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La privatizzazione del Servizio sanitario nazionale (Ssn) in Italia – 1a parte

6 Mag


a cura di Cosimo Perrotta – 6-5-2024

La privatizzazione accelera
Nei paesi ricchi il settore sanitario cresce sempre più, sia per i forti progressi della ricerca medica sia per il conseguente invecchiamento della popolazione. Il capitale privato lo ha scelto da tempo tra i primi settori d’investimento. Ma la privatizzazione non avviene, come si racconta, attraverso la concorrenza fra settore privato (che sarebbe più efficiente) e settore pubblico. Avviene soprattutto finanziando l’investimento privato con la spesa pubblica. Ciò accade in vari modi, fra cui: A) cliniche, ospedali e laboratori privati convenzionati, le cui cure e analisi sono rimborsate dallo stato ai prezzi fissati dai privati. B) Assistenza intramoenia, svolta nelle strutture pubbliche da medici del Ssn ma con tariffe di livello privato, pagate dai pazienti per accelerare i tempi di diagnosi e cure. C) Medici che lavorano in parte nelle strutture pubbliche e in parte come liberi professionisti. D) Nei paesi più avanzati c’è una vasta attività di ricerca finanziata dallo stato a cui attingono anche le strutture private; le quali brevettano a proprio vantaggio i risultati della ricerca fatta con fondi pubblici (ad es., è accaduto in molti casi per il Covid).
In Italia, paese politicamente arretrato, la privatizzazione dei finanziamenti pubblici è più devastante. Si stanno formando grandi compagnie private con migliaia di medici e operatori sanitari e decine di ospedali – ad. es. il Gruppo S. Donato, che comprende 18 ospedali tra cui il S. Raffaele. Esse interagiscono con le compagnie che promuovono l’assicurazione privata degli utenti. Si delinea così una sanità per ricchi, che punta sulle specializzazioni “di eccellenza” e sulla scelta dei settori più remunerativi. Il modello è quello USA: i ceti più alti vengono liberati dalle tasse per la sanità pubblica in modo da farli accedere a una sanità privata costosa, che i ceti poveri non possono pagare.
Il numero di medici per abitante in Italia è simile a quello degli altri paesi UE (400 ogni 100mila abitanti) ma da noi il 79% dei medici ha più di 55 anni. I medici di famiglia e gli infermieri sono valutati e pagati meno che in altri paesi e hanno minori contatti con gli ospedali (in Francia e Germania gli ospedali ogni 100mila abitanti sono 3-4 volte di più). In Italia i medici sono per il 32% liberi professionisti, perciò i costi per i pazienti sono molto più elevati.
Nel 2021 le strutture ospedaliere private accreditate erano 995 (quasi raddoppiate in 10 anni), pari al 48,6% del totale. Le strutture private di specialistica ambulatoriale sono il 60,4% del totale.

Le carenze si aggravano
A causa delle attese troppo lunghe per analisi e cure nelle ASL, il 34,4% delle famiglie con basso reddito, deve ricorrere alle cure a pagamento (del settore privato puro o intramoenia). Per gli altri redditi, compresi i medio-bassi, vi ricorre oltre il 40%. Per evitare queste attese, ci sono circa 600mila migranti sanitari (quasi un terzo dei pazienti) che vanno in altre regioni. Altri, più di un quarto, si spostano per avere prestazioni migliori. Emilia e Lombardia hanno un saldo attivo di ca. 58mila unità ciascuna, mentre tutto il Sud più Abruzzo, Marche e Liguria hanno un saldo passivo. I posti letto per 100mila abitanti sono in Italia 314, in Francia 590, Ungheria e Romania 700, Germania 800. In soli due anni (2020-2022) il Ssn italiano ha perso 32.500 posti-letto.
C’è una grande fuga del personale all’estero o nel privato a causa dei turni massacranti e degli stipendi troppo bassi. Dal 2012 al 2021 i finanziamenti del nostro Ssn sono aumentati del 6,4%, ma in Spagna del 21,2, in Francia del 24,7, Germania del 33 per cento. Dal 2004 vige in Italia il tetto di spesa che impedisce nuove assunzioni nel Ssn. Perciò buona parte del personale è assunto tramite cooperative, che ottengono appalti dalle Asl con bandi triennali e pagano stipendi molto bassi. A volte si tratta di false cooperative che spariscono senza pagare Tfr e contributi. Rispetto al 2015, abbiamo 15mila specialisti in meno. Ci sono stati ripetuti scioperi dei medici nel 2023, con risultati scarsi. Gli infermieri in Italia, sono solo 6,2 per mille abitanti, (la media UE è 9,1), con profonde disparità fra Nord e Sud.
I medici del privato lavorano la metà e guadagnano fino a quattro volte rispetto al pubblico. Un medico pubblico fa lo straordinario a 60 euro l’ora, un medico a gettone guadagna invece fra 140 e 180 euro (prezzi fissati dalle loro cooperative). Dunque nel pubblico si assume poco personale per risparmiare, ma poi le Asl devono ricorrere ai medici a gettone spendendo molto di più.
L’Italia spende il 6,7% del PIL per la sanità, ma la Spagna il 7,8, Francia 10,3, Germania 10,9. Oggi mancano 30mila medici e 320mila infermieri. L’Italia spende per la sanità ca. 4.300 $ per abitante, ma la Francia ne spende 6.500, e la Germania più di 8mila.
I pronto soccorso sono intasati perché la famiglie ricorrono ad essi per risparmiare e perché manca la medicina territoriale. Ma il personale è ancora più scarso che negli altri settori e il lavoro è più pesante e difficile. Le specializzazioni per l’emergenza, anestesia e rianimazione sono poco valutate e sottoposte ad alti ritmi di lavoro e al rischio di aggressioni da parte dei pazienti.
Negli ultimi 10 anni, sono stati chiusi 61 dipartimenti di emergenza, 35 centri di rianimazione, 113 pronto soccorso e 11 ospedali. Le attese in barella spesso durano diversi giorni. Il 31,6% del personale denuncia di aver subito aggressioni dagli utenti.

