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Aggravare la fame dell’Africa

9 Ott


documento dell’Alleanza per la Sovranità Alimentare in Africa (promossa da Timothy A. Wise), 29-8-2023 (traduz. nostra)

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Ancora una volta le organizzazioni dei coltivatori africani fanno appello ai leader del continente e ai donatori che li sostengono perché mettano da parte i badili della Rivoluzione Verde (promossa da AGRA: Alliance for Green Revolution in Africa), escano dall’oscurità, controllino il danno che il loro fallimentare modello di sviluppo ha prodotto e si dirigano verso un’agricoltura ecologica più basata sulle piccole aziende.

L’Alleanza per la sovranità alimentare in Africa ha concluso il suo incontro annuale sui diritto alle sementi denunziando l’Alleanza per la Rivoluzione Verde e i suoi associati per le continue pressioni dirette a influenzare la politica dei governi africani sulle sementi e la regolazione biologica allo scopo di aumentare l’appropriazione e il controllo delle sementi nel continente. I partecipanti hanno previsto una conferenza stampa virtuale per il 30 agosto per chiedere: “Nessuna decisione su di noi senza di noi!”.
Nel chiedere un riassetto strategico, essi non ignorano la complessità delle cause della fame nel continente – cambiamento climatico, conflitto e corruzione accentuati dai disastri della pandemia, costi crescenti dei fertilizzanti e importazione di cibo da Russia e Ucraina. Essi constatano che la strategia per lo sviluppo rurale basata sulla Rivoluzione Verde guidata dalle grandi imprese e basata sulla tecnologia si è dimostrata inadatta per aiutare i piccoli coltivatori a misurarsi con queste sfide.
Nel 2006 AGRA offrì una strategia coerente e obbiettivi molto ambiziosi. Essa affermava che la sua promozione aggressiva delle sementi commerciali e dei fertilizzanti sintetici avrebbe creato un circolo virtuoso di sviluppo agricolo. Alzando i rendimenti si sarebbe sfamata la gente e stimolato ulteriori investimenti in tecnologie agricole per accrescere la produttività. L’auto-proclamata “teoria del cambiamento” di AGRA avrebbe raddoppiato il prodotto e i redditi per 30 milioni di famiglie di piccoli agricoltori entro il 2020 e dimezzato la fame.
Dopo 17 anni, e più di un miliardo di dollari spesi, l’evidenza mostra che la teoria del cambiamento di AGRA era sbagliata ad ogni passo. Quesi semi e quei fertilizzanti non hanno causato nessuna rivoluzione nella produttività. I rendimenti sono cresciuti solo del 18% in 14 anni, appena un po’ di più di quanto fosse prima della Rivoluzione Verde.
Il rendimento del mais è aumentato solo del 29% nonostante i sussidi governativi di miliardi di dollari per far sì che i coltivatori comprassero – e le imprese vendessero – le sementi. Nel frattempo le colture tradizionali più nutrienti e più resistenti al cambiamento climatico, come il miglio e il sorgo, hanno visto ristagnare o calare i loro rendimenti mentre i coltivatori piantavano il mais che era più sussidiato.

Con miglioramenti così limitati nel rendimento, i coltivatori non hanno ottenuto dalla vendita più cibo o redditi più alti. Hanno visto solo che i costi crescenti delle sementi e dei fertilizzanti che non davano i rendimenti previsti. Quando i sussidi vennero tagliati perché i bilanci dei governi erano ormai spremuti, i coltivatori smisero di comprare sementi e fertilizzanti e tornarono alle loro vecchie sementi, se erano riusciti a salvarle. Molti si trovarono in debito dopo che le sementi e i fertilizzanti acquistati non avevano ripagato il loro investimento.
Molti trovarono che la loro terra era diventata meno fertile. I nutrienti erano stati drenati dalla monocoltura del mais. I fertilizzanti nutrivano il mais non il suolo; quest’ultimo continuava a perdere fertilità, e mancava dei materiali organici forniti da metodi più ecologici come le colture incrociate e l’uso del letame.
Quindi nessuno si sorprenderà che la fame sia aumentata. I coltivatori non coltivavano molto più cibo di prima. E quello che coltivavano – per lo più amidacei come mais e riso – erano meno nutrienti dell’insieme di piante che coltivavano prima. E avevano meno denaro di prima per comprare cibo, sia pure meno nutriente. Molti era a corto di soldi perché avevano cercato di pagare i debiti contratti per gli investimenti falliti in cibo commerciale e fertilizzanti. I donatori internazionali non hanno ascoltato gli appelli dei coltivatori africani a cambiare strategia. Ma AGRA ha mostrato un nuovo logo, una cosmesi, invece del rifacimento di cui l’Africa ha bisogno.

Al Forum della Rivoluzione Verde dell’anno scorso, i partecipanti hanno visto una serie di video che annunziavano che veniva rimossa l’espressione “rivoluzione verde”. Quest’anno l’incontro si è chiamato African Food System Summit. La stessa AGRA ha tolto dal suo nome “green revolution”, anche se continuerà a chiamarsi AGRA.

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Mazzucato e altri: come affrontare la crisi dell’acqua

15 Mag


15-5-2023

Mariana Mazzucato e gli altri co-presidenti della Commissione globale per l’economia dell’acqua (Ngozi Okonjo-Iweala, Johan Rockström e Tharman Shanmugaratnam) propongono una strategia globale per la crisi dell’acqua (1). Per superare la crisi, affermano, bisogna affrontare il cambiamento climatico e attuare molti degli obiettivi dell’ONU per lo Sviluppo sostenibile.
I disastri dell’ultimo anno (inondazioni, siccità, cicloni, ondate di caldo) hanno attirato l’attenzione, ma la crisi dell’acqua no, anche se è causa di insicurezza cronica per il cibo e la salute in intere regioni del mondo. Ogni 80 secondi un bambino al di sotto dei 5 anni muore per malattie causate da acqua inquinata e centinaia di milioni crescono rachitici.

