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La cattiva occupazione nel Sud e le sue conseguenze

2 Apr


di Cosimo Perrotta – 2-4-2024

Qualche anno fa Mario Draghi fece una distinzione, elementare ma fondamentale, fra spesa pubblica cattiva (quella che crea rendite e spreco) e spesa pubblica buona (gli investimenti, che creano occupazione produttiva). Una distinzione simile si può applicare all’occupazione (come ho fatto nel seminario di Humanfirst del 14 marzo scorso).
C’è infatti un’occupazione cattiva, basata sul lavoro precario, mal pagato e non protetto, e un’occupazione buona, che assicura contratti non a termine, salari decenti e garanzie sul lavoro. L’occupazione cattiva domina nei lavoretti (“gig economy”), nelle consegne a domicilio, i call center, i lavori stagionali dell’agricoltura e del turismo, la ristorazione, l’edilizia, il commercio al minuto. Ma essa è ormai largamente presente anche nelle fabbriche, soprattutto attraverso il meccanismo degli appalti a cascata, delle false cooperative e delle false partite IVA, tutti strumenti fraudolenti (anche se spesso legalizzati) per sfruttare maggiormente il lavoro dipendente.
Anche per l’occupazione la distinzione è elementare ma fondamentale. Innanzitutto per smentire le statistiche ingannevoli diffuse spesso dalle fonti ufficiali. Queste statistiche registrano come occupate anche le persone che hanno lavorato per poche ore in un mese. Dati di questo genere fanno pensare a chissà quale sviluppo economico sia in atto, quando in realtà l’economia italiana è ferma da 25 anni. Ma quella distinzione è importante soprattutto perché i due tipi di occupazione danno risultati economici e sociali opposti.
La buona occupazione fornisce una domanda robusta e una produzione in crescita, assicura benessere, aumento della produttività, innovazione e migliore qualità. Insomma, permette lo sviluppo. Questo complesso di fattori positivi, però, in Italia si va assottigliando sempre più, e nel Sud si riduce molto più rapidamente che nel Centro-Nord. La cattiva occupazione invece crea una domanda di beni finali insufficiente, si basa su lavoro dequalificato, non motiva i lavoratori, scoraggia l’innovazione e quindi deprime gli investimenti sia privati che pubblici.
L’attuale governo ripete all’infinito che non bisogna disturbare “chi produce ricchezza”, cioè le imprese private; come se queste fossero l’unica e certa fonte di ricchezza. Per questo motivo si lasciano correre, con mille marchingegni, l’evasione fiscale, gli appalti incontrollati, il caporalato, l’iper-sfruttamento dei lavoratori. Ma una tale politica impedisce proprio quella produzione di ricchezza che si vuole incoraggiare; perché fa calare allo stesso tempo la produttività e la domanda di consumi.
Per di più, il governo finanzia le imprese attraverso una parte crescente delle entrate pubbliche. Il risultato è che l’occupazione pubblica deperisce; i suoi servizi (trasporti pubblici, asili-nido, scuole, sanità, affitti), che sono la necessaria integrazione dei redditi più bassi, diventano inefficienti; e ciò deprime ulteriormente la domanda di beni finali. Perciò le imprese, non avendo prospettive sufficienti di vendita, riducono ancor più gli investimenti, e impiegano i lauti finanziamenti governativi in attività improduttive, come la speculazione finanziaria o immobiliare, quando non li imboscano nei paradisi fiscali. L’avvitamento verso il basso dell’economia è particolarmente forte al Sud, come sempre accade per le aree meno dinamiche e più povere. Se queste politiche non cambiano rapidamente, la crisi economica e quella culturale di gran parte del Sud diventeranno irreparabili. Le proiezioni dei demografi prevedono che nel 2080 il Nord avrà perso ca. il 10% della popolazione del 2022, il Centro poco più del 20%, ma il Sud perderà ben il 40%, creando uno spopolamento economicamente devastante.
Infatti, la disoccupazione ha creato un esodo massiccio verso il Nord, alla ricerca del lavoro. A ciò si aggiunge una carenza di servizi pubblici e di sostegno così grave che le famiglie rimandano sempre più la decisione di fare figli. Infine, i lavoratori poveri dell’economia precaria spesso non sono autosufficienti e non possono permettersi di fare figli. Ma non basta.
La povertà crescente del Sud non impedisce il diffondersi dei modelli culturali tipici delle aree più avanzate. Nel Sud è scomparsa la natalità non programmata della società contadina. Come nelle aree sviluppate, si è imposta la transizione demografica: le famiglie, una volta raggiunto un certo benessere, lo difendono facendo meno figli. La denatalità nel Sud, quindi, è in parte frutto del benessere, come per la Svezia o la Germania, ma per un’altra parte è frutto della carenza di garanzie lavorative e di servizi pubblici. È esattamente questa sovrapposizione che porta il Sud Italia a soffrire di un calo di natalità molto maggiore di quello dell’Europa ricca.
Questa doppia radice della denatalità del Sud ci porterà al collasso. A meno che non ci decidiamo ad accogliere gli immigrati e a favorire il loro inserimento produttivo.