(La seconda parte uscirà il 13 maggio)

“Il capitale umano e le promesse mancate dell’ordine liberale” – I parte

8 Apr


di Giorgio Barberis (Univ. del Piemonte Orientale)
Sintesi della relazione tenuta a “I Venerdì di Diogene” di Humanfirst, Univ. del Salento, aprile 2023

L’ordine liberale, ossia il sistema politico-economico che si è affermato su larga parte del globo a conclusione della Seconda guerra mondiale, con i suoi pilastri ben definiti – la democrazia e i diritti individuali; il multipolarismo connotato da istituzioni internazionali formalmente riconosciute; un sistema di sicurezza collettiva assicurata dalla Nato, dalla coesione transatlantica e dall’egemonia statunitense; un’economia internazionale aperta, nata dagli accordi di Bretton Woods – e con le sue promesse di crescita e benessere per tutti, ha avuto indubbi successi – riassunti nelle formule felici del “Welfare state” e dei “Trenta gloriosi”, ossia i tre decenni di sviluppo economico dell’Occidente – ma anche evidenti contraddizioni, criticità, limiti. A sfidarlo, da un lato, il comunismo internazionale e l’economia pianificata sovietica, e – dall’altro – il pensiero critico, non rassegnato a ridurre l’individuo all’unica dimensione di consumatore. Con la fine della guerra fredda, con la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’URSS, con la globalizzazione e il successo planetario del (neo)liberismo, quell’ordine sembrava avviato a un trionfo ‘definitivo’, e si parlò addirittura, con una certa insistenza, di “fine della storia”, immaginando un’umanità giunta al suo massimo livello possibile grazie a una forma di governo in grado di assicurare la ‘sovranità’ a ognuno (la democrazia) e un sistema economico (il capitalismo) capace di garantire a tutti la possibilità di soddisfare ogni desiderio. Nessuno spazio per alternative concrete di fronte a un pensiero unico che prometteva felicità e pretendeva fedeltà. Ma era, se non una mistificazione, certamente un abbaglio, un’illusione, destinata a crollare nel giro di pochissimo tempo. L’ordine liberale after victory, infatti, ha palesato in tempi rapidi tutta la propria fragilità, non riuscendo in alcun modo a mantenere le sue promesse di pace, di sicurezza, di benessere e di prosperità universale, ed è precipitato in una profonda crisi, trascinando con sé anche la politica (che in realtà aveva da tempo abdicato al proprio ruolo di guida, cedendo il primato all’economia di mercato) e tutti gli ambiti fondamentali della vita sociale, alle prese con una “transizione” infinita tra un non più e un non ancora, in sospensione tra due mondi diversissimi: quello di ieri, ormai in pezzi, e quello di domani, pieno di incognite e di zone d’ombra.
Per capire ciò che sta accadendo oggi credo che sia opportuno risalire molto indietro, e più precisamente agli anni Settanta del Novecento. Si inizia allora a comprendere (pensiamo alla crisi petrolifera) che non può esserci una crescita infinita in un mondo finito, e che il modello produttivo richiede consistenti modifiche. A segnare quel decennio, e invero tutti quelli a venire, è però un vorticoso rinnovamento scientifico e tecnologico, la terza rivoluzione industriale, determinata dall’informatica, dall’elettronica, dai processi di automazione, dal silicio, e pure dagli aerei e dalle navi a grandi capacità, da uno spazio che si riduce e da un tempo che accelera, ponendo le premesse per la massiccia intensificazione di quei flussi che danno vita a una globalizzazione senza più argini e “confini”. Un cambiamento epocale che, come detto, ha interessato ogni ambito, a partire dal sistema economico e dal mondo del lavoro. Il passaggio dal fordismo al post-fordismo ha rappresentato una vera e propria rivoluzione copernicana, rendendo obsolete procedure e dinamiche che sembravano eterne (basti pensare alla catena di montaggio e a tutta l’organizzazione taylorista del processo produttivo), e che invece vengono travolte dal just in time, dalla lean production, dall’apoteosi del marketing, e dai processi di finanziarizzazione. Il lavoro si frantuma, la “flessibilità” diventa la parola chiave, ma porta con sé, come due facce della stessa medaglia, la precarietà, l’instabilità, l’incertezza, che sconfinano presto dall’ambito professionale a quello tout court esistenziale. Un cambio di paradigma che premia pochi fortunati ed espone i più fragili a conseguenze drammatiche, mettendo in crisi anche la retorica – per certi aspetti positiva – del “capitale umano” e delle sue potenzialità. Dal miraggio dell’emancipazione individuale alle nuove schiavitù il passo, purtroppo, è molto breve.
E la politica? È forse proprio questo il cuore del cambiamento che segna il nostro tempo. La sfera politica non è più il luogo della decisione sovrana, ed è vieppiù marginale e subalterna all’ambito economico. A determinare le sorti collettive sono le scelte di agenzie transnazionali sottratte al controllo democratico, di tecnocrazie non elettive e delle grandi corporations. La sensazione diffusa è quella di una mediocrità complessiva della leadership politica ad ogni livello, dal globale al locale.