Si è formato un circolo vizioso fra crisi dell’acqua, riscaldamento globale, calo della biodiversità e perdita del “capitale naturale”. L’erosione dei terreni umidi sta trasformando i grandi serbatoi di carbonio in nuove fonti di emissione ad effetto-serra. Nessun paese, dice il documento, può controllare da solo metà delle piogge che riceve. L’acqua potabile deriva in ultima istanza dalle piogge, che a loro volta dipendono dalla stabilità degli oceani, la presenza di foreste ed ecosistemi di altri paesi.

Gli autori propongono quindi 7 punti che sono necessari per una strategia globale dell’acqua. Innanzitutto, riconoscere l’acqua come bene comune e trattarla come tale. Tutti siamo connessi attraverso l’acqua, perciò dobbiamo unirci per battere quel circolo vizioso rispettando il senso di giustizia e di equità.

Secondo punto, dobbiamo adottare un approccio che abbracci tutte le funzioni chiave dell’acqua: riconoscere che avere acqua potabile per usi domestici è un diritto umano, stabilizzare il ciclo idrogeologico e governare insieme l’uso industriale dell’acqua. Per mobilitare le persone interessate, dobbiamo adottare politiche innovative: accrescere gli investimenti per l’acqua attraverso compartecipazioni pubblico-privato di livelli simili a quelli che usammo 50 anni fa per andare sulla luna. Quell’impresa generò innovazioni anche nella nutrizione, l’elettronica, le comunicazioni, i materiali, il software.

Terzo, dobbiamo smettere di sottopagare l’acqua, alzare il prezzo e aiutare i più poveri a pagarla. Ma dobbiamo anche tener conto del valore non economico dell’acqua, per proteggere davvero l’ecosistema da cui dipendono il ciclo dell’acqua e le società umane.

Quarto punto. Dobbiamo eliminare gradualmente i 700 miliardi di dollari che spendiamo ogni anno per sussidi all’agricoltura e all’acqua – che spesso incoraggiano il consumo eccessivo di acqua – e ridurne la dispersione nei sistemi di distribuzione.

Quinto. Bisogna stabilire una Compartecipazione equa per l’acqua, per far sì che i paesi a basso-medio reddito possano investire nell’accesso sostenibile ad essa. Questa Partnership deve unificare i flussi di finanziamento attuali, riorganizzare i sussidi locali inefficienti, facendo in modo che le banche e le istituzioni per lo sviluppo sostengano la finanza pubblica e attirino gli investimenti privati. I guadagni prodotti da questi investimenti saranno largamente eccedenti rispetto ai costi, specialmente se le iniziative affrontano il problema del cambiamento climatico e di uno sviluppo più inclusivo.

Sesto. Bisogna sostenere innovazioni più dinamiche per raggiungere nuove risorse acquifere. Anche qui gli investimenti daranno alti guadagni e permetteranno avanzamenti in settori collaterali. Ad esempio, se si migliora il sistema di conservazione dell’acqua potabile dovremo ripensare il governo delle terre umide e delle risorse acquifere presenti nel terreno, che finora sono state sprecate. Per sviluppare un’economia urbana circolare dell’acqua, basata sul riciclo, dovremo creare una nuova logica del modo di trattare lo spreco industriale e urbano di acqua. L’irrigazione di precisione, la coltivazione resiliente alla siccità o alimentata dalla pioggia e a minore intensità di acqua ci porteranno ad avere sistemi alimentari più sostenibili e redditi migliori per chi coltiva. L’impronta ecologica dell’acqua nella manifattura può essere migliorata, compreso il riuso di acqua nella produzione di materiali strategici come il litio.

Infine, dobbiamo dare nuove forme al governo dell’acqua. L’attuale sistema è troppo frammentato e inadeguato. Una via da praticare è la politica commerciale. Se includiamo negli accordi commerciali misure standard per la conservazione dell’acqua, potremo evitare i sussidi che incoraggiano lo spreco di acqua e potremo incoraggiare pratiche più sostenibili. Dobbiamo usare l’approccio multilaterale anche per sviluppare specializzazioni a capacità nuove, proteggere i coltivatori, le donne, i popoli nativi e i consumatori.

Oggi, concludono gli autori, abbiamo l’occasione di convertire la crisi dell’acqua in una opportunità per un progresso globale, creando un nuovo contratto sociale basato su giustizia ed equità.

(1) “Confronting the global water crisis”, Social Europe 23rd March 2023.