Verso lo sviluppo umano e sostenibile; il faro e le onde

8 Gen


di Gianni Vaggi
Nel 1967 Papa Paolo VI scrive: “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Per l’inizio del terzo millennio, l’ONU vara i diciassette Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, OSS, raggruppati in cinque aree: Persone, Pianeta, Prosperità, Pace, Partenariato globale per lo sviluppo, le cinque P. Le ultime due aree comprendono un unico obiettivo, sedici e diciassette rispettivamente, ma con molti targets e indicatori. La sostenibilità ambientale entra compiutamente nell’idea di sviluppo nel 1987 con il Rapporto Brundtland, che ci fa ragionare in termini di rapporti fra le generazioni. Nel 1990 abbiamo il primo rapporto sullo sviluppo umano dell’ONU, con l’Indice di Sviluppo Umano, ISU, che allarga l’idea della qualità della vita degli esseri umani al di là degli indicatori economici ed in particolare si focalizza sul diritto alla salute ed all’istruzione.
La pace sembra sempre più lontana, lo sviluppo arranca. Con Marco Missaglia abbiamo provato a delineare un percorso verso lo Sviluppo Umano e Sostenibile, SUS: Introduzione all’economia dello sviluppo, Carocci 2022. Uso la metafora del faro, che nella sua cella luminosa include gli OSS, ma anche diritti umani, ecologia integrale, transizione ecologica, beni comuni e tutto quello che noi possiamo pensare essere in SUS.
Nella luce del faro ci sono soprattutto Persone e Pianeta: gli esseri umani e le risorse naturali. SUS non è una situazione di equilibrio, ma un processo che possiamo misurare con il trascorrere delle generazioni. Gli esseri umani della generazione successiva, Persone 2, dovrebbero avere più opportunità della generazione precedente: essere più istruiti, potersi muovere ed incontrare con maggio facilità e libertà. Stesso discorso per Pianeta 2: minor inquinamento, acqua più pulita disponibile per più esseri umani.
Il faro indica la direzione e avvisa dove c’è terra, ma la navigazione è condizionata dalle onde a dai venti, che sono le condizioni storiche, economiche e sociali in cui SUS si deve svolgere.
Queste strutture, sono anche vincoli, sono le sfide incluse nell’area Prosperità, quattro obiettivi che definisco ‘strutturali’. N. 8, crescita inclusiva piena occupazione lavoro decente; n. 9, infrastrutture resilienti e industrializzazione sostenibile; n.10 ridurre le diseguaglianze all’interno e fra le nazioni; n. 12 modelli di consumo e produzione sostenibili.
Anche gli altri obiettivi implicano un cambiamento delle strutture economiche, ma questi quattro le affrontano direttamente. Negli ultimi decenni, e forse soprattutto nell’ultimo, le acque sono state molto agitate e spesso i venti non hanno soffiato nella direzione indicata dal faro. Siamo a metà della navigazione verso il 2030 e il Global Sustainable Development Report 2023 dell’ONU è molto pessimista sul fatto che la nostra nave abbia la velocità giusta per conseguire gli OSS; quasi tutti gli obiettivi dovranno essere spostati più in là o forse modificati.
Nel 1662 Sir William Petty scrive: “Il Lavoro è il Padre e principio attivo della Ricchezza, come le Terre sono la Madre”: Persone e Pianeta. Certo lui si occupava di ricchezza e non di sostenibilità, ma sottolineo l’espressione principio attivo, cioè la responsabilità che è degli esseri umani di organizzare se stessi e utilizzare le risorse naturali. Questo ci porta agli ultimi due OSS, che di fatto si riferiscono a chi conduce la nave e come la conduce. Chi decide la rotta e la velocità? Il partenariato globale per lo sviluppo è l’ultimo obiettivo, il 17, che comprende aree quali Finanza, Tecnologia, Commercio. Tre elementi che condizionano non solo la navigazione verso il faro, ma la società futura: come saranno Persone 2 e Pianeta 2? Chi decide quanto e come investire? Quali settori e aspetti dell’economia favorire e quali scoraggiare? Questo ci porta ad una sesta P, quella di Potere, che non compare direttamente negli OSS 16 e 17, ma che è inevitabile affrontare. Ci sono enormi squilibri nel potere economico e politico fra paesi e all’interno dei paesi. Un modesto criterio per valutare la nostra navigazione è quello del ribilanciamento di questi poteri così diversi. Tutti gli stakeholders hanno ‘voce in capitolo’? Partecipano davvero alle decisioni sulla tecnologia? Sul come scoraggiare o incoraggiare stili di consumo e produzione sostenibili? Sul come e quanto dedicare alla navigazione verso SUS dei trilioni di dollari di fondi che si muovono nella finanza internazionale? Le sfide di Partenariato e Pace saranno con noi ancora a lungo ben oltre il 2030. Forse sono utopie, ma le alternative sono terribili. Vale la pena continuare a cercare di orientare la nave verso il faro.

Pluralismo e capitale sociale

7 Feb


di Salvatore Rizzello

Il rapporto tra pluralismo e capitale sociale è complesso e controverso. In una società plurale, individui e gruppi di orientamenti diversi sul piano culturale, etnico, politico e religioso coesistono e partecipano pienamente alla vita pubblica nel rispetto delle regole comuni e delle differenti tradizioni. Queste differenze rappresentano una diffusa ricchezza, se valorizzate con tolleranza e se insieme concorrono alla formazione delle norme sociali.

L’insieme delle reti, delle relazioni e dei rapporti fiduciari tra le persone è il “capitale sociale” ed è vantaggioso per chi ne beneficia. Se riguarda un numero relativamente limitato di componenti, con legami di tipo famigliare, corporativo o associativo, ciò determina vantaggi per chi ne fa parte, ma svantaggi per chi ne è escluso, dal punto di vista dello sviluppo economico, sociale e civile (1). Invece, se una società è inclusiva e ben coesa grazie a istituzioni solide, la rete di relazioni si espande con vantaggi per tutti. In questa prospettiva il capitale sociale è un bene pubblico e come tale va salvaguardato (2).

