormai inaridito. Inoltre i finanziamenti previsti sono una tantum e non riguardano le risorse correnti, di cui invece c’è urgente bisogno. Il risultato sarà che la gran quantità di personale assunto pro tempore per attuare i progetti previsti dal Piano produrrà fra pochi anni degli spostati in cerca di collocazione. Analogamente, gli oltre 47mila posti-letto per studenti universitari saranno ottenuti finanziando i locatari privati per tre anni. Dopo di che, come è facile prevedere, si avrà un forte aumento degli affitti.

Le imprese riceveranno ben 38 miliardi (in aggiunta, notiamo, ai già cospicui finanziamenti che già ricevono e che variano fra i 20 e i 30 miliardi l’anno) per la digitalizzazione, la decarbonizzazione, ecc. Ma, di nuovo, manca – a differenza della Germania – una strategia industriale del paese. Inoltre l’aver privilegiato la manifattura rischia di polarizzare ancor più l’industria nelle regioni più industrializzate: Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Per la sanità, il Piano punta molto alla prevenzione, ai servizi territoriali, a Ospedali di comunità.

In conclusione il Piano, dice l’autore, sembra avere gli stessi difetti delle altre politiche di coesione in Italia: moltissimi interventi previsti ma le amministrazioni che dovrebbero attuarli, centrali e locali, sono troppo deboli e troppo lente. Questi difetti si estendono a tutto il paese. Il Piano “non riuscirà a cambiare l’Italia” in così pochi anni (cap. XIV, p. 1). Tuttavia esso è frutto di una svolta culturale importantissima dell’Europa, che supera l’austerità.

Il Piano sarà tanto più efficace quanto più si darà importanza al riequilibrio territoriale e si fisseranno finalmente i livelli essenziali di prestazione (Lep), voluti dalla Costituzione. Questo permetterà di garantire a tutti i servizi pubblici essenziali (scuola, salute, trasporti pubblici e P.A.). Permetterà anche di contrastare l’ideologia, ancora dominante, che vede il mercato come supremo regolatore della società; un’ideologia che fa comodo ai privilegiati e agli evasori fiscali. Soprattutto il PNRR è importante perché ci permette di guardare di nuovo al futuro e di programmare le nostre iniziative in questa prospettiva.

Trovo convincente questo libro su tutto, le critiche, ben documentate, i meriti attribuiti al Piano, i timori su come verrà attuato e la grande speranza per lo sviluppo futuro. Il PNRR può diventare il grimaldello per scardinare l’austerità e i suoi interessi oscuri, e per rispettare un po’ di più i bisogni della gente e i suoi diritti.