Una urgente azione sul clima può dare un futuro vivibile a tutti

3 Apr


di IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change)
Gli scienziati del IPCC, riuniti a Interlaken (Svizzera), hanno rilasciato il 20 marzo l’ultimo appello sul clima. Il presidente del IPCC Hoesung Lee afferma: “… Il “Rapporto in sintesi” sottolinea l’urgenza di intraprendere azioni più ambiziose e mostra che se agiamo adesso possiamo ancora ottenere un futuro vivibile e sostenibile per tutti”.
Nel 2018 l’IPCC ha mostrato la grandezza senza precedenti dell’impegno necessario per mantenere il riscaldamento climatico a 1,5 gradi. Dopo cinque anni la sfida è diventata più grande per il continuo aumento delle emissioni di gas-serra. …
Più di un secolo di combustibili fossili, di uso disuguale e insostenibile di energia e di consumo di terra hanno portato il riscaldamento globale a più di 1,1 gradi al di sopra dei livelli pre-industriali. Questo ha prodotto fenomeni meteorologici sempre più frequenti e sempre più estremi …
Ogni incremento del riscaldamento risulta in un rischio sempre più accelerato. Ondate di calore più intense, piogge più forti e altri fenomeni estremi del tempo aumentano ulteriormente i rischi per la salute umana e gli ecosistemi. In ogni regione c’è gente che muore che il caldo estremo. … Si prevede che aumenteranno il condizionamento climatico del cibo e la scarsità di acqua. Quando i rischi si combinano con altri eventi avversi, come le pandemie e i conflitti, diventano ancor più difficili da affrontare.
… Le perdite e i danni … colpiscono in modo più grave le persone e gli ecosistemi più vulnerabili. …
Aditi Mukherji, una dei 93 autori del Rapporto in sintesi, cioè del capitolo conclusivo del sesto incontro del Panel, afferma: “La giustizia climatica è cruciale perché coloro che sono meno responsabili del cambiamento climatico sono anche quelli che ne sono più colpiti. Quasi la metà della popolazione mondiale vive in regioni altamente vulnerabili per il cambiamento climatico. Negli ultimi decenni nelle aree molto vulnerabili le morti per inondazioni, siccità e uragani sono aumentati di 15 volte”.
… Conservare il riscaldamento a un 1,5 gradi sopra il livello pre-industriale in tutti i settori esige una riduzione profonda e rapida delle emissioni di gas-serra. … Le emissioni devono iniziare da subito a ridursi e devono diminuire almeno della metà entro il 2030.
La soluzione sta in uno sviluppo resiliente al clima. … Per esempio: l’accesso all’energia pulita e alle sue tecnologie migliora la salute, specialmente di donne e bambini; l’uso di elettricità a basso tasso di anidride carbonica o andare a piedi o in bicicletta e usare i trasporti pubblici migliora la qualità dell’aria e la salute, accresce le occasioni di lavoro e aumenta l’equità. I vantaggi nella salute dei cittadini per il solo miglioramento dell’aria sarebbero più o meno uguali o forse maggiori dei costi per la riduzione delle emissioni.
Uno sviluppo resiliente al clima diventa sempre più difficile con l’aumento del riscaldamento climatico. Per questo le scelte dei prossimi (pochi) anni avranno un ruolo cruciale … Esse, per essere efficaci, devono radicarsi nei nostri valori, visioni del mondo e conoscenze, incluse le conoscenze scientifiche, quelle dei nativi e quelle locali. Questo approccio faciliterà uno sviluppo resiliente al clima e permetterà soluzioni socialmente accettabili e adatte ai contesti locali.
Christopher Trisos, uno degli autori del Rapporto afferma: “I maggiori miglioramenti nel benessere – per le comunità a basso reddito e emarginate, comprese quelle che vivono in insediamenti informali – possono venire dallo stabilire una priorità fra le riduzioni del rischio climatico. L’accelerazione della azioni per il clima si può avere soltanto se c’è un aumento dei finanziamenti da diverse parti. Un finanziamento insufficiente e disorganico comporta un arretramento”.
C’è il capitale globale sufficiente a ridurre le emissioni di gas-serra se si abbassano le attuali barriere. … I governi sono decisivi per ridurre queste barriere attraverso finanziamenti pubblici e chiari segnali agli investitori. Investitori, banche centrali e regolatori finanziari possono avere un ruolo.
Ci sono misure politiche già sperimentate che possono contribuire a profonde riduzioni delle emissioni se vengono rafforzate ed estese. Impegno politico, politiche coordinate, cooperazione internazionale, sorveglianza degli ecosistemi e gestioni inclusive sono tutte cose importanti per ottenere un’azione climatica efficace ed equa.
Se la tecnologia, il sapere pratico e misure politiche adatte vengono condivisi e si provvede a finanziamenti adeguati, ogni comunità può ridurre o evitare un consumo ad alta intensità di carbone. …
Il clima, gli ecosistemi e la società sono interconnessi. Una conservazione efficace ed equa di circa il 30-50% della superficie terrestre, dell’acqua dolce e degli oceani aiuterà a avere un pianeta sano. Le aree urbane offrono un’occasione su scala globale per un’ambiziosa azione climatica che contribuisca allo sviluppo sostenibile. I cambiamenti per cibo, elettricità, trasporti, industria, edilizia e uso del suolo possono ridurre le emissioni di gas-serra. Al contempo possono facilitare uno stile di vita a basso consumo di carbone… Una migliore comprensione delle conseguenze del sovra-consumo può aiutare la gente a fare scelte più informate.
Lee ha detto: “Le trasformazioni sono più probabili dove c’è fiducia, dove ognuno collabora per dare priorità alla riduzione dei rischi e dove i vantaggi e i costi sono ripartiti in modo equo. Noi viviamo in un mondo vario, in cui ognuno ha diverse responsabilità e diverse occasioni di favorire il cambiamento. Alcuni possono fare molto mentre altri avranno bisogno di aiuto nel gestire il cambiamento”.

Oggi è l’occupazione che crea lo sviluppo (non viceversa)

1 Mar


di Cosimo Perrotta

Spesso si crede che il progresso tecnico crei occupazione. E’ esattamente il contrario. Il progresso tecnico consiste nel sostituire lavoro umano con lavoro meccanico o digitale (che è più produttivo e dà maggior profitto). Il progresso tecnico quindi, di per sé, crea disoccupazione, e questa è tanto più estesa quanto più il primo è rapido.

Perché allora si pensa l’opposto? Perché si confonde il progresso tecnico con lo sviluppo economico complessivo. Il progresso tecnico aumenta la produttività, cioè a parità di costo produce una quantità maggiore di beni o servizi. Di conseguenza il costo dei singoli beni diminuisce, e ciò va a vantaggio di tutti. È questo propriamente il meccanismo che accresce la ricchezza della società. L’aumento della ricchezza sociale può portare a maggiori investimenti e quindi a una maggiore occupazione.

Dunque è vero che il progresso tecnico alla fine può dare maggiore occupazione, ma solo indirettamente, attraverso una serie di passaggi e a determinate condizioni. La condizione principale è che l’abbassamento del costo dei beni, accrescendo il potere d’acquisto dei salari e degli altri redditi, provochi un aumento della domanda. Ma questo non accade necessariamente.

Oggi molti autori ci assicurano che il progresso tecnico non ridurrà i posti di lavoro, anzi li accrescerà, nonostante il diffondersi dei robot nella produzione. I nuovi posti di lavoro, essi dicono, saranno sempre di più di quelli distrutti. Questi autori si illudono, come si illudeva Ricardo 200 anni fa (1). Oggi non ci sono le condizioni di mercato per accrescere la domanda, e senza domanda – cioè la prospettiva di vendere – le imprese non investono.

Questa situazione si trascina sin dagli Ottanta. Le politiche del welfare state, mentre avevano accresciuto la produttività del lavoro, avevano anche esaurito la domanda di consumi elementari. Occorreva quindi aprire nuovi mercati per soddisfare nuovi bisogni. Bisognava avviare la transizione all’economia post-industriale, cioè accrescere rapidamente i consumi immateriali, i servizi, i beni collettivi, l’istruzione. Verso questo tipo di consumi spingeva anche il decollo dell’informatica che avveniva proprio in quegli anni. Ma questa transizione non avvenne, per motivi sociali complessi, che qui sarebbe troppo lungo spiegare.