Conversazioni sul Mezzogiorno – 4° Episodio

14 Mar

Clara Mattei: l’austerità come mezzo di sfruttamento – II parte

19 Feb


di Cosimo Perrotta – 19-2-2024

(Commento a Clara E. Mattei, Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo, Einaudi 2022)

Il libro di Clara Mattei ha una grande forza demistificatrice. Attraverso il concetto di austerità e attraverso l’analisi delle sue numerose (eppur sempre ritornanti) applicazioni, esso prova che c’è una stretta continuità fra le politiche antipopolari e antidemocratiche di cento anni fa – quando la crisi del primo dopoguerra portò i governi inglesi e quello italiano ad opprimere i ceti più poveri – e le politiche messe in atto oggi contro i lavoratori e i ceti medio-bassi.
Quest’analisi, però, assumendo un punto di vista radicale, cioè la critica del capitalismo in quanto tale, tende ad appiattire la diversità delle dinamiche della produzione e della lotta sociale. Il libro sembra mettere tutto sullo stesso piano, non solo le politiche economiche dei governi democratici inglesi con quelle del governo fascista italiano, ma anche Keynes (vedi ad es. pp. 146 e 155), che viene menzionato come fautore di alcune politiche di austerità. Sarà pur vero, ma non fu certo questo il tratto distintivo delle politiche proposte da Keynes, che contribuirono fortemente alla creazione del welfare state. Lo stesso welfare state viene ignorato nel libro di Mattei, e con esso passa sotto silenzio il gigantesco progresso dei ceti popolari, che fu promosso proprio dagli stati dell’Europa occidentale nel secondo dopoguerra. Viene quindi ignorato anche lo sviluppo economico impetuoso che quel progresso generò, la crescita dei ceti medi, le grandi conquiste sociali, l’affermarsi dei nuovi diritti civili.
È vero che oggi una gran parte delle conquiste dei lavoratori ottenute in quel periodo è stata spazzata via dalla reazione neoliberista; e ciò sembra giustificare il parallelo fra gli anni Venti di un secolo fa e quelli di oggi. Tuttavia questo parallelismo semplifica una situazione reale molto più complessa. Oggi, accanto al trattamento disumano dei poveri e degli sfruttati, che è persino peggiore di quello di un secolo fa, e al di sotto dei ceti ricchi, c’è una fascia del lavoro protetta e garantita, e sopra di loro un’altra fascia di professionisti privilegiata. Inoltre attualmente cresce un’attenzione verso i diritti umani, i diritti della donna e di tante altre categorie che sarebbe stata impensabile un secolo fa.
Questo schematismo mostra un limite del libro. Spesso nella sua critica Mattei usa come intercambiabili i concetti, ovviamente ben diversi tra loro, di proprietà privata e proprietà privata dei mezzi di produzione. Lo stesso fa riguardo allo sfruttamento, per il quale non distingue due accezioni molto diverse. Una è il concetto nel senso comune, cioè di lavoro oppressivo, con salari minimi e tempi di lavoro senza limiti, l’altra è l’accezione marxiana del termine, cioè di lavoro che, anche quando è umano e ben pagato, sarebbe comunque sfruttato perché il valore che produce viene parzialmente estorto (“espropriato”) per formare il profitto.
Quest’ultima confusione è decisiva. Se noi pensiamo che ciò che conta veramente sia lottare per la fine dello sfruttamento in senso marxiano, cioè per la fine della proprietà privata dei mezzi di produzione, tendiamo a rimandare il superamento dell’oppressione sociale alle calende greche. Soprattutto, con questo approccio finiamo col considerare lo sfruttamento del lavoro nel senso comune del termine un male tollerabile o comunque secondario, anche se oggi si presenta nelle forme più odiose del lavoro dei migranti nelle campagne o nei cantieri, dei rider, degli addetti ai call-center, delle badanti.
Ciononostante, il libro di Mattei è importante, perché ci fa toccare con mano come si sono ridotte oggi l’economia occidentale e la sua democrazia, in quale situazione di barbarie siamo ricaduti, dopo la fase del welfare state, a causa del neoliberismo e delle sue politiche di austerità. Siamo arrivati ad una società dove una parte crescente della popolazione odia e disprezza i poveri, esalta il successo (misurato in denaro) e si attacca all’individualismo e all’identità “tribale” come valori principali. Dove i lavoratori immiseriti non esprimono più una domanda sul mercato che sia sufficiente a mantenere un livello adeguato di investimento, e dove le disuguaglianze crescenti trasformano i profitti in rendite parassitarie e gli investimenti in produzione di armamenti.
Clara Mattei nelle ultime righe dei suoi Ringraziamenti, alla fine del libro, ricorda il prozio, il noto partigiano Gianfranco Mattei, il quale si uccise durante le torture che subiva nelle prigioni di via Tasso a Roma per evitare di rivelare i nomi dei suoi compagni. A lui Clara ha dedicato il suo libro, e da quel ricordo ha tratto la grande forza della sua analisi.

Clara Mattei: l’austerità come mezzo di sfruttamento – I parte

12 Feb


di Cosimo Perrotta – 12-2-2024

Commento a Clara E. Mattei, Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo, Einaudi 2022, pp. 421, € 34 (versione italiana di The Capital Order, Univ. of Chicago, 2022).