L’inferno di Calais

27 Feb


a cura di Piero Rizzo – Commenti esteri n° 66
“L’inferno è una boscaglia piena di gas lacrimogeni brulicante di malattie infettive. L’inferno sono i bambini che cercano di sopravvivere. L’inferno è un campo profughi a Calais”. E’ questo l’incipit dell’agghiacciante articolo scritto da Jeremy Corbyn (già leader del partito laburista) per il Guardian del 21 gennaio u.s. Riportiamo ampi stralci ed in calce brevi considerazioni.
Le urla umane per un avvistamento di roditori non sono niente in confronto ai lamenti dei bambini che desiderano ardentemente l’abbraccio della madre. Uno dei principali siti di separazione è la stessa Calais. Dalla distruzione della “giungla” nel 2016, la polizia francese ha applicato una politica di “punti di stazionamento fissi zero” per impedire ai rifugiati di stabilirsi altrove. Gli sgomberi vengono effettuati quotidianamente; tende, coperte, documenti d’identità, telefoni cellulari, vestiti e medicinali vengono sequestrati o distrutti.
Gli Osservatori dei Diritti Umani, un osservatorio indipendente nel nord della Francia, mi hanno detto di aver visto le autorità francesi urinare sugli effetti personali delle persone. Nella mischia, le madri vengono regolarmente separate dai loro figli. Spesso è l’ultima volta che si vedono, almeno vivi.
Sono le autorità francesi ad aggredire i rifugiati, ma è il governo del Regno Unito a dare loro manganelli e proiettili. Nel 2021 il Regno Unito ha pagato 55 milioni di sterline per le pattuglie di frontiera francesi per reprimere i valichi di frontiera; i soldi vengono usati per filo spinato, telecamere a circuito chiuso e tecnologia di rilevamento. Assolvendosi da qualsiasi responsabilità internazionale o morale nei confronti dei rifugiati, il Regno Unito sta invece pagando la Francia per criminalizzarli.
Incurante del diritto internazionale, Braverman (ministra dell’interno ndr) è determinata a realizzare un sogno: assistere ai voli che portano i rifugiati in Ruanda. Sull’aereo per il Ruanda c’è il bagaglio coloniale della Gran Bretagna; dal precedente ruolo di questo paese nella tratta degli schiavi al suo ruolo attuale nel commercio di armi, la Gran Bretagna è responsabile delle radici economiche e politiche dello sfollamento.
Per la maggior parte delle persone, sentirsi dire che i loro piani violano la Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati del 1951 e la Convenzione europea sui diritti umani potrebbe costringerli a riconsiderarli. Non per Bravermann. Dobbiamo violare queste convenzioni, dice, per reprimere finalmente i trafficanti di esseri umani. Lei conosce la verità: lungi dall’affrontare i trafficanti di esseri umani, è la sua politica che in primo luogo crea il mercato per loro.
L’unico modo per sconfiggere una politica dell’odio è con una politica della compassione. L’assalto dei conservatori ai rifugiati deve essere contrastato… perché manca del rispetto fondamentale per la vita umana. I rifugiati non sono pedine politiche, sono esseri umani, le cui speranze e i cui sogni non dovrebbero essere sacrificati nei calcoli dell’eleggibilità.
Brevi considerazioni
A un anno circa dalla tragedia della Manica nella quale morirono annegati 27 migranti, la Francia e il Regno Unito il 14 nov. u.s. hanno firmato un accordo che prevede: pattuglie congiunte, droni e coordinamento per fermare i migranti che cercano di attraversare il canale. In più il Regno Unito aumenterà la quota annuale che destinerà alla Francia per limitare la partenza di barconi e gommoni dalle coste di Calais da 62,7 a 72 milioni di euro.
Questi i termini del “sensazionale” accordo giunto dopo un anno di feroci insulti tra Macron e il “clown” (copy right Macron) Johnson. Dell’apertura di ”passaggi sicuri” verso la Gran Bretagna per evitare ulteriori morti come suggerito da tutte le associazioni umanitarie francesi, britanniche e belghe non c’è traccia.
Pensiamo sia stato questo accordo ad ispirare l’articolo appassionato e al vetriolo di Corbyn. Il target è soprattutto il Governo dei Tory nella persona della ministra dell’interno. Quest’ultima ha dichiarato che l’accordo “aumenterà in modo significativo il numero di gendarmi francesi che pattugliano le spiagge nel nord della Francia e assicurerà che gli ufficiali britannici e francesi lavorino fianco a fianco per fermare i trafficanti di esseri umani”. Corbyn invece dice: “bisogna smetterla di vomitare l’odiosa retorica delle “invasioni” e si dica a gran voce: qui i profughi sono i benvenuti”. Questo è avvenuto una sola volta con “Mutti Merkel” nel 2015, ma non si intravedono repliche.
Per eterogenesi dei fini aumenteranno le commesse alla “multinazionale” dei trafficanti di esseri umani ed aumenterà anche il numero di morti, come previsto tra gli altri nell’articolo di Le Monde: “Morti nella Manica: Aumentare il numero di ostacoli per l’attraversamento delle frontiere non fa che aumentare i rischi per i rifugiati”.

https://www.theguardian.com/commentisfree/2023/jan/21/tory-migrant-policy-calais-refugee-camps-french

L’orrore iraniano e la nostra democrazia

29 Dic


di Cosimo Perrotta

Il 2022 si chiude con decine di migliaia di innocenti uccisi, vittime delle dittature che accerchiano l’Europa. Essi riempiono centinaia di fosse comuni e cimiteri, e fanno venire in mente il terribile verso del Foscolo “Anche la Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri”. Ma non dobbiamo rassegnarci a questa conclusione. Dobbiamo reagire e indignarci. È vero che oggi teniamo alta la speranza di fronte ai civili ucraini massacrati da Putin, ma poi trascuriamo i curdi bombardati da Erdohan, i palestinesi uccisi ogni giorno dai governi israeliani, le donne torturate da Bin Salman (il mandante dell’assassinio di Khashoggi), gli immigrati morti di lavoro in Qatar, i tanti torturati e uccisi in Egitto senza colpa, al pari di Giulio Regeni, il popolo saharawi perseguitato dal Marocco.

E adesso trascuriamo ancora la repressione in Iran, dove la cricca di fanatici al potere uccide a bastonate le ragazze che si tolgono il velo, impicca i ragazzi che protestano, tortura e uccide chi cerca di curare le sue vittime, impedisce i funerali e nasconde i cadaveri, stupra le ragazzine e spara alle bambine e ai ragazzi senza motivo, per puro terrorismo. In nome di dio, sparano le donne ai genitali e al volto, per deturparle, hanno ucciso oltre 500 persone inermi e incarcerato oltre 18mila.