Da allora l’economia digitale ha trainato il progresso tecnico a ritmi mai visti prima e in poco tempo ha reso inutili nei paesi più sviluppati centinaia di milioni di posti di lavoro. Ma mentre il progresso tecnico galoppava la società ristagnava. Alla dirompente disoccupazione tecnologica si è aggiunta nello stesso periodo il trasferirsi di capitali e poi macchinari e intere fabbriche dall’Occidente verso i paesi emergenti. Infatti la saturazione dei mercati interni occidentali portava i capitali a cercare investimenti all’estero. Così la disoccupazione si ingigantiva ancor più.

Le politiche neoliberiste dell’austerità vietavano (e vietano) allo stato di intervenire. Intanto la disoccupazione larghissima ha reso disponibili per le imprese masse di persone disposte a qualsiasi lavoro precario, mal pagato e privo di garanzie. Quindi lo sviluppo, invece di progredire parallelamente al progresso tecnico, si è bloccato. Ad esempio in Italia – economia particolarmente fragile – la produttività complessiva non cresce da 20 anni. Questa spirale perversa ci sta portando verso la disgregazione sociale: caduta del senso civico, capri espiatori ad ogni angolo (i migranti, i neri, i complotti), rigurgiti nazifascisti, ecc.

Oggi dunque la disoccupazione, creata naturalmente dal progresso tecnico, non viene compensata da un aumento sufficiente della domanda. D’altra parte non si può e non si deve frenare il progresso tecnico, sarebbe il disastro finale. Quasi tutti gli osservatori e i politici (compreso, sembra, l’attuale governo italiano) si arrovellano per inventare nuove politiche di incentivi alle imprese, perché investano allargando così l’occupazione. Ma è un errore che ci sta portando alla rovina.

Le imprese sussidiate in qualsiasi modo (sgravi fiscali, “ristori”, ecc.) o puntano sul progresso tecnico (le start-up, i giganti del digitale, Big Farma, ecc.), e allora non creano occupazione, oppure si industriano per sopravvivere, e in tal caso non investono proprio. Per non parlare delle imprese speculative e di quelle “prendi i soldi e scappa”.

Allo stato attuale nessun tipo di impresa è in grado di rialzare la domanda. Deve farlo lo stato (come è successo tantissime volte nella storia del capitalismo). Serve un piano di larghissimi impieghi che ricostituisca livelli sufficienti della domanda interna dando salari e stipendi, e in questo modo rilanci la convenienza delle imprese ad investire.

Ciò non sarebbe lavoro improduttivo o parassitario. Al contrario. La crisi attuale ha privato una parte crescente della società dei beni elementari per una vita appena dignitosa e ha privato l’intera società di servizi pubblici decenti. C’è tanto lavoro produttivo da impiegare per incontrare la domanda potenziale di chi ha bisogni insoddisfatti.

(1) V. David Ricardo, Principi di economia politica … (1821), Milano, Isedi, 1976, cap. 31. V. anche C. Perrotta, Unproductive Labour …, New York-London, Routledge, 2018.

Epidemia e distruzione dell’ambiente

6 Apr

di Cosimo Perrottaai tempi del coronavirus: ambiente 6-4-2020

Pierluigi Battista fustiga i fustigatori dei moderni costumi occidentali. Essi, afferma, reagiscono all’epidemia come in un nuovo medioevo. Indicano come causa del flagello i nostri peccati di incontinenza, per i quali ci punisce, non Dio questa volta, ma la natura. Stessa cultura mistica e pre-scientifica, stesso irrazionale senso di colpa di allora. No, risponde Battista, “non è colpa nostra”, non è colpa dell’alta velocità, delle grandi città, del frequentare bar ristoranti cinema teatri concerti discoteche e palestre, dell’aprire industrie, fare turismo e nemmeno dei consumi superflui. Per debellare il virus dobbiamo andare avanti e non indietro, esorta l’autore, e chiedere alla scienza di risolvere i problemi. La ragione contrapposta alla superstizione.

C’è, però, qualcosa che non funziona in questo appello alla ragione. Esiste ormai una vasta letteratura scientifica che mostra come i mega-allevamenti siano il veicolo fondamentale per la diffusione delle epidemie. Essi sono presenti soprattutto in paesi come Cina, Australia, USA, Olanda, dove si arriva fino a 100mila mucche o 2 milioni di polli in un solo allevamento; ma ci sono in tutti i paesi a gestione capitalistica (Cina compresa). Questa letteratura è stata approvata e confermata dall’OMS e dalla FAO (2). Gli animali vengono imbottiti di antibiotici (che alla lunga diventano inefficaci), di estrogeni e antiparassitari e costretti a una vita innaturale che – oltre a torturarli – ne indebolisce le difese organiche e li rende facile preda dei virus. Per di più, quando le epidemie decimano gli animali di allevamento e diminuisce l’offerta di carne, in Cina cresce la domanda di carne di animali selvatici, che immettono nuovi virus nell’ambiente antropizzato.

Ma il fattore fondamentale del passaggio dei virus dagli animali selvatici all’uomo è quello più anonimo della sistematica deforestazione del pianeta. L’habitat selvaggio viene ristretto sempre più finché gli animali selvatici per sfuggire alla morte si adattano all’ambiente antropizzato e colpiscono gli animali degli allevamenti. Perché l’habitat selvaggio viene distrutto? Per far posto appunto all’urbanizzazione sfrenata e alla ancor più sfrenata rapina e distruzione delle risorse naturali.

La distruzione riguarda le foreste pluviali che producono l’ossigeno, l’acqua potabile che ci fa sopravvivere, l’aria che assorbe la CO2 prodotta dai combustibili fossili, la terra violentata dai nostri fertilizzanti e consumata dall’urbanizzazione, gli oceani pattumiera dei crescenti rifiuti, i fiumi che raccolgono i rifiuti tossici gettati illegalmente, la fauna decimata da caccia e pesca e falcidiata dagli incendi delle foreste, le piante, il clima, i ghiacciai, il permafrost, i coralli, il Polo Sud …

La distruzione sistematica dell’ambiente è andata avanti per secoli, durante i quali gli occidentali hanno sottomesso quasi tutti gli altri paesi, ne hanno fatto delle colonie, poi hanno continuato a sfruttarli col neo-colonialismo e oggi cercano di farlo ancora con la globalizzazione del commercio internazionale. La globalizzazione, però, mentre ha rafforzato lo sfruttamento dei paesi più poveri o più oppressi politicamente (l’America Latina, una parte dell’Africa e dell’Asia) ha facilitato lo sviluppo di altri paesi, in primis Cina e India.