Clara Mattei è una giovane studiosa italiana che insegna economia alla New School for Social Research di New York. Il suo libro racconta le turbolenze economico-politiche del primo dopoguerra in Inghilterra e in Italia, quando le élite dei due paesi passarono rapidamente da una tentennante condiscendenza verso le rivendicazioni operaie e le istanze di rinnovamento radicale del sistema economico ad una rigida chiusura, la quale confermò e aggravò la distanza fra classe dirigente e classi subalterne.
Dopo quella drammatica svolta, la restaurazione dei privilegi delle élite legati allo sfruttamento dei lavoratori e dei ceti medi poveri continuò e venne rafforzata fino ai giorni nostri. Ciò avvenne attraverso una politica – che oggi chiamiamo dell’austerità – che costrinse i ceti subalterni ad accettare bassi salari, alte tasse e magri consumi in nome delle necessità del bilancio statale. Le politiche economiche dirette a comprimere i redditi dei ceti popolari vennero e vengono presentate come leggi di natura che, se trascurate, portano al disastro.
Non sono soltanto i salari che devono essere tenuti bassi attraverso la disoccupazione, anche i servizi pubblici – essenziali per i ceti medio-bassi – devono essere sacrificati all’austerità. Lo stato – la cui spesa è considerata sempre improduttiva, contro ogni ragionevole teoria economica – deve limitare le spese “improduttive” per scuole, sanità, trasporti pubblici, case popolari, pensioni, sussidi di disoccupazione. I salari “troppo alti” – dicono i rappresentanti della politica di austerità – sono causa di disoccupazione, perché esauriscono quello che gli economisti classici chiamavano il “fondo salari”.
Mattei fa lo spoglio minuzioso di un’enorme quantità di documenti (carteggi, giornali e periodici, rapporti e dichiarazioni ufficiali, studi accademici) e un gran numero di fonti storiche e teoriche. La sua fitta e precisa documentazione dimostra che la politica dell’austerità nasce proprio in quel periodo e rispunta poi ogni volta che si profila il “pericolo” di un maggiore benessere e di un più rilevante ruolo sociale dei ceti popolari. Le frasi di sintesi del libro sono icastiche e le dimostrazioni rigorose. Le politiche di austerità vengono esaminate minuziosamente in tutti i loro risvolti, versioni, protagonisti e strumenti.
È interessante la storia parallela di due regimi diversi, uno che resta democratico e l’altro che abbraccia il fascismo, ma dove i risultati economici sono abbastanza analoghi. In entrambi i casi la sfera dell’economia viene “depoliticizzata” e le decisioni economiche vengono sottratte al controllo democratico in nome della competenza e della “neutralità” delle istituzioni indipendenti. Il capitalismo viene presentato come il sistema naturale, che realizza il vantaggio di tutti, purché “tutti” (in pratica, i lavoratori) abbiano un comportamento virtuoso e risparmiatore. La concorrenza dev’essere lasciata libera di funzionare, senza richieste di aumenti salariali o di regolazione del lavoro che turbino il funzionamento del mercato.
L’austerità non si fa valere soltanto con gli ostacoli posti alle rivendicazioni salariali e con le politiche di bilancio. Essa ricorre anche alle imposte indirette, alle regole fiscali che avvantaggiano i più ricchi, e ancor più all’inflazione. Proprio l’inflazione, da una parte, viene usata per ridurre il potere d’acquisto dei ceti popolari, dall’altra è una prospettiva minacciosa usata per rafforzare l’austerità e bloccare le richieste di miglioramenti salariali.
Mattei spiega bene le tecniche per imporre la tecnocrazia. Per pretendere di essere neutrale, e quindi rappresentativo di tutti, lo stato e le sue istituzioni devono essere apolitici. Tra i fattori garanti della apoliticità, oltre all’inflazione, al fisco e alla difesa della concorrenza senza regole, c’è anche l’indipendenza delle banche centrali. Queste ultime svolgono il loro lavoro in difesa dell’austerità, cioè dello status quo, affermando la propria indipendenza dalle rappresentanze democratiche. Un altro strumento delle politiche di austerità è dato dalle restrizioni creditizie, giustificate col principio che bisogna frenare la tendenza dei lavoratori allo spreco, come affermò Hawtrey (p. 175).
L’operazione di mostrare come asettici tutti i fattori di governo dell’economia ovviamente investì anche la teoria economica. Qui ci limitiamo a segnalare la citazione fatta da Mattei di Maffeo Pantaleoni il quale, parlando delle “classi che hanno redditi minori” scrive che la loro “deficienza è causa del minor reddito e non già il minor reddito causa della deficienza” (p. 215). Lo stesso Pantaleoni afferma che la gente non capisce qual è il suo vero interesse e quindi bisogna tenerla lontana dalle decisioni economiche per il suo stesso bene (p. 287). È esattamente il contrario di quanto scrive Adamo Smith.

(la II parte sarà pubblicata lunedì 19 febbraio)

Il mito del “libero mercato”

15 Gen


di Dean Baker
(brani da “The myth of the “Free Market”, Real-World Economics Review Blog, July 7, 2023 – IL DOCUMENTO – 15-1-2024)

I media USA stanno davvero esagerando nel raccontare che i giorni del libero mercato sono finiti con le politiche economiche di Biden. Il Presidente Biden ha soltanto costruito politiche volte a modificare la direzione dell’economia, favorendo l’energia pulita e la produzione interna di semiconduttori avanzati. Egli ha anche rinvigorito la politica anti-trust, che era stata largamente dimenticata dai suoi predecessori.
Ma l’idea che le politiche degli ultimi 40 anni siano state un problema perché non si è lasciato il mercato libero di funzionare è una grottesca bugia. Supponiamo che nel 2008-09 avessimo lasciato fare al mercato i suoi miracoli, quando Citigroup, Bank of America e altri giganti finanziari erano di fatto in bancarotta a causa della propria ingordigia e stupidità. Avremmo avuto un settore finanziario radicalmente ridotto, con molte meno persone che guadagnano salari bancari di sette-otto cifre (No, non avremmo avuto una seconda Grande Depressione. Keynes ci ha insegnato come prevenirla: spendendo denaro).
Avremmo avuto un settore finanziario molto più piccolo anche tassando le vendite di azioni, obbligazioni e derivati così come si tassano vestiti, mobili e auto. È stata la potente industria finanziaria, non il mercato libero, a dirci che queste transazioni dovevano essere esenti dalle imposte che si applicano a tutte le altre compravendite.