In molti ci chiediamo perché i governi europei non ritirano gli ambasciatori, non sollecitano l’ONU a intervenire, o perché in Italia partiti e sindacati non organizzano nemmeno un corteo di protesta. Perché abbiamo reagito con decisione contro l’invasione dell’Ucraina e ignoriamo le incredibili nefandezze iraniane? Probabilmente perché nel primo caso ci sentiamo direttamente minacciati, nel secondo no.

Ma questa risposta è ingannevole, elude il problema del rapporto fra le nostre democrazie e i regimi dittatoriali. Innanzitutto, questi regimi hanno in comune l’odio verso le democrazie occidentali, la cui sola esistenza denunzia la loro disumanità. La garanzia dei diritti civili (per i propri cittadini) e la difesa dei diritti umani (che sono universali), cioè i principi affermati dall’Occidente, rappresentano un’implicita accusa a chi non rispetta questi diritti. Non è una caso che l’Iran stia cooperando con la guerra di aggressione russa.

Tuttavia, l’Occidente omaggia questi diritti ma poi spesso li viola. Viola i diritti civili perché tollera un lavoro senza garanzie di alcun genere e con salari di fame, tollera una povertà sempre più grave e il crescere di disuguaglianze mostruose, consente quasi sempre lo scempio ambientale, impone tassazioni inique e regressive, e spesso nega persino il diritto di curarsi (come sta avvenendo in Italia).

Ancora maggiori sono le violazioni dei diritti umani praticate dall’Occidente. Proprio ai regimi dittatoriali vendiamo massicciamente (e spesso illegalmente) le armi che sono usate contro popoli inermi. Finanziamo con denaro pubblico le esportazioni agricole verso i paesi poveri (dumping) distruggendo la loro produzione locale. Vietiamo loro, grazie ai brevetti occidentali, di produrre medicinali salvavita e venderle a prezzi accessibili. Corrompiamo le loro élite per ottenere il permesso di saccheggiare le loro risorse naturali e di farlo distruggendo il territorio circostante.

Queste violazioni ci rendono complici, più che avversari, dei regimi antidemocratici. Anche noi infatti abbiamo i nostri morti innocenti da nascondere. E quando non possiamo più nasconderli li accusiamo di illegalità. È il caso dei migranti che lasciamo annegare nel Mediterraneo, o che lasciamo morire assiderati nei boschi dei Balcani; che respingiamo con la violenza in Spagna, Grecia, Polonia, Ungheria, Croazia, o senza violenza ma con misere furberie in Italia. Fingiamo di ignorare che i migranti che respingiamo in quanto arrivati illegalmente, non possono arrivare legalmente, perché le nostre ambasciate negano il passaporto con infiniti pretesti a chi lo chiede per cercare lavoro o per sfuggire alla violenza.

Ci sono dunque mille fili – più o meno occultati – che ci coinvolgono nei misfatti dei regimi antidemocratici. Essi mostrano che ciò che appare colpevole assuefazione è in realtà una ancor più colpevole affinità. Ma alla lunga le complicità e i silenzi di comodo si pagano: il degrado del costume democratico, il corrodersi della solidarietà sociale in Europa si accentuano sempre più.

È impossibile tornare all’energia fossile

18 Lug

di Éloi LaurentSocial Europe 14/7/2022

Un fantasma si aggira per l’Europa, quello dei gilet gialli. I loro disordini a Parigi nel 2018-19 hanno creato due malintesi presso molti politici.

Il primo è l’idea che la transizione energetica crei disuguaglianze e che sia questo ad adirare i cittadini. In realtà la transizione è appena cominciata. Le disuguaglianze derivano dall’attuale sistema economico non dalle politiche di transizione. L’esempio più chiaro è nel presente aumento dell’inflazione dovuto alla scarsità di gas e petrolio, per cui la volatilità dell’offerta si traduce in vulnerabilità sociale. Dire che la tragedia dell’Ucraina rafforza la nostra dipendenza significa preparare la strada per una prossima crisi da scarsità di energia.

Il secondo malinteso è che i gilet gialli hanno messo in evidenza una inevitabile incompatibilità tra come arrivare alla fine del mese e come evitare la fine del mondo. Infatti la povertà non aspetta la fine del mese, e d’altra parte non è in questione la fine del mondo ma la capacità del pianeta di ospitare bene l’umanità più povera e fragile. Ma soprattutto, le politiche di una transizione giusta sono possibili ed economiche, in Europa e altrove.