Quando lo sviluppo industriale, basato sulla distruzione illimitata delle risorse, si è esteso a quasi tutto il mondo, quel modello è diventato insostenibile. Esso crea ricchezza, certo, ma i ceti che se ne giovano aumentano, ad esempio, la domanda di carne e pesce. Questo spinge i produttori a bruciare l’Amazzonia e le altre foreste per fare posto ai pascoli per i bovini; e a consumare fino all’estinzione molte specie di mammiferi, uccelli e pesci; ad estendere gli allevamenti marini dove i salmoni e altre specie marine subiscono le stesse torture che avvengono negli allevamenti terrestri.

Tutto questo sta peggiorando la qualità della nostra vita. Mangiamo carne gonfia di ormoni e antibiotici, pesce che ci trasmette le microplastiche che ha ingurgitato, vegetali ricchi di pesticidi e fertilizzanti chimici; respiriamo un’aria sempre più satura di veleni e di virus. Così aumentano le malattie di cancro, dei muscoli (sla), respiratorie (asma, Sars e altri coronavirus). E adesso siamo anche costretti, in nome della libertà di consumo, a stare chiusi in casa per mesi. Dott. Battista che c’è di razionale in tutto questo?

E che cosa c’è di razionale nell’idea – che guida il nostro sviluppo da 5 secoli – che le risorse sono illimitate e le si può sprecare impunemente? Non si tratta di tornare a una vita povera, ma di regolare la crescita, in modo che proceda senza sprecare le risorse e senza distruggere l’ambiente, anzi risanandolo.
“Che errore dire: è colpa nostra”, Corriere della Sera 4 aprile.

(2) Vedi la buona rassegna di Ángel Luis Lara su il Manifesto del 5 aprile: https://ilmanifesto.it/covid-19-non-torniamo-alla-normalita-la-normalita-e-il-problema/ .

CoViD 19: globalizzazione certa dei danni e incerta dei rimedi – II parte

24 Mar

 

di Luigi Bisanti, epidemiologo – 24-3-2020

L’Europa è attualmente il principale focolaio nel mondo ma la distribuzione geografica è disomogenea. L’Italia è il Paese europeo più precocemente colpito e con il numero più alto sia di malati sia di morti. Spagna, Germania, Francia hanno lo stesso ordine di grandezza (decine di migliaia) di malati dell’Italia ma differiscono per numero di decessi dichiarati: 4.825 in Italia e 1.753, 93, 562 rispettivamente negli altri tre Paesi. I Paesi del Nord Europa hanno finora registrato poco più di 1.000 casi e poco più di 10 decessi ciascuno. È impossibile allo stato attuale stabilire quanto queste differenze siano attribuibili a modalità diverse di classificare e di contare e quanto all’efficacia delle azioni di contenimento, di prevenzione e di trattamento messe in atto Per ora è da registrare l’assenza di strategie di contenimento dell’epidemia concordate tra i Paesi dell’EU.

La Cina e la Corea del Sud – già esperte di lotta ai Corona virus per aver subito una grave epidemia di SARS nel 2002 – hanno con successo adottato la strategia di Soppressione ricorrendo tempestivamente (caratteristica essenziale) e con un enorme sforzo organizzativo: a) al riconoscimento e isolamento dei casi anche solo blandamente sospetti, b) alla ricerca dei contatti e al loro collocamento in quarantena domiciliare, c) al largo uso del test per la ricerca del virus nei contagiati, nei contatti e in altri gruppi ritenuti a rischio, d) al distanziamento sociale (rigido in Cina, mirato in Sud Corea).

In Italia si sono fatti oltre 258.402 test (il numero più alto al mondo dopo quello della Corea), sono stati isolati i malati e posti in quarantena i contatti e da due settimane vige un distanziamento sociale, via via più rigido, sull’intero territorio nazionale. Le misure di contenimento adottate sono simili a quelle della repubblica sud-coreana, l’esordio dell’epidemia è stato quasi coincidente nei due Paesi, le rispettive popolazioni hanno dimensioni analoghe, entrambi hanno un ordinamento democratico. Eppure gli esiti sono molto diversi: in Corea sono stati registrati, a oggi, “solo” 6.799 casi e 102 morti (5), frequenze molto inferiori alle nostre. La spiegazione più plausibile di questa differenza risiede nella piena consapevolezza delle azioni da intraprendere e nella tempestività con cui i coreani le hanno attuate.

In Italia subiamo gli effetti di incertezze, ritardi, ambiguità delle comunicazioni, conflittualità istituzionali, sottodimensionamento di un – sia pure eccellente – servizio sanitario. La reazione all’epidemia non è stata lucida, completa e immediata; è sembrata piuttosto svolgersi, un passo alla volta, inseguendo l’evolversi della situazione. È più facile criticare che governare, non c’è dubbio; infatti, non intendiamo sottolineare colpe ma contribuire a migliorare l’azione.

Su The Lancet (6) Hellewell afferma che “la finestra temporale per contrastare in modo efficace un’epidemia è molto stretta: quando il numero di casi iniziali è cresciuto fino a 40, la probabilità di insuccesso di qualsiasi azione di contenimento è dell’80%, anche se si fosse riusciti a rintracciare e a isolare l’80% dei contatti”. Inoltre, adottare politiche di contenimento nel proprio territorio ha scarso valore se la stessa cosa non accade nei territori contigui. L’editoriale dell’ultimo numero di Nature (7) ci ricorda che “l’azione coordinata di tutti è l’interesse di ciascuno”. Invece vediamo che alcuni negano che l’epidemia esista, altri tramano per comprare i diritti esclusivi del futuro vaccino; alcuni vogliono lasciare che l’epidemia faccia il suo corso, altri vogliono che ogni singolo cittadino si sottoponga al test del virus. E questa eterogeneità non riguarda solo le macro aree del pianeta; essa agisce su ogni scala fino a differenziare la condotta dei sindaci dei paesini più sperduti.