Non c’è nessun libero mercato nemmeno nelle agevolazioni fiscali dei super ricchi che guadagnano sugli hedge funds o private equity funds [prodotti di speculazione finanziaria]. Né è il libero mercato a rapinare i fondi delle pensioni pubbliche, promettendo alti rendimenti che raramente si realizzano.
D’altra parte, abbiamo rimosso le barriere commerciali sui beni manifatturieri perché la concorrenza dei salari bassi dei paesi poveri potesse ridurre i salari dei nostri lavoratori. Questo ci è costata la perdita di milioni di posti di lavoro e la riduzione dei salari sui posti rimasti. Ma non abbiamo rimosso le barriere che proteggono i medici, dentisti, e altri professionisti dalla concorrenza delle controparti che vivono nei paesi poveri. Ciò infatti avrebbe ridotto i posti di lavoro e le remunerazioni dei professionisti nati in USA. … Il libero mercato ha riguardato solo i lavoratori che non hanno frequentato i college.
L’altra grande parte del nostro libero mercato riguarda i brevetti e i diritti d’autore, che sono stati resi più lunghi e più costrittivi. È da incubo orwelliano dire che questi monopoli prolungati, garantiti dal governo, fanno parte del libero mercato. E il loro impatto non è da poco. Quest’anno [2023] spenderemo oltre 550 miliardi di dollari per i farmaci prescritti da ricette mediche. Se questi farmaci fossero venduti sul mercato libero, senza brevetti, il costo complessivo sarebbe quasi certamente inferiore a 100 miliardi. … La differenza di 450 miliardi di dollari … equivale a più della metà delle nostre spese militari.
Dopo la pandemia abbiamo creato 5 nuovi miliardari pagando la ditta farmaceutica “Moderna” perché sviluppasse nuovi vaccini, e abbiamo lasciato a questa impresa il pieno controllo dei vaccini stessi. Secondo i miei calcoli, noi trasferiamo oltre mille miliardi l’anno a chi beneficia di brevetti e copyright rispetto al prezzo che avrebbero le medicine, le attrezzature mediche, i software per computer, ecc. Ciò significa il 40% di tutti gli altri profitti da impresa che vengono tassati.
Potremmo tralasciare una gran numero di altri settori in cui il governo ha costruito processi di redistribuzione dei redditi verso l’alto (vedi il mio Rigged. How Globalization and the Rules of the Modern Economy Were Structured to Make the Rich Richer, Center for Economic and Policy Research, Washington, 2016. È di libero accesso online). Dovrebbe essere ovvio per chiunque abbia familiarità con la politica economica degli ultimi decenni che la questione non è il libero mercato ma la strutturazione dell’economia in modo da rendere i ricchi più ricchi.
Si può capire che chi propone queste politiche affermi che il problema è solo il libero mercato. Dopo tutto appare molto meglio dire al pubblico, alla maggioranza fatta dei perdenti creati da questo politiche, che “il mercato crea sia i vincenti che i perdenti”, invece di dire “stiamo costruendo politiche per trasferire denaro da voi a noi”.
Ma perché la gente che è contraria a queste politiche accetta l’inganno? A quanto sembra c’è un grande mercato per questa sorta di finzioni nei prodotti dei media più importanti, ma sarebbe bello avere discussioni di politica più basate sulla realtà.

Verso lo sviluppo umano e sostenibile; il faro e le onde

8 Gen


di Gianni Vaggi
Nel 1967 Papa Paolo VI scrive: “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Per l’inizio del terzo millennio, l’ONU vara i diciassette Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, OSS, raggruppati in cinque aree: Persone, Pianeta, Prosperità, Pace, Partenariato globale per lo sviluppo, le cinque P. Le ultime due aree comprendono un unico obiettivo, sedici e diciassette rispettivamente, ma con molti targets e indicatori. La sostenibilità ambientale entra compiutamente nell’idea di sviluppo nel 1987 con il Rapporto Brundtland, che ci fa ragionare in termini di rapporti fra le generazioni. Nel 1990 abbiamo il primo rapporto sullo sviluppo umano dell’ONU, con l’Indice di Sviluppo Umano, ISU, che allarga l’idea della qualità della vita degli esseri umani al di là degli indicatori economici ed in particolare si focalizza sul diritto alla salute ed all’istruzione.
La pace sembra sempre più lontana, lo sviluppo arranca. Con Marco Missaglia abbiamo provato a delineare un percorso verso lo Sviluppo Umano e Sostenibile, SUS: Introduzione all’economia dello sviluppo, Carocci 2022. Uso la metafora del faro, che nella sua cella luminosa include gli OSS, ma anche diritti umani, ecologia integrale, transizione ecologica, beni comuni e tutto quello che noi possiamo pensare essere in SUS.
Nella luce del faro ci sono soprattutto Persone e Pianeta: gli esseri umani e le risorse naturali. SUS non è una situazione di equilibrio, ma un processo che possiamo misurare con il trascorrere delle generazioni. Gli esseri umani della generazione successiva, Persone 2, dovrebbero avere più opportunità della generazione precedente: essere più istruiti, potersi muovere ed incontrare con maggio facilità e libertà. Stesso discorso per Pianeta 2: minor inquinamento, acqua più pulita disponibile per più esseri umani.
Il faro indica la direzione e avvisa dove c’è terra, ma la navigazione è condizionata dalle onde a dai venti, che sono le condizioni storiche, economiche e sociali in cui SUS si deve svolgere.
Queste strutture, sono anche vincoli, sono le sfide incluse nell’area Prosperità, quattro obiettivi che definisco ‘strutturali’. N. 8, crescita inclusiva piena occupazione lavoro decente; n. 9, infrastrutture resilienti e industrializzazione sostenibile; n.10 ridurre le diseguaglianze all’interno e fra le nazioni; n. 12 modelli di consumo e produzione sostenibili.
Anche gli altri obiettivi implicano un cambiamento delle strutture economiche, ma questi quattro le affrontano direttamente. Negli ultimi decenni, e forse soprattutto nell’ultimo, le acque sono state molto agitate e spesso i venti non hanno soffiato nella direzione indicata dal faro. Siamo a metà della navigazione verso il 2030 e il Global Sustainable Development Report 2023 dell’ONU è molto pessimista sul fatto che la nostra nave abbia la velocità giusta per conseguire gli OSS; quasi tutti gli obiettivi dovranno essere spostati più in là o forse modificati.
Nel 1662 Sir William Petty scrive: “Il Lavoro è il Padre e principio attivo della Ricchezza, come le Terre sono la Madre”: Persone e Pianeta. Certo lui si occupava di ricchezza e non di sostenibilità, ma sottolineo l’espressione principio attivo, cioè la responsabilità che è degli esseri umani di organizzare se stessi e utilizzare le risorse naturali. Questo ci porta agli ultimi due OSS, che di fatto si riferiscono a chi conduce la nave e come la conduce. Chi decide la rotta e la velocità? Il partenariato globale per lo sviluppo è l’ultimo obiettivo, il 17, che comprende aree quali Finanza, Tecnologia, Commercio. Tre elementi che condizionano non solo la navigazione verso il faro, ma la società futura: come saranno Persone 2 e Pianeta 2? Chi decide quanto e come investire? Quali settori e aspetti dell’economia favorire e quali scoraggiare? Questo ci porta ad una sesta P, quella di Potere, che non compare direttamente negli OSS 16 e 17, ma che è inevitabile affrontare. Ci sono enormi squilibri nel potere economico e politico fra paesi e all’interno dei paesi. Un modesto criterio per valutare la nostra navigazione è quello del ribilanciamento di questi poteri così diversi. Tutti gli stakeholders hanno ‘voce in capitolo’? Partecipano davvero alle decisioni sulla tecnologia? Sul come scoraggiare o incoraggiare stili di consumo e produzione sostenibili? Sul come e quanto dedicare alla navigazione verso SUS dei trilioni di dollari di fondi che si muovono nella finanza internazionale? Le sfide di Partenariato e Pace saranno con noi ancora a lungo ben oltre il 2030. Forse sono utopie, ma le alternative sono terribili. Vale la pena continuare a cercare di orientare la nave verso il faro.