La letteratura sul capitale sociale è molto ampia, variegata e multidisciplinare. In economia, tra le posizioni più controverse si segnala quella di Becker (3), che riduce la dimensione relazionale a quella individuale, la sola di pertinenza dell’economista. Egli utilizza l’apparato metodologico neoclassico, basato essenzialmente sul comportamento razionale degli agenti economici nel perseguimento egoistico del proprio interesse e riduce gli aspetti relazionali alla funzione di utilità individuale. North (4) sottolinea il ruolo cruciale delle istituzioni nei processi economici e, pur accogliendo l’idea che esse siano frutto dell’azione razionale dei singoli individui, sostiene che derivino dalle dinamiche relazionali di gruppo e non vadano considerate una dotazione dei singoli individui. Arrow (5) sostiene invece che è improprio parlare di capitale sociale, perché non è misurabile, appropriabile e oggetto di scambio, come le altre forme di capitale (fisico, umano, finanziario).

Putnam unifica questi aspetti in un quadro d’insieme coerente, ove la maggiore o minore presenza di capitale sociale ha un ruolo rilevante per lo sviluppo economico e sociale. In sintesi, egli crea un indice matematico-statistico in grado di misurare lo “stock” di capitale sociale, con riferimento a reti sociali molto ampie. Riconosce un ruolo fondamentale alle istituzioni pubbliche, locali e nazionali nel salvaguardare, sostenere e rafforzare l’identità sociale, che per lui rappresenta il fattore principale di crescita del capitale sociale. In questo senso, l’aumento dell’immigrazione che estende il numero di persone con culture, tradizioni e identità diverse tra loro, indebolisce l’identità di gruppo preesistente e, riducendo la rete relazionale, diminuisce il capitale sociale, con effetti negativi sullo sviluppo economico. La plastica rappresentazione di questo fenomeno è descritta da Putnam in Bowling Alone e si riscontra nel numero crescente di persone che “giocano da sole”, in attività che prima erano svolte in gruppo (fertile humus per le relazioni sociali). La presenza crescente di immigrati, minaccia, a suo dire, l’identità autoctona, spinge le persone a rinchiudersi (“accovacciarsi come una tartaruga”) nel proprio individualismo e mette a rischio la tenuta democratica.

Si tratta di una lettura discutibile con aspetti controversi. Ci limitiamo a metterne in luce due. Il primo riguarda la consapevolezza della propria identità. Essa emerge da un complesso processo neuro-cognitivo e relazionale e non risponde solo a criteri di razionale interesse egoistico, come sostengono Akerlof e Kranton (6). La consapevolezza sulla propria identità, individuale e sociale, al contrario, è frutto di complessi processi dinamici e in continuo feed-back con la dimensione sociale (7). Con un’informazione adeguata e plurale, e non subdolamente distorta, l’identità sociale si arricchisce, evolve e genera benessere individuale e collettivo. L’identità non è statica, né grettamente chiusa.

Il secondo aspetto riguarda le disuguaglianze. Non è la diversità di per sé a fare la differenza, ma la diversità diseguale, come dimostrano solide indagini empiriche (8). Dove le disuguaglianze si riducono, gli indicatori su senso civico e fiducia crescono. Accade il contrario quando si acuiscono. Come ha colto anche Putnam, le istituzioni giocano un ruolo cruciale nel determinare l’aumento o la diminuzione delle disuguaglianze e quindi vanno salvaguardate e rafforzate. In una prospettiva di lungo periodo, però, il ruolo cruciale lo svolge l’istruzione. Una scuola aperta, inclusiva e plurale è alla base del benessere sociale, prima ancora che economico. Forse, come dice Arrow, quello sociale non è un capitale “quantificabile”. Se però si abbandona l’approccio neoliberista del perseguimento del mero interesse individuale, si arricchisce l’analisi teorica e ne giova la dimensione più intrinseca alla natura umana: quella relazionale.

(Sintesi della relazione del 28 gennaio al ciclo di incontri “I Venerdì di Diogene 2022” di Humanfirst)

Banfield, E.G. (1958), The Moral Basis of a Backward Society, New York, Free Press.
(2) Putnam, R. (2000), Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community, New York, Touchstone Books.
(3) Becker, G. S. (1976), The Economic Approach to Human Behavior, Chicago, Chicago University Press.
(4) North, D.C. (1990), Institutions. Institutional Change and Economic Performance, Cambridge, Cambridge University Press.
(5) Arrow, K.J. (1999), “Observations on Social Capital”, in P. Dasgupta e I. Serageldin (eds.), Social Capital. A Multifaceted Perspective, Washington, D.C., World Bank.
(6) Akerlof, G.A and Kranton, R.E. (2010), Identity Economics, Princeton, Princeton University Press.
(7) Rizzello S. (2019) “Identity and Consciousness in Economics”, Teoria e critica della regolazione sociale, 2, pp. 17-34.
(8) Uslaner, E. M. (2011). “Trust, diversity, and segregation in the United States and the United Kingdom”, Comparative Sociology. 10, 221–247.