Eppure basterebbe essere d’accordo su pochi punti: imparare da chi ha già avuto il problema; predisporrei piani di azione basati sulle prove di efficacia; agire tempestivamente; seguire le indicazioni delle agenzie internazionali di riferimento per dare uniformità agli interventi.
La globalizzazione ci ha procurato il danno, solo un’azione globalizzata può darci il rimedio.

(5) https://www.worldometers.info/coronavirus/country/south-korea/
(6) Joel Hellewell et al. Lancet Glob Health 2020; 8: e488–96 Published Online February 28, 2020 https://doi.org/10.1016/ S2214-109X(20)30074-7
(7) COVID-19: what science advisers must do now; Nature, Vol 579, 9 March 2020, 319-20.

CoViD 19: globalizzazione certa dei danni e incerta dei rimedi – I parte

23 Mar

 

di Luigi Bisanti, epidemiologo

Il virus SARS-COV-2 non esisteva in natura fino a qualche mese fa e perciò è sconosciuto al sistema immunitario di tutti gli umani. Del virus e della malattia che determina, la Coronavirus (COVID-19), sappiamo ancora troppo poco. I caratteri principali possiamo riassumerli così:
il virus si diffonde molto velocemente da persona a persona attraverso le particelle di vapor d’acqua e di saliva emesse dalla bocca;
la rapidissima espansione geografia dell’epidemia riflette la globalizzazione di produzioni, commerci e altre attività (il virus viaggia con le persone);
i bambini e i giovani adulti sono più resistenti alla malattia, gli anziani e i soggetti con patologie multiple sono più suscettibili;
un individuo infetto diventa contagioso poco prima dell’esordio dei sintomi;
il più temibile sviluppo di COVID-19 è una polmonite interstiziale atipica che compromette gli scambi gassosi tra gli alveoli polmonari e il flusso sanguigno;
non sono ancora disponibili farmaci efficaci contro il virus;
sono in corso nel mondo ricerche per trovare un vaccino; la sua produzione su larga scala richiede 12-18 mesi ma alcuni scienziati cinesi sostengono che un loro vaccino sarà pronto molto prima;

in Italia dall’inizio dell’epidemia (21 febbraio) a oggi (22 marzo) sono stati eseguiti 258.402 tamponi per la ricerca del virus; sono risultati positivi al test 59.138 soggetti, di questi 12% è guarito e 9% è morto; 80% dei deceduti ha più di 70 anni;
dei restanti 46.638 soggetti attualmente in osservazione, 51% ha manifestato solo sintomi simil-influenzali lievi o non nessun sintomo ed è attualmente in isolamento domiciliare, 43% ha sintomi respiratori che hanno richiesto ospedalizzazione, 6% sono pazienti critici trattati nelle unità di terapia intensiva . (1)

Tra le molte cose che ancora non sappiamo, due hanno una particolare rilevanza per contrastare l’epidemia:
non sappiamo se COVID-19 conferisce un’immunità definitiva (come succede per il morbillo e la poliomielite) o di lunga durata (come per la pertosse) o di breve durata (come per l’influenza);
è certo il contagio da soggetti portatori sani (infetti mai sintomatici) ma non sappiamo quanto diffusa sia questa modalità subdola di trasmissione.

Per interrompere, attenuare o prevenire l’epidemia di una malattia infettiva bisogna fare il deserto intorno all’agente patogeno, sottraendo ad esso i soggetti suscettibili. In mancanza del vaccino bisogna tenere lontani i contagiati dai suscettibili (isolamento dei contagiati e quarantena dei contatti) oppure i suscettibili dai contagiati limitando la mobilità dei primi (distanziamento sociale). Queste due modalità, con le loro varianti, sono state variamente combinate in due strategie: la Soppressione e la Mitigazione.

La Soppressione ha per obiettivo l’eliminazione o la drastica riduzione del virus. Un primo risultato, se la strategia ha successo, è che si riduce la pressione dei contagiati sulle strutture sanitarie, ma si allunga la durata dell’epidemia. Il risultato finale è la virtuale (ma non reale) eliminazione del virus dalla popolazione che, in attesa del vaccino, dovrà continuare ad essere sottoposta a sorveglianza per l’identificazione precoce di nuovi focolai interni e dei soggetti infetti esterni. Con la Soppressione, infatti, si ottiene la drastica riduzione del virus circolante ma la popolazione rimane suscettibile all’infezione.

Con la Mitigazione ci si propone di diminuire l’intensità dell’onda epidemica, lasciandola però correre fino al suo esaurimento. Il presupposto teorico della Mitigazione è che, avendo protetto i gruppi a rischio e lasciando però che più del 60-80% della popolazione venga infettato, essa acquisirà un’immunità specifica nell’arco di qualche mese e non avrà bisogno, perciò, di ricorrere alla vaccinazione.

Gli Stati uniti d’America e il Regno unito hanno esitato a lungo prima di arrendersi alla necessità di contrastare l’epidemia. Inizialmente Graham Medley, consulente scientifico del primo ministro, ha detto: “Dobbiamo procurarci ciò che è noto come immunità di gregge. Il solo modo per farlo, in assenza di vaccino, è lasciare che la maggioranza della popolazione si infetti. … Una bella, grande epidemia”. (2) Il primo ministro britannico ha avvisato: “Molte più famiglie perderanno anzitempo i loro cari”. (3) Un gruppo di lavoro molto qualificato dell’Imperial College di Londra costituito ad hoc per sviluppare modelli di simulazione degli effetti delle strategie di contenimento dell’epidemia, dice in un rapporto (4) che, se la strategia di Mitigazione proposta dal governo britannico venisse applicata, verrebbero a morte per COVID-19 circa 250.000 soggetti in UK e circa 1.1 milioni di soggetti negli USA. Di Mitigazione non si parla più e in entrambi i Paesi sono state tardivamente avviate – o sono ancora in attesa di avvio – modalità di contenimento dell’epidemia.