La povertà crescente al di qua e al di là dell’Atlantico: una luce in fondo al tunnel? – 2a parte

27 Nov

di Elisabetta Grande

Proprio, infatti, quando il mercato avrebbe finalmente potuto avvantaggiare i lavoratori per via di una situazione di bassissima disoccupazione – arrivata al 3,6% prima del periodo pandemico – il sistema ha messo in campo strumenti giuridici “canaglia” (che qui non si ha lo spazio di approfondire e che prendono, fra gli altri, i nomi di clausole anti-competizione o di arbitrato obbligatorio), che hanno ostacolato l’operatività della legge economica della domanda e dell’offerta, che vorrebbe che in tali circostanze i salari aumentino.
Non c’è allora davvero da stupirsi se, nonostante una disoccupazione calante, prima del periodo pandemico i salari dei lavoratori americani meno qualificati non fossero aumentati, con buona pace della legge della domanda e dell’offerta. Né c’è, infine, da meravigliarsi se il numero dei senzatetto -una buona percentuale dei quali peraltro lavora – sia tale da aver fatto dichiarare già qualche anno fa lo stato di emergenza ad alcuni governatori.
Alla politica liberista del laissez faire (o addirittura quella dell’intervento di regole giuridiche che penalizzano il più debole quando il laissez faire lo avvantaggia) nel campo del diritto del lavoro, a partire da Reagan, ma anche e soprattutto con Clinton si è aggiunta la forte riduzione dello stato sociale, in combinato con riforme fiscali a vantaggio dei più ricchi. Già impoveriti e abbandonati in condizioni di massima precarietà dall’assenza di un diritto del lavoro che li tutelasse, gli americani più deboli si sono così indeboliti ancor di più, diventando debolissimi. L’aliquota marginale per i redditi più alti, invece, passava dal 70,1% dei tempi di Carter al 28% di quelli di Reagan, per non raggiungere mai più percentuali al di sopra del 40%, a tutto vantaggio dei più abbienti.

Appaiono perciò evidenti le forti analogie con ciò che – a partire dagli anni ’90 – è avvenuto e ancora sta avvenendo in Italia. Basti pensare all’abbandono delle garanzie giuridiche dei lavoratori a cominciare dal pacchetto Treu – passando per la legge Biagi – fino ad arrivare al Jobs Act. Una flessibilizzazione, che avrebbe dovuto portare più posti di lavoro e che, secondo i dati resi noti dalla Banca d’Italia, ha invece condotto a maggior precarietà e all’abbassamento dei salari. E mentre oggi si reintroducono i voucher e si elimina il decreto dignità, d’altro lato vengono cancellate sanità e scuola così come le conoscevamo. Seguendo la lezione impartitaci dagli Stati Uniti, poi, il nostro sistema fiscale dal 1974 a oggi ha ridotto gli scaglioni di reddito da 35 a 3, diminuendo l’aliquota più alta da tassare dal 72% al 43%. Tutte manovre di politica legislativa che creano povertà!
Cfr. E. Grande, Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Torino, 2017.

Una luce in fondo al tunnel?