La storia fa bene all’ambiente

4 Mag

di Luigi Guerrieri

Il 22 aprile è stata celebrata la Giornata della Terra, istituita dall’ONU e iniziata il 22 aprile 1970.
Intorno alla metà degli anni ’60 era già drammaticamente visibile l’impatto umano sugli ecosistemi terrestri. Vi avevano contribuito diversi fattori, antichi e recenti. Fra i primi, il più importante, la rivoluzione industriale in atto nel vecchio continente già da due secoli; fra i secondi, le guerre del ’900 (particolarmente distruttive dell’ambiente), l’estensione del modello industriale europeo a tutto il mondo, gli esperimenti nucleari, la ricostruzione economica dei Paesi devastati dalla guerra. I “Trenta Gloriosi” (1945-1975) e la “Grande Accelerazione” hanno avuto costi ambientali altissimi.
L’ambiente e la pace, quindi, erano in cima all’agenda dei movimenti giovanili e studenteschi di quegli anni. Anche allora i giovani avevano visto prima ma, nella società della ragione, neanche allora vennero ascoltati.
Adesso, nessuno può dire: “io non sapevo”. Tutti sapevano. E tutti sanno. Prevale l’indifferenza. Mentre scrivo queste righe e celebriamo la festa della Liberazione, mi vengono in mente le parole di quel giovane partigiano nella sua ultima lettera ai familiari: “Ricordate che tutto è successo perché non volevate saperne”.
Chi dimentica la storia è destinato a riviverne i momenti peggiori. Un giorno, spero non lontano, grazie ai giovani celebreremo la liberazione dai falsi miti che imprigionano le nostre esistenze. Primo fra tutti, quello della crescita infinita su un pianeta finito.
L’ONU nel 1972 convocò a Stoccolma la prima Conferenza sul clima. Quello stesso anno, il Club di Roma, in collaborazione col MIT di Boston, pubblicava I limiti dello sviluppo. Da allora gli istituti di ricerca sul clima proliferarono. Fra i tanti, il World Watch Institute fondato da Lester R. Brown nel 1974 e il Wuppertal Institute fondato nel 1991. Di grande prestigio anche gli scienziati isolati (in tutti i sensi): Nicolas Georgescu- Roegen, Barry Commoner, James O’Connor, Paul Crutzen, Ilya Prigogine e tanti altri. Grazie all’ONU uscirono il Rapporto Bruntland (1987), il Protocollo di Montreal (1987), L’Agenda 21 (Rio 1992), il Protocollo di Kyoto (1997) e così via.
Tutti questi studi concordavano su un punto: la pressione antropica aveva assunto dimensioni abnormi, molto prossima alla soglia di guardia, superata la quale si sarebbero aperti scenari raccapriccianti. L’azione del sole da benefica si sarebbe trasformata in venefica, la qualità dell’aria, dell’acqua e della terra si sarebbe deteriorata, innescando processi incontrollabili che avrebbero reso problematica la vita sulla Terra. Continuando a considerare il pianeta una dispensa inesauribile e una discarica senza fondo, l’umanità avrebbe presto fatto i conti con scarsità di risorse, cambiamenti climatici, pandemie.
Mentre i governi ignoravano il problema, le reazioni del mondo accademico furono feroci: cassandre, catastrofisti, reazionari, intellettuali snob, uccelli del malaugurio, nemici del progresso, primitivisti e via di seguito.
Eppure, è successo tutto esattamente così. Ma nonostante questo, c’è ancora chi nega l’evidenza. In testa alla lista, ancora i governi dei Paesi inquinatori storici (quelli del benessere), che più si ostinano a fare la guerra al pianeta più consenso ricevono dai loro concittadini. Il populismo non si spiega soltanto con la disperazione dei ceti schiacciati dalla crisi del capitalismo storico, ormai afflitto dalla “stagnazione secolare”. Si spiega anche con la difesa dei privilegi della “società signorile di massa”. Questo è un problema spesso ignorato che mette in discussione le stesse basi materiali della nostra democrazia.
Il capitalismo, una volta globalizzato, si è rivelato insostenibile per gli elementi vitali e incompatibile con il diritto alla vita di tutti i popoli del mondo. Per quanto armati di ottimismo della volontà, il pessimismo dell’intelligenza ci suggerisce che sciogliere questi nodi sarà tremendamente difficile. Ma la nostra condizione non ci lascia alternative. Spero che la scienza ci dia una mano.
Nell’attesa, mi chiedo: ma doveva proprio succedere il finimondo per accorgerci che il nostro destino è comune e per convincerci che al punto in cui siamo giunti non è più possibile distinguere fra la nostra salute individuale e la salute del pianeta, fra la nostra pace interiore e la pace nel mondo? Ma questo non era già chiaro mezzo secolo fa? La storia mi dice che i giovani di cinquant’anni fa lo hanno urlato in tutte le piazze del mondo, ricevendo in premio manganellate, piombo e lacrimogeni. Bastava ricordarsene. Non lo abbiamo fatto e ci siamo ammalati, se non di COVID 19, almeno di paura.
Azzardo una previsione: diventeremo tutti ambientalisti. Speriamo che quando accadrà non sia troppo tardi. E che chi sta oggi a guardare non dia ai giovani di domani lezioni di ambientalismo. La storia della Resistenza e del ’68 mi dice che questa non sarebbe una novità.