(1) I dati sull’Italia sono desunti dal sito del Ministero della Salute: http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioContenutiNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano&id=5351&area=nuovoCoronavirus&menu=vuoto

(2) http://www.thelancet.com Vol. 395, March 21, 2020

(3) NEJM March 20, 2020 DOI: 10.1056/NEJMp2005755

(4) Imperial College COVID-19, DOI: https://doi.org/10.25561/77482

”L’ONU sta lasciando morire i migranti in Libia”

25 Nov

Migranti e Sviluppo – Commenti esteri n° 34, a cura Piero Rizzo (25 XI 2019)
L’articolo di Foreign Policy selezionato per questo mese sparge del sale sulla ferita più che mai aperta dei migranti detenuti nei “campi di tortura” libici. E’ stato pubblicato il 10 ottobre con il titolo: ”L’ONU sta lasciando morire i migranti in Libia”.
L’obbiettivo primario per il quale l’UE sta finanziando la guardia costiera libica è di tenere i migranti fuori dall’Europa, non importa se essi vanno a finire nell’inferno dei campi di detenzione in balia delle milizie e dei trafficanti di esseri umani.
Dopo aver descritto il calvario di una donna che ha visto morire il figlio di 7 anni e il marito nel centro di detenzione di Zintan, l’autrice Sally Hayden, giornalista freelance impegnata sui diritti umani e le crisi umanitarie, prosegue.
Le loro morti non erano le uniche. Rifugiati e migranti nei centri di detenzione libici hanno iniziato a contattarmi nell’agosto 2018, dopo che gli era stato comunicato il mio rapporto da persone che avevo intervistato in Sudan l’anno precedente. Da allora, ho parlato con dozzine di detenuti in molti centri diversi, che usano telefoni nascosti per inviare informazioni su ciò che sta accadendo loro. Ho trovato ripetute conferme alle loro accuse da molte altre fonti.
Ho iniziato a inviare e-mail all’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees)  e all’IOM (International Organization for Migration) riguardo al numero crescente di morti a Zintan nell’ottobre 2018, poco dopo che le Nazioni Unite erano state coinvolte nel trasferimento di centinaia di migranti e rifugiati da Tripoli. Solo sette mesi dopo, quando 22 detenuti erano morti per mancanza di cure mediche e per le condizioni terrificanti,  le N.U. si interessarono finalmente di ciò che stava accadendo a Zintan e chiesero che i detenuti venissero trasferiti di nuovo. Quando gli è stato chiesto un commento, l’OIM ha dichiarato che la condivisione pubblica di rapporti non confermati di eventi a cui l’organizzazione non ha assistito, potrebbe minacciare la sicurezza dei migranti in detenzione. Il personale delle Nazioni Unite ha precedentemente confermato a Foreign Policy che nessuna organizzazione sta monitorando il numero di detenuti che muoiono in tutta la rete di centri di detenzione libici.
Questo è solo uno di una serie infinita di scandali che si verificano nella  rete di centri di detenzione in teoria gestiti dal Dipartimento Libico per la Lotta alla Migrazione Illegale, che è associato al Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Tripoli, sostenuto dalle N.U. Nella realtà, molti centri di detenzione sono controllati da milizie.
Decine di migliaia di rifugiati e migranti sono stati rinchiusi a tempo indeterminato nei centri di detenzione negli ultimi due anni e mezzo, dopo essere stati intercettati dalla guardia costiera libica mentre tentavano di raggiungere l’Italia attraverso il Mar Mediterraneo.
Alla domanda sul ruolo dell’Unione Europea nel facilitare lo sfruttamento, la tortura e l’abuso di migliaia di rifugiati e migranti in Libia, i portavoce dell’UE regolarmente ribadiscono che nei centri di detenzione sono presenti le Nazioni Unite , aggiungendo che l’UE sta cercando di migliorarne le condizioni e vorrebbe chiudere i centri.
Ha detto un uomo del Darfur che i detenuti sono stati minacciati e picchiati dalle guardie libiche di fronte al personale dell’UNHCR senza che questo sia intervenuto per fermarle (l’UNHCR lo nega). Per i rifugiati e i migranti detenuti in Libia, l’UNHCR è diventato un simbolo di inazione, un’agenzia il cui logo suscitava in passato forti sentimenti di speranza e di ammirazione, mentre ora suscita crescenti sentimenti di disprezzo.

Brevi considerazioni. E’ tutto un dejà vu. Quando Salvini ripete ad nauseam che il numero di migranti, con lui ministro dell’interno, si è drasticamente ridotto (e in parallelo anche il numero di morti), nelle statistiche non compaiono i morti nei campi libici e si omette di dire che, al trattamento subumano in quei lager, non di rado si preferisce la morte.
In questi giorni, si sente dire soprattutto dalla sinistra e da una parte del mondo cattolico che Salvini se n’è andato, ma i suoi metodi sono rimasti. Pensiamo che il problema non si risolverebbe aprendo le braccia a tutti i migranti con spirito bergogliano, perché in tal caso Salvini sarebbe fatto “santo subito” a furor di popolo (ai simboli religiosi provvederebbe lui stesso) e le cose peggiorerebbero. Siamo di fronte a un caso esemplare di conflitto tra l’etica dei principi – propria dell’idealismo – e l’etica della responsabilità – propria del pragmatismo (Max Weber docet).
In chiusura ci preme ricordare che gli orrori libici li troviamo anche nel cuore dell’ Europa, in questo caso in Croazia, come abbiamo appreso dalla lettera di Lorena Fornasir (Trieste) pubblicata su questo blog il 22 ott. u.s. Al peggio non c’è limite.

The U.N. Is Leaving Migrants to Die in Libya

Rilanciare lo sviluppo attraverso i migranti

6 Mag

 

di Cosimo Perrotta

Sintesi della relazione tenuta all’Università del Salento il 9-1-2019 per il Ciclo “L’Europa e le migrazioni internazionali”, organizzato da Humanfirst.

Perché oggi arrivano tanti migranti in Europa? La risposta è complessa. Dobbiamo partire dalla crisi economica che grava da qualche decennio sull’economia occidentale. Dopo il lungo boom del welfare state, c’è stata una saturazione della domanda privata, perché i bisogni elementari della grande maggioranza della popolazione erano finalmente soddisfatti. Ci sarebbe voluto quindi un grande rilancio degli investimenti pubblici, come si è verificato in tanti altri momenti cruciali dell’accumulazione capitalistica. Ma questa volta non è stato fatto.