Negli ultimi due anni, però, all’uscita dal periodo pandemico, qualcosa negli Stati Uniti sembra aver prodotto un cambiamento di rotta. Che a dare forza ai lavoratori siano stati gli aiuti federali straordinariamente concessi durante la pandemia ai più deboli attraverso i vari Stimulus Acts o i maggiori risparmi determinati dal lock down forzato o la nuova consapevolezza della propria condizione di sfruttati assunta nelle nuove circostanze, o tutto insieme, è difficile dire. Ciò che comunque è accaduto è stata la presa di coscienza da parte di molti che un ritorno ai precedenti lavori e alle stesse condizioni non sarebbe più stato accettabile. Così, dopo la stretta anti-virus, invece della corsa alla ricerca di un lavoro che ci si attendeva, in tanti hanno preferito rimanere a casa. Inoltre, mentre l’offerta di posti di lavoro aumentava a fronte di un ristretto numero di lavoratori disposti ad accettarli, altri decidevano di abbandonare il loro (solo nel 2022, 46 milioni di americani hanno detto basta al loro sfruttamento e hanno dato le dimissioni). Dopo quarant’anni di disciplinamento da parte del mercato, di un diritto canaglia che li voleva ingabbiati in salari da fame e decenni di declino del tasso di partecipazione sindacale, i lavoratori statunitensi si sono ribellati e hanno cominciato a scioperare in modo massiccio e a ri-sindacalizzarsi, con successi straordinari in termini di miglioramento dei salari, soprattutto per i meno qualificati fra loro.
Difficile dire se si tratti di successi duraturi o di breve durata. Quel che è certo è che una nuova e feroce guerra contro i lavoratori è subito stata ingaggiata dalla Federal Reserve, la quale con un susseguirsi di rialzi dei tassi di interesse sul costo del denaro ha cercato di provocare una recessione economica per raffreddare l’economia e gli entusiasmi dei lavoratori. Se fossero le lotte di questi ultimi ad avere la meglio si aprirebbe però un nuovo capitolo della vicenda povertà negli Stati Uniti. E’, infatti, in grandissima misura la possibilità concessa alle persone di avere un lavoro capace “di assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” ciò che permette di evitare la caduta in povertà, al di qua come al di là dell’Atlantico. In questo senso la lotta dei lavoratori su entrambe le sponde è una lotta comune per una società più uguale.

La povertà crescente al di qua e al di là dell’Atlantico: una luce in fondo al tunnel? 1a parte

20 Nov

di Elisabetta Grande – 20-11- 2023

1. Un tuffo al di là dell’Atlantico
Un tuffo al di là dell’Atlantico è sempre utile per capire le dinamiche nostrane, perché nulla è più vero di quanto si afferma da tempo da una pluralità di parti, ossia che gli Stati Uniti rappresentano il luogo in cui si consumano in grande le tragedie che successivamente, in piccolo, andranno in scena anche da noi.
Comprendere le ragioni dell’aumento della povertà assoluta e di quella di strada negli Stati Uniti degli ultimi decenni, a fronte di una notevole crescita del Pil e della ricchezza di quel paese, consente infatti di dotarsi di una chiave di lettura capace di far luce sui motivi della notevole crescita della povertà nostrana. Anche quest’ultima non è giustificata da un corrispondente calo della ricchezza nazionale, che – come negli Usa, sebbene in minor misura – è invece aumentata. Guardare a ciò che è accaduto negli Stati Uniti significa anche capire perché ci troviamo ad assistere a quel fenomeno – nato oltreoceano negli anni ’80 – che va sotto il nome di homelessness e che fino a 15 anni fa non conoscevamo, con il quale però la stragrande maggioranza delle città italiane si trova oggi tristemente a confrontarsi. Capire le dinamiche che negli Usa hanno prodotto una povertà di strada agghiacciante servirebbe, inoltre, per provare a invertire una rotta che in breve tempo potrebbe condurci ad affrontare gli stessi problemi di devastante destituzione umana che affliggono le città statunitensi.
Penso, fra le altre, a San Francisco o a Los Angeles, letteralmente invase da relitti umani, ammassati disperatamente lungo i marciapiedi, nelle tende piantate lungo i viali e i viadotti, abbandonati all’interno di gironi infernali – indegni di una società civile – che costituiscono delle vere e proprie città nelle città. A fronte di un simile spettacolo, la domanda che ci si pone è come sia possibile tanta miseria nel paese più ricco del mondo. La risposta è che il paradosso che vivono gli Stati Uniti è lo specchio più evidente degli effetti di un sistema economico, politico e giuridico in auge da più di quarant’anni e in via di espansione in Italia e nell’intero globo.
Si tratta di un sistema che non solo spinge un paese sempre più ricco come gli States verso l’aumento della diseguaglianza fra le persone, cosicché tutta la crescita economica finisce nelle tasche di pochissimi ricchi; ma che addirittura consente a quei ricchissimi di rubare a poveri e a poverissimi, portando loro via quel nulla che hanno. La torta insomma lievita, ma sono in pochi a mangiarne l’incremento, i quali non accontentandosi si sbafano pure progressivamente una parte della fetta dei più deboli.

E’ sufficiente osservare i dati sulla distribuzione della ricchezza nazionale, resi noti dalla Federal Reserve statunitense, per capire ciò di cui si sta parlando: dal 1989 al 2018, l’1% degli americani ha visto aumentare il proprio patrimonio di 21mila miliardi, mentre il 50% economicamente più debole lo ha visto decrescere di 900 milioni. D’altronde la percentuale di persone che non ha che debiti non ha fatto che aumentare, colpendo in particolare neri e ispanici.
Chi e cosa permette, e ha permesso nel tempo, il furto dei più ricchi a danno dei più poveri, provocando la miseria testimoniata da quella folla di senza tetto che abita le città americane? Come ho avuto occasione di raccontare più estesamente altrove (1), spetta al sistema giuridico una grossa fetta di responsabilità al riguardo.

2. Un diritto il cui sistema fiscale è sempre meno progressivo, che cancella il welfare e che, invece di proteggere i lavoratori, li attacca.
E’ certamente l’assenza negli ultimi decenni di una tutela giuridica nei confronti dei lavoratori americani meno qualificati ad avere giocato un ruolo importante nel determinare una distribuzione del reddito e della ricchezza esageratamente sperequata a favore delle multinazionali e dei loro manager. Mentre questi ultimi dalla fine degli anni Settanta al 2018 hanno visto crescere i loro stipendi complessivi di quasi il 1000 per cento, i primi – abbandonati alle forze asimmetriche del mercato – li hanno visti stagnare o addirittura calare, anche considerevolmente. Essi si sono, infatti, ritrovati ad avere lavori precari e un salario minimo troppo minimo per sopravvivere: non indicizzato al costo della vita e da troppo tempo fermo, a livello federale, a 7 dollari e 25 centesimi l’ora (quando, se fosse cresciuto con la produttività del paese, sarebbe pari almeno a 20 dollari e se avesse tenuto il ritmo degli stipendi delle fasce dirigenziali sarebbe oggi di 23 dollari l’ora) da tempo il minimum wage non garantisce più a nessuno un tenore di vita minimamente decoroso.
La stagnazione dei salari mediani negli ultimi quarant’anni prima della pandemia, o nei casi dei lavoratori meno qualificati e quindi più vulnerabili addirittura la loro riduzione, non è però solo il portato della mancanza di tutele giuridiche della parte debole del rapporto contrattuale. Essa è altresì il frutto di un diritto sempre pro-attivamente al servizio del più forte.