Il Green Deal europeo – I parte

16 Mar

di Beatrice Bonini e Giampaolo Galli
(da Osservatorio Conti Pubblici Italiani, diretto da Carlo Cottarelli, 28 febbraio 2020)
il documento 16/3/2020
La nuova Commissione Europea guidata da Ursula Von Der Leyen ha messo al centro della propria azione la questione del cambiamento climatico, visto come una necessità imprescindibile alla luce delle analisi scientifiche, ma anche come uno strumento per il rilancio dell’economia europea. L’obiettivo, estremamente ambizioso, è quello di azzerare le emissioni nette di gas serra entro il 2050 e a questo fine la Commissione ha annunciato che renderà più stringenti gli obiettivi di riduzione delle emissioni per il prossimo decennio. Uno strumento essenziale per raggiungere gli obiettivi è il “Sustainable Europe Investment Plan” che prevede di mobilitare, tramite il budget dell’UE e altri strumenti associati ad esso, almeno 1.000 miliardi di euro in investimenti sostenibili, sia pubblici che privati, nell’arco dei prossimi 10 anni. Secondo la Commissione, questo piano è solo una parte, circa un terzo, di ciò che sarebbe necessario per conseguire l’obiettivo delle neutralità climatica. Per ora non è stata formulata alcuna ipotesi su come possano essere mobilitati i restanti due terzi. In questa nota ci soffermiamo perciò sugli oltre 1.000 miliardi di cui trattano i documenti della Commissione e cerchiamo di capire in cosa consista effettivamente il “Green New Deal”, da dove vengano risorse tanto ingenti – si noti che l’intero bilancio europeo per il prossimo settennio è nell’ordine di poco più di mille miliardi – e quali effetti potranno avere sulla crescita economica.
Il piano di investimenti: cosa c’è di nuovo
In base al documento pubblicato dalla Commissione il 14 gennaio scorso, il finanziamento previsto per la transizione “verde” sarà costituito dal 25 per cento del budget UE, dal 30 per cento delle garanzie del programma InvestEU (cioè la nuova versione del piano dell’ex presidente della Commissione, Junker) e da risorse messe a disposizione dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI), che dovrebbe diventare una sorta di “Banca Europea del clima”. In aggiunta a queste tre principali fonti, vi saranno il cofinanziamento nazionale dei singoli stati membri attraverso i Fondi strutturali e d’investimento europei (ESIF), investimenti pubblici e privati, e i fondi dell’Emission Trading System – il sistema di concessioni di emissioni di gas serra dell’UE, parte integrante delle politiche europee di carbon pricing.
Tutte queste non sono risorse stanziate ex novo, ma sono essenzialmente delle riconversioni di fondi preesistenti a cui viene data una finalizzazione “verde …………

I grandi investimenti proposti non sono dunque aggiuntivi rispetto ai precedenti piani, ma sono altre tipologie di investimento ottenute grazie al riorientamento di fondi già esistenti e inizialmente pensati per altri obiettivi. …. Verrebbero reindirizzati agli obiettivi del Green Deal il 30 per cento dei Fondi di Coesione e del Fondo di Sviluppo Regionale, il 40 per cento della PAC (Politica Agricola Comune), il 60 per cento dei fondi per le infrastrutture (il cosiddetto Connecting Europe), ecc. Si noti che questa allocazione di fondi non è esaustiva e non consente di ricostruire il quadro completo per arrivare ai 503 miliardi del budget UE [che fanno] parte dello European Green Deal Investment Plan.
…………..

Manca ancora una definizione delle politiche che concretamente verranno finanziate, o, al contrario, de-finanziate e disincentivate. Questo punto è ovviamente cruciale e al momento è pressoché impossibile dire se il riorientamento del bilancio sarà coerente con gli obiettivi dichiarati; si possono solo fare delle ipotesi circa gli effetti sulla crescita economica. Va anche detto che solo quando saranno chiare le politiche si potrà capire quali gruppi sociali ne trarranno vantaggio e quali, al contrario, verranno sfavoriti: data l’estrema ambizione del piano, si può solo immaginare che gli interessi penalizzati saranno tanti e si organizzeranno per far sentire la loro voce.
Attualmente, la Commissione sta discutendo della “tassonomia”, ossia un elenco di attività o settori che potranno essere considerati in linea con gli obiettivi ambientali. Si tratterebbe di un primo passo importante per arrivare poi a definire le politiche. Sarà infatti la tassonomia che verrà definita a stabilire quali politiche di investimento potranno essere definite “green” e quindi rientrare nel perimetro del Green Deal. Attualmente, il primo accordo di massima raggiunto da Parlamento, Commissione e Consiglio europeo chiarisce che il “bollino green” sarà garantito alle attività che presenteranno alcune caratteristiche come l’uso sostenibile e la protezione dell’acqua e delle risorse del mare, la prevenzione e il controllo dell’inquinamento, la mitigazione del cambiamento climatico ecc. Insomma, il dibattito è appena iniziato e ancora le prime disposizioni sono estremamente generiche …

La selezione irrazionale dei migranti

2 Mar

di Cosimo Perrotta – 3/3/2020

Il 19-20 febbraio 2020 i media hanno diffuso la notizia della nuova politica del governo inglese sugli immigrati: saranno selezionati attraverso un meccanismo di punteggi. In pratica potranno entrare solo coloro che abbiano già un contratto di impiego di almeno 23mila sterline (27.500 euro circa) l’anno e conoscano l’inglese. Questo escluderebbe almeno il 70% degli attuali immigrati in Gran Bretagna. La Confindustria britannica è molto irritata da questo provvedimento, e qualche ragione ce l’ha, visto che interi settori della ristorazione, agricoltura, pesca, edilizia, assistenza alle persone rimarranno gravemente sguarniti.

Sebbene non così estremizzata, questa politica è stata già proclamata e in parte attuata da diversi paesi nel mondo, soprattutto anglosassoni, ed è invocata da molti “esperti”. Prescindiamo dalle considerazioni sociali e morali, che pure sarebbero doverose, e chiediamoci: economicamente, è una politica razionale? No, è proprio il contrario.