La distribuzione ineguale
Recentemente ho esaminato diversi tipi di disuguaglianza ambientale, comprese quelle della vulnerabilità (esposizione e reattività di individuai e gruppi al degrado ambientale) e della responsabilità (il loro impatto su tale degrado). Questi due tipi di disuguaglianza non derivano da politiche per l’ambiente incuranti delle conseguenze sociali, bensì dalla mancanza di una risposta forte a molti aspetti della crisi ecologica (catastrofe climatica, inquinamento dell’aria, ecc.).

Sappiamo che non agire sul clima aumenterà la vulnerabilità di milioni di europei anziani e socialmente isolati di fronte a ondate di caldo devastanti, del tipo visto in Spagna e Francia questa estate (con temperature notturne a Parigi di 30 gradi a metà giugno). Costruire una transizione giusta in questo caso significa sviluppare politiche di transizione per mitigare le crisi ecologiche e abbassare le ingiustizie che esse creano.

Gli antichi romani stabilirono un principio giuridico: nessuno può giustificarsi adducendo la propria immoralità (nemo auditur propriam suam turpitudinem allegans). Questo principio va applicato alle politiche di non-transizione dell’Europa.

Cooperazione sociale
Dobbiamo proseguire lungo due percorsi. Innanzitutto dobbiamo mostrare che la necessaria riduzione delle disuguaglianze può attenuare le crisi ecologiche (viaggi aerei a lunga distanza, veicoli sportivi ecc. sono responsabili del grosso delle impronte ecologiche (produzione di CO2) eccessive. D’altra parte le politiche di transizione ecologica possono ridurre le disuguaglianze sociali e aumentare il benessere dei più poveri. Ad esempio una tassazione progressiva ed ecologica sul carbone in Francia può redistribuire reddito a favore dei gilet gialli invece di penalizzare le emissioni residue senza alcun compenso sociale (fu quest’ultima la politica di Macron, che scatenò la ribellione).

Martin Luther King disse che il capitalismo è “un sistema che prende il necessario alle masse per dare il lusso alle classi”. Le politiche di giusta transizione dovrebbero fare il contrario: ristrutturare i consumi sulla base del consumo sufficiente e promuovere la cooperazione sociale come tecnologia innovativa del sec. XXI.

Il secondo percorso è ancora più ambizioso. Esso delinea una politica socio-ecologica, oggi e nel lungo periodo, che allo stesso tempo riduca le disuguaglianze sociali e il degrado ambientale. C’è già una quantità di cose da fare, ad es. nelle aree della mobilità e delle abitazioni, come dimostra un recente notevole rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), 3° gruppo di lavoro) sulla riduzione e l’attenuazione delle emissioni.

“Piena salute”
Questo sforzo si dovrebbe accompagnare ad una ridefinizione della ricchezza che proponga nuovi orizzonti, alternativi alla crescita economica distruttiva, come la “piena salute”. Questa è uno stato di benessere persistente – fisico e psicologico, personale e sociale, umano ed ecologico – che accentui la natura olistica della salute, collegando quella mentale a quella fisiologica, quella individuale alla collettiva e l’umanità al pianeta.

Nella sua prima versione, del dicembre 2019, il Green Deal non menzionò la parola disuguaglianza. Oggi l’ingiustizia sociale, spinta dall’inflazione, sta minacciando le ambizioni ambientali dell’Unione Europea. Il rischio di deragliare dev’essere preso sul serio, il che significa raddoppiare questa ambizione, non tirarsi indietro.

Sono proprio le politiche di non transizione che minacciano le politiche di transizione. Ma non possiamo passare dagli shock al capovolgimento delle politiche e poi di nuovo agli shock, ammesso che questa sia una strategia. La transizione ecologica europea non è stata concepita come una postura reversibile, è invece una necessità vitale.

Éloi Laurent è stato uno dei relatori al convegno di giugno dei sindacati europei su ‘A Blueprint for Equality’ (Un programma per l’uguaglianza).

Dalla gestione pubblico-privato a quella pubblico-comunità

10 Gen


di Satoko Kishimoto e Louisa Valentin

Nel luglio 2021 la Commissione Europea ha presentato il Piano Verde (Green Deal), che dovrebbe trasformare la UE in una economia competitiva che gestisce in modo efficiente le risorse. Entro il 2050 le emissioni di gas-serra dovrebbero essere azzerate e “nessuno verrà lasciato indietro”.