La seconda parte uscirà lunedì 27 novembre

Lo “stato d’eccezione” di Israele

13 Nov


di Eyal Sivan

IL DOCUMENTO – Dall’intervista di Cristina Piccino a Eyal Sivan dal titolo “Se Israele è un modello, la democrazie mi fa paura”, il manifesto, 7-11-2023. Eyal Sivan, Haifa 1964, è regista, saggista e docente di cinema. Israeliano ebreo, risiede in Francia.

L’innocenza assoluta
Dice Sivan: “La cosa più terribile è che in questo processo non c’è nulla di nuovo. A volte ho l’impressione che tutto è stato detto. Il gesto dell’ambasciatore israeliano di presentarsi all’Onu con la stella di David sul petto conferma questa convinzione. Si vuole dimenticare che quanto è accaduto lo scorso 7 ottobre non inizia in quel momento e utilizzare la dialettica della Shoah per inquadrarlo è una profanazione verso la memoria della Shoah stessa che, ridotta a terrorismo, viene denigrata. Lo trovo un insulto come essere umano, come ebreo, nei confronti della mia storia famigliare. Strumentalizzare la Shoah per giustificare qualsiasi atto rimanda a quella ideologia della vittima, fortemente consolidata nella nostra società, seconda la quale quando si è vittime ci si trova nella posizione di una ‘innocenza assoluta’ – che di per sé non esiste. … Noi, perché vittime della Shoah possiamo permetterci tutto, anche bombardare un campo di rifugiati, gli ospedali, le scuole – ‘l’innocenza totale’ di cui godiamo ci assolve. Tale visione è appunto una profanazione della memoria e una forma di revisionismo. Se Hamas sono nazisti, allora l’Olocausto, il nazismo diventano un atto terrorista? Che dire dei milioni di persone sterminati dall’ideologia hitleriana?. L’Europa accetta questa retorica sul nazismo perché è un buon modo con cui sottrarsi alle proprie responsabilità: considerare l’Olocausto terrorismo ci dice che in fondo non è stato così grave uccidere tutti gli ebrei europei. E l’unicità storica della Shoah viene meno”. …
“Ma gli israeliani sono ‘condannati’ a vivere coi palestinesi, anche se continuano in questo massacro di massa – con un numero di palestinesi uccisi spaventoso che viene sempre più avvicinato a un’idea di genocidio”. “I governi di destra, liberal-conservatori europei giocano col fuoco: c’è un pericolo concreto di importare questo conflitto all’interno dell’Europa che è già caratterizzata da politiche repressive contro l’immigrazione, dall’islamofobia.”
“Definire ogni critica alla politica israeliana come antisemira rimanda ancora una volta a questo ‘stato d’eccezione’- assai ambivalente – di cui Israele beneficia. Dai bombardamenti su Gaza del 2007 alle aggressioni dei coloni che hanno causato molti morti, il mondo intero ha lasciato fare, contro ogni diritto internazionale. Israele gode della facoltà di agire senza limiti , proprio in virtù di quello ‘stato d’eccezione’: ciò che per gli altri vale per loro non esiste.”

Democrazia, ma non per tutti
Alla domanda sul documetno del governo israeliano circa l’espulsione dei gazawi nel Sinai, Sivan risponde: “Quel documento risulta redatto il 3 ottobre e rispecchia la politica israeliana dal 1948, che si sintetizza in un massimo di terra e un minimo di popolazione araba. La differenza oggi è che con l’arrivo al governo della destra più radicale finalmente – come dicono – possono finire il lavoro non fatto nel ’48. È il grande sogno, o l’illusione di espellere i palestinesi dalla coscienza collettiva – una cosa che peraltro è già in atto da quando Gaza è diventata una prigione a cielo aperto, da quando sono stati eretti muri che eliminano milioni di palestinesi dallo spazio comune nella percezione israeliana come in quella europea.”
“La contestazione interna [contro la riforma voluta da Netanyhau] non è mai stata contro l’occupazione o lo stato di guerra, non ha mai espresso critiche per i duecento morti in Cisgiordania quest’anno o per i pogrom dei coloni [cioè fatti dai coloni]”. “In fondo quella contestazione – nella quale non ho mai creduto – era più estetica che strutturale: si battevano per la democrazia ma per gli ebrei, non per tutti, per poter continuare a godere dei propri privilegi.”
“Anche il Sudafrica era una democrazia ma solo per i bianchi. In tutto questo c’è una questione razzista molto forte. Lo ha provato la mobilitazione mondiale per gli ucraini a fronte di un silenzio assordante verso i siriani e tanti altri massacri compiuti nel nostro mondo. Quindi la democrazia è oggi soltanto una questione di bianchi, di occidentali, ed è stata completamente svuotata del suo significato di eguaglianza? Lo stesso vale per Israele: la democrazia è riservata agli ebrei e la metà della popolazione di Israele – gli arabo-israeliani – non la conosce, non ha diritto di voto, diritti civili, subisce una costante discriminazione. Se questo per l’occidente è un modello di democrazia mi fa molta paura. Vuol dire che l’idea di una nuova democrazia europea poggia sul razzismo, sulle diseguaglianze, su uno stato d’eccezione che permette di tenere la gente in prigione senza processo o di entrare di notte nelle case senza ragione.”