Le migrazioni attuali sono suscitate dal benessere dei paesi ricchi. Il benessere, alla lunga, produce tre fenomeni strettamente connessi tra loro: un’attesa di vita più alta, il calo della natalità e un periodo di istruzione più lungo (e quindi lo spostarsi dei giovani locali verso lavori a più alta qualificazione). Questi tre fattori convergono verso un’unica necessità delle economie opulente, che solo i migranti possono attualmente soddisfare: aumentare i lavoratori dei mestieri meno qualificati. Questi lavoratori devono essere, infatti, abbastanza giovani e abbastanza numerosi per pagare le pensioni degli anziani, che aumentano sempre più; si adattano a fare lavori che i giovani locali – avendo studiato a lungo – tendono ad evitare; hanno un tasso di prolificità molto più alto. La selezione alla Johnson impedisce tutte e tre queste soluzioni. Al contrario, essa aggrava l’invecchiamento, la denatalità e la carenza di lavoro non qualificato.

In punto di teoria, niente impedisce di pensare ad una società talmente avanzata che le mansioni non qualificate siano svolte attraverso la tecnologia, dove quindi i vecchi lavori elementari siano spariti (come lavare i piatti o riparare scarpe) o si siano trasformati in lavori specializzati (come molte mansioni della cura alla persona). Sarebbe quindi una società in cui non c’è bisogno della gran parte degli attuali lavori poco qualificati. Ma i paesi ricchi di oggi, non solo non sono ancora a questo punto di avanzamento, ma – per colpa della loro politica – stanno arretrando. Essi hanno bloccato l’evoluzione interna dei lavori.

I paesi ricchi, con la globalizzazione, hanno attuato una delocalizzazione accelerata della propria industria manifatturiera verso i paesi emergenti senza convertire il proprio lavoro verso la produzione immateriale. Inoltre, con la tolleranza versi i paradisi fiscali e l’evasione fiscale, questi paesi si sono privati dei capitali necessari alla formazione del capitale umano e alla diffusione ordinata delle tecnologie digitali. Hanno quindi allargato le sacche di disoccupazione nascosta, in cui è presente il lavoro poco produttivo degli “analfabeti” digitali. Il risultato di tutto questo è che il benessere continua a far avanzare i processi di invecchiamento e denatalità e fa permanere il bisogno di un lavoro non qualificato molto esteso.

Si dirà, ma perché allora molti paesi attuano o invocano politiche selettive degli immigrati, che facciano passare solo i più qualificati? Non è questa la prova che essi hanno ragione? Nient’affatto. La storia moderna è piena di politiche autolesioniste attuate per motivi ideologici, per xenofobia, razzismo, odio religioso, ecc. Nel 1492 la Spagna espulse i mori, già sconfitti, rovinando per sempre la propria agricoltura e distruggendo le raffinate tecniche arabe di irrigazione. Espulse anche gli ebrei, impoverendosi gravemente sul piano intellettuale ma anche sul piano mercantile e finanziario.

L’antisemitismo nazista e la Shoah, oltre che massimo esempio di abiezione morale, sono anche un monumentale caso di idiozia economica, in cui fior di professionisti e intellettuali venivano ridotti a schiavi affamati e ben poco produttivi. La stessa Brexit, l’ultimo frutto avvelenato di una tenace tradizione xenofoba in Europa, è stata la risposta economica controproducente ad un problema reale: la disoccupazione e il lavoro precario. E’ il populismo, bellezza.

C’è una sola possibilità che le politiche selettive dei migranti non siano così irrazionali come sembrano: che di fatto i lavori non qualificati vengano svolti da masse anonime di lavoratori illegali che non si vuole regolarizzare. Il loro status attuale, infatti, li rende più deboli e più disposti a farsi sfruttare a piacimento. Il tutto senza oneri per lo stato né sforzi di inclusione, organizzativi o culturali. Che ci sia questo nella mente del furbo Johnson?

Aperte le iscrizioni a “Daìmon: A scuola per restare”

23 Gen

Prende il via “Daìmon: A scuola per restare”: una scuola che non terminerà mai: itinerante, multidisciplinare, inclusiva, gratuita e accessibile a grandi e piccini; senza porte e finestre, senza pagelle e attestati, senza compiti e calendari da rispettare; con luoghi di apprendimento disseminati nei campi, nelle cantine e nelle botteghe, diffusa nei paesi e nei paesaggi d’Italia. Una scuola adatta a chi vorrà abitare poeticamente e civicamente i propri territori e a chi vorrà conferire pienezza al proprio re-stare.

Praticheremo l’arte socratica della maieutica, ovvero impareremo a ‘partorire’, grazie agli stimoli – dote in senso lato- degli incontri, risposte, strumenti e soluzioni che ci appartengono ma che abbiamo disarmato.

Impareremo dunque a ri-scoprire i nostri luoghi madre, a stimolare e supportare gli enti pubblici e privati locali e internazionali; ci sensibilizzeremo alla cittadinanza attiva glocale; ci dis-educheremo all’abbandono e impareremo l’arte della cura: delle radici e dei fiori.

Da decenni l’Italia è vittima del calo demografico e dello spopolamento per abbandono volontario o forzato da parte dei suoi abitanti. Ma è in atto anche una migrazione interna che, come una bussola, è pressoché unidirezionale e riguarda uno spostamento massivo di cittadini dalle regioni del Sud a quelle del Nord Italia.