Il Piano Verde si affida molto al finanziamento privato per creare grandi investimenti per il clima. Esso quindi si basa su un modello fallito: il partenariato pubblico-privato, che socializza i rischi e privatizza i guadagni. Allo stesso tempo, il piano trascura il ruolo che stanno avendo le comunità nel gestire la transizione ecologica, dalla riduzione delle emissioni al riadattamento delle abitazioni.

Dopo 40 anni, l’esperimento neo-liberista e le politiche di austerità si dimostrano più costosi e anche meno trasparenti. Essi hanno atrofizzato la capacità del settore pubblico di coordinare le politiche pubbliche, dal clima all’esclusione sociale.

I dati del Transnational Institute mostrano che la de-privatizzazione dei servizi pubblici è lo scopo per cui gli enti locali stanno abbandonando le collaborazioni pubblico-privato e stanno riportando i servizi all’interno (in-house). Attualmente le de-privatizzazioni sono 1.556.

Collaborazione pubblico-comunità
Dobbiamo ripensare radicalmente il nostro approccio e avviare un nuovo paradigma per salvare il clima e la sicurezza sociale. I punti di partenza sono l’impegno pubblico e il finanziamento. I Comuni devono accordarsi con i residenti e le organizzazioni locali, invece di cercare consulenti globali e investitori privati.

La collaborazione pubblico-comunità è un approccio innovativo che produce idee nuove per fornire beni e servizi pubblici. Essa permette di esplorare nuove forme di prestazioni pubbliche attraverso il rafforzamento delle comunità nell’affrontare le sfide odierne. Un recente rapporto del Transnational Institute esamina 43 collaborazioni pubblico-comunità per capire come funzionano la proprietà, la gestione e il finanziamento, analizzando più da vicino 10 casi.

Si sono trovati un gran numero e una grande diversità di collaborazioni sperimentali per ridurre la povertà e lavorare contro la crisi climatica. I Comuni sono più attrezzati dei monopoli privati per individuare i problemi locali, e possono trovare soluzioni lavorando sul terreno insieme con le comunità.

Comproprietà a Wolfhagen (Germania)
La collaborazione tra cooperative di cittadini e Comune per produrre energia rinnovabile, dopo la de-privatizzazione, è un eccellente esempio di comproprietà, co-finanziamento e decisioni prese insieme. Nel 2005 la cooperativa BEG Wolfhagen acquistò il 25% della compagnia municipale di energia. I cittadini, grazie alla comproprietà, poterono partecipare alle decisioni sulla produzione e fornitura di energia. Essi collaborano attivamente anche alla transizione verso il 100% di energia rinnovabile, un impegno preso nel 2008. La comproprietà delle energie rinnovabili è parte essenziale di una transizione basata sui cittadini.

Coinvolgimento dei cittadini a Cadice
Coinvolgere i cittadini per produrre insieme politiche per una corretta transizione può aiutare i Comuni a capire quali sono i loro bisogni e dar voce alle comunità. A Cadice (Spagna) il Comune ha risposto positivamente all’enorme richiesta di una transizione al 100% di energia rinnovabile.

La città ha costituito un gruppo di lavoro sulla transizione energetica e uno sulla povertà energetica. Il primo ha il compito di aiutare l’azienda a maggioranza comunale Eléctrica de Cádiz a trasformarsi in un fornitore al 100% di rinnovabili con la collaborazione di cooperative e organizzazioni ambientaliste e dell’Università.

L’altro gruppo di lavoro ha il compito di progettare un sussidio del Comune alle famiglie in difficoltà finanziarie. Il programma creato offre sostegno finanziario e alfabetizzazione energetica.

I due gruppi di lavoro hanno avviato un processo di coproduzione partecipata e hanno fatto convergere sulla sfida climatica diversi gruppi locali: la comunità, l’accademia, e altri con competenza tecnica.

Soluzioni innovative
Le collaborazioni pubblico-comunità hanno il potere di lanciare soluzioni innovative per le odierne sfide sociali ed ecologiche. Esse sono la prova che il denaro pubblico investito nelle comunità crea il cambiamento di cui abbiamo bisogno.

Il Piano Verde europeo rappresenta un’opportunità storica. Non c’è più tempo per ripetere gli errori del passato affidandoci troppo ai finanziamenti privati o a predizioni troppo ottimistiche su tecnologie non sperimentate, come la cattura della CO2.

Invece il denaro pubblico si può investire direttamente nelle comunità locali, facilitando subito la riduzione reale delle emissioni e una giusta transizione. Quindi, affrontare la crisi climatica può diventare un programma per ricostruire il benessere della comunità mettendo al centro i valori di solidarietà, giustizia e democrazia.

(testo originario: “European Green Deal: can it tackle the climate crisis?”, Social Europe, 4th January 2022)