In secondo luogo, nello stesso periodo – proprio grazie al massiccio investimento in capitale umano, in cui consistette il welfare state – c’è stata una forte accelerazione del progresso tecnico e il passaggio all’economia post-industriale, basata soprattutto sui beni immateriali. Si pensi all’economia digitale, ma anche alla robotica, le biotecnologie, le nuove tecniche sanitarie, ecc. Questi progressi stanno generando un aumento fortissimo della produttività del lavoro, e quindi anche una grande disoccupazione.

Ma, per la prima volta nella storia, la distruzione di posti di lavoro tradizionali, dovuta al progresso tecnico, non viene compensata dalla creazione di nuovi lavori, se non in piccola parte. Adesso infatti la saturazione frena gli investimenti. Si è cercato di rimediare aumentare le esportazioni. Già alla fine degli anni Settanta l’Occidente promosse la globalizzazione, in pratica la riduzione delle tariffe doganali per facilitare le sue esportazioni.

Però la Cina e gli altri paesi emergenti erano ormai in grado di competere con le merci occidentali nella produzione agricola e industriale, grazie anche al basso costo del lavoro. Il risultato è che oggi l’Occidente importa merci a basso costo dai paesi emergenti, a danno della propria stessa industria. Le industrie occidentali hanno riparato in parte al danno trasferendosi o investendo nei paesi a basso costo di lavoro.

In definitiva, i paesi emergenti prevalgono sull’Occidente non solo per i beni di bassa qualità, ma per tutta la gamma di prodotti, fino a una buona parte dei beni più avanzati. In Europa invece dilagano la disoccupazione e il lavoro precario; e quindi la povertà.

I paesi più poveri, però, al contrario di quelli emergenti, sono stati danneggiati – come sempre – dalla liberalizzazione dei dazi. Essi sono ancora soggetti al neo-colonialismo occidentale; che saccheggia le loro materia prime, sottrae loro la terra, pratica il dumping (cioè la concorrenza sui prezzi grazie ai finanziamenti extra) e soffoca la produzione locale.

Questo saccheggio delle materia prime è assicurato dalla corruzione dei governanti di quei paesi; la quale è promossa dall’Occidente e spesso è sostenuta da guerre sanguinosissime, che gli occidentali fomentano, sia per controllare le materie prime sia per vendere armi.

Da questo contesto nasce l’emigrazione. I fattori principali sono cinque: 1. C’è una carenza crescente in Occidente di lavoratori dei settori tradizionali. 2. C’è un inizio di benessere nei paesi poveri, causato soprattutto dal massiccio ingresso dei capitali cinesi. 3. Ma c’è anche la povertà tradizionale, che perdura. 4. C’è la crescente insicurezza, causa dalle guerre. 5. C’è infine il diffondersi del modello di vita occidentale, legato ad una società del benessere, tollerante, e che riconosce il merito.

Tuttavia il modello occidentale ormai è in crisi. La saturazione spinge i capitali occidentali, oltre che verso l’estero, verso la speculazione finanziaria o immobiliare, o verso i paradisi fiscali, trasformandoli in rendite. Il diffondersi della rendita sta peggiorando il costume, e incoraggia un’evasione fiscale diffusa, dai piccoli produttori fino alle grandi multinazionali del digitale. I privati più ricchi accumulano ancora ricchezza, ma questa è sempre più parassitaria. Gli altri privati si impoveriscono sempre più. D’altra parte la ricchezza pubblica diminuisce, quindi gli stati occidentali riducono la spesa per i servizi essenziali. Ciò ha un effetto negativo cumulativo: accresce ancora la disoccupazione, abbassa la qualità della vita, aumenta le disuguaglianze.

Per di più, le persone anziane, grazie al welfare state, mantengono in media una forte protezione del lavoro e dei redditi, comprese le pensioni. Invece i giovani, pur un livello di istruzione più alto, sono esposti alla disoccupazione e al lavoro precario. La politica non è in grado di capire questo groviglio di problemi, e tanto meno di affrontarli. Ciò apre lo spazio agli avventurieri e ai demagoghi, che trovano la facile “soluzione” di dare la colpa agli immigrati.

Ma vedere gli immigrati come causa dei nostri problemi è un inganno ignobile. Facciamo l’esempio dell’Italia. I nostri giovani più qualificati emigrano a vantaggio degli altri paesi europei. Il costo del lavoro è fra i più alti, mentre la produttività è fra le più basse dell’UE. La popolazione invecchia a ritmi accelerati, e già adesso il sistema pensionistico è in difficoltà. Se non ci fossero gli immigrati, queste carenze si aggraverebbero fatalmente.

Ci sono molti settori della nostra economia dove i lavoratori italiani sono insufficienti e che vengono mantenuti oggi dagli immigrati: manifattura, agricoltura, artigianato, lavori usuranti, servizi alla persona. Ci sono settori che che non soddisfano i relativi bisogni, e che solo gli immigrati potrebbero rivitalizzare: infrastrutture, commercio al dettaglio, assetto del territorio, risanamento ambientale, assistenza ai poveri, lavori ausiliari della sanità e della pubblica amministrazione. Solo dando impulso a questi lavori la domanda può crescere; e questo processo a sua volta può allargare i posti di lavoro della pubblica amministrazione, della scuola e della ricerca.

Il modello di sviluppo europeo e quello cinese

3 Dic

Risultati immagini per europa cina

di Cosimo PerrottaSviluppo e democrazia n. 2

Il modello di sviluppo che coniuga libertà politica (individuale e di gruppo) e libertà economica non deriva da un processo lineare e predeterminato. Esso si affermò, in mezzo a mille incertezze e conflitti, perché riusciva a rispondere a una gran parte delle istanze di razionalità, equità e progresso. Le tre rivoluzioni borghesi che sono all’origine del modello – la “glorious revolution” inglese del 1688-89, la guerra d’indipendenza americana (1775-83) e la rivoluzione francese, iniziata nel 1789 – sono altrettanti momenti di decollo del capitalismo moderno. Continua a leggere