Interi paesi sono diventati – o stanno diventando – borghi fantasma, mentre le città medio-grandi si apprestano a diventare metropoli prive di spazio vitale. 

È fondamentale preservare il patrimonio culturale e naturale dei piccoli centri, per tutelarne la produzione agricola, culturale ed enogastronomica: per tutelarne le connotazioni identitarie.

A partire da queste osservazioni, l’antropologo calabrese Vito Teti ha coniato il concetto di “restanza”, un rimando alle parole “erranza” e “lontananza”. Non pigrizia, né per così dire “resistenza passiva” o tantomeno rassegnata: bensì un atteggiamento attivo e propositivo, da praticare nella quotidianità: lavorando a una ridefinizione continua dell’ambiente, recuperando e rigenerando il paesaggio in relazione alla presenza dell’uomo, in piena armonia.

I paesi rappresentano una grande risorsa e una grande opportunità.

Non sono un residuato del passato o un’eredità di un “piccolo mondo antico” avulso dal presente. Anzi, i piccoli comuni possono essere un luogo dove si possono sperimentare politiche innovative dal punto di vista civico, sociale ed economico, dove si possono costruire nuove relazioni con i luoghi e le comunità, dove si può (e si deve) parlare di futuro.

Di sicuro il futuro dell’umanità sarà ancora costituito da cammini e spostamenti. L’etica della restanza non promette una rivoluzione, ma indica la strada per costruire avamposti contro l’impoverimento culturale e per erigere zone di accoglienza verticale e orizzontale – caminetti o luoghi di ristoro – da offrire ai viandanti: indica la strada per creare rete, scambio di saperi, cor.rispondenze e quindi arricchimento.

Ed è proprio questo che la scuola chiede in luogo di una quota di partecipazione: un baratto in sapere, manufatti, tempo, ospitalità, prodotti o edificanti segreti per una restanza felice.

P.S. Abbiamo scelto di dare alla nostra scuola il nome Daìmon, dal lessico del sentire greco. Era lo spirito guida che accompagnava gli eroi greci a compiere il loro destino, a realizzare pienamente la loro individualità, il loro essere eccezione; nel caso di Antigone era Filía: Amore.

Daìmon era ed è il nostro demone: lo sguardo interiore che porta al riconoscimento; viatico e volano per la realizzazione della nostra pienezza. I segni di daìmon poi sono gli stessi che definiscono (con l’aggiunta di una congiunzione) la parola diaméno, che in greco classico significa restare.

Per cui (il nostro è anche un augurio): restiamo seguendo il nostro demone, nella piena realizzazione –anche civica- della nostra singolarità.

Ideatore della scuola: Gianluca Palma 

Gestione della scuola a cura de La scatola di latta

Stradario Poetico a cura di Elisabetta Donno

Progetto grafico a cura Valeria Puzzovio

Traduzioni a cura di Cristina Carla

Info: 3395920051 – scatoladilatta2014@gmail.com

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Le voci che abbiamo in comune – Un glossario dell’amministrazione condivisa

19 Mar

Con grande piacere segnaliamo “Le voci che abbiamo in comune” pubblicato da Labsus (Laboratorio per la sussidierità) un Glossario dell’amministrazione condivisa, con 34 fra i termini più usati per parlare dell’amministrazione condivisa dei beni comuni.
 La  redazione di Labsus le ha chiamate Voci perché sono termini, lemmi, parole, ma anche perché danno suono a concetti astratti che ritengono fondamentali per rendere agibile e praticabile la loro idea di cittadinanza. Un’idea che è essenziale rivalutare per migliorare la qualità della vita in comune.

Scarica gratuitamente 
Voci in comune

LO SVILUPPO SOSTENIBILE PER IL BENESSERE DELLE COMUNITA’

11 Mar

 

di Renato Chahinian
Il benessere di comunità, inteso come insieme di fattori oggettivi e soggettivi che migliorano la nostra vita, rappresenta il fine ultimo di ogni comunità, anche se spesso viene concepito in maniera diversa.

Il benessere individuale e quello collettivo un tempo erano considerati separatamente, e generalmente valutati in conflitto: dovevamo sacrificare il nostro benessere personale per conseguire un benessere collettivo. Oggi essi tendono ad essere unificati, perché la soggettività individuale (se opportunamente indirizzata) determina anche benefici collettivi. Infatti, il lavoro individuale è fattore di sviluppo per l’intera collettività; e il benessere collettivo migliora ogni benessere individuale (ad es., un miglioramento della sanità si riflette sulla salute di tutti i cittadini).

L’accettazione di tali principi comporta tuttavia una rilevante crescita della complessità del sistema, in quanto i fattori di benessere (oggettivo e soggettivo) aumentano, mentre crescono le relazioni (sinergiche o contrastanti) tra loro.

La teoria dello sviluppo sostenibile è sorta nella seconda metà degli anni Ottanta del Novecento, in ambito ONU. Essa partiva dalle negative previsioni sulla sorte delle future generazioni, a causa di una crescita economica squilibrata, di tensioni sociali non governabili e di un ambiente in crescente degrado. Questa teoria ha individuato alcune condizioni generali di sviluppo equilibrato, per noi e per le future generazioni, in tre ambiti che coprono le nostre aspettative di benessere: economico, sociale e ambientale. Ciò semplifica il problema del benessere individuale e collettivo, in quanto tutte le nostre attività possono essere riferite ad una di queste tre categorie. Comunque ciascuna attività ha relazioni dirette o indirette con tutti e tre gli ambiti.

Ogni attività economica ha un impatto anche nel sociale e nell’ambiente in cui opera; ogni iniziativa sociale ha dei riflessi economici ed ambientali; ogni intervento sull’ambiente comporta problemi economici ed impatti sociali. Ma proprio queste relazioni possono essere in sinergia od in contrasto tra loro e pertanto gli scettici (coloro che notano soltanto i contrasti) ritengono che non si possa conseguire lo sviluppo sostenibile e ripiegano su un obiettivo di decrescita che definiscono felice soltanto per il fatto che ci renderebbe tutti uguali. Ma saremmo anche più poveri e dovremmo rinunciare a tutti i benefici derivanti dal progresso degli ultimi 200 anni (cioè dall’inizio dell’industrializzazione).

Se invece scopriamo e realizziamo le relazioni positive tra i fattori economici, sociali ed ambientali, possiamo perseguire lo sviluppo sostenibile e mirare ad uno sviluppo felice consistente in un miglioramento economico, sociale ed ambientale da parte di tutti, conseguendo così anche la coincidenza di benessere individuale e collettivo. Purtroppo, la strada per arrivare ad un simile obiettivo non è facile, anche perché gli stessi principi dell’ONU, pur ampiamente declinati in obiettivi ed indicatori da raggiungere, non hanno approfondito abbastanza l’aspetto delle interconnessioni tra le diverse tipologie di intervento e quindi i rischi di raggiungere un obiettivo peggiorando un altro sono molti. Tuttavia l’analisi teorica più recente ha già individuato numerose soluzioni generali ed applicative al problema degli effetti contrastanti. Indichiamo qui le principali.

Innanzi tutto sono importanti i requisiti del capitale umano. Se la forza lavoro è più competente e più determinata nel raggiungimento degli obiettivi sostenibili, riuscirà a realizzare iniziative migliori in ogni aspetto dell’attività in cui opera e si preoccuperà di valutarne gli effetti. In particolare è essenziale la formazione iniziale in ogni lavoro e la formazione continua di aggiornamento ed approfondimento per tutto l’arco dell’attività lavorativa. Soltanto così ogni operazione potrà divenire razionale ed innovativa, e potrà creare il massimo vantaggio derivante da ogni aspetto del progresso scientifico ed organizzativo maturato sino a quel momento.

Ma si deve anche tener conto degli effetti congiunti dei tre gruppi integrati di fattori.
Sotto l’aspetto economico, le valutazioni di ogni investimento devono essere effettuate in un’ottica di lungo termine e così si possono scartare tutti gli impieghi di capitale che a breve producono rendimenti elevatissimi, ma che possono essere rischiosissimi a lunga scadenza. Questo, perché prospettano perdite rilevanti dovute a: crisi speculative nel settore, rivendicazioni sociali, disastri ecologici, tassazioni aggiuntive per fini sociali o ambientali.

Con riferimento all’aspetto sociale, ogni iniziativa in favore della società deve essere svolta in maniera economicamente valida e rispettosa dell’ambiente. Per quanto riguarda l’aspetto ambientale, ogni intervento di miglioramento ecologico deve pure tener conto dei suoi costi economici (attraverso l’analisi costi-benefici) e degli effetti sociali conseguenti, per evitare le protezioni ambientali che vanno ad esclusivo beneficio di pochi privilegiati.

Economia dell’informazione e cambiamento delle istituzioni

14 Gen

di Anna Azzurra Gigante – Società
Un recente articolo pubblicato sul supplemento “L’economia” del Corriere della Sera (1) rifletteva sul processo di cambiamento attuale delle istituzioni, definito come particolarmente lento rispetto alle rapide trasformazioni di carattere scientifico che investono la società contemporanea.
L’articolo riconduceva tale sfasamento temporale alla natura intrinseca del cambiamento moderno: non più incarnato da invenzioni come il telefono, il treno o la televisione che hanno comportato cambiamenti nello stile di vita quotidiano così profondi da costringere rapide ed adeguate modificazioni sul piano istituzionale, ma da una proliferazione dell’innovazione scientifica e tecnologica fin troppo celere per permettere alle istituzioni di cambiare con la medesima frequenza.
Forse, però, la spiegazione potrebbe essere ricercata altrove.
In primo luogo, il processo di trasformazione istituzionale è per natura lento, come le teorie istituzionaliste insegnano: le istituzioni riflettono le abitudini (habits) mentali, che si connotano per una forte resistenza al cambiamento.
In secondo luogo, la dicotomia tra le invenzioni di ieri e quelle di oggi rischia di essere fuorviante e di non spiegare adeguatamente i processi di trasformazione sociale contemporanei.
Il vero motore del cambiamento sociale ed economico è rappresentato, oggi, non tanto dalle singole innovazioni o invenzioni, bensì dall’informazione, bene immateriale per eccellenza, caratterizzato da una spiccata volatilità e da una continua proliferazione.
Colossi come Microsoft, Apple o Amazon registrano fatturati strabilianti dei quali una grossa fetta trae origine dai servizi offerti, sempre più aderenti alle esigenze dei clienti perché costruiti su processi (discutibili) di profilazione degli utenti, ovvero sulla raccolta ed elaborazione di dati che li riguardano. Tali bacini informativi si stanno rivelando la materia prima che permetterà di realizzare notevolissimi risultati in molti ambiti, come il settore automobilistico (un esempio è quello delle auto a guida autonoma che grazie all’elaborazione di un mole più complessa di dati saranno presto in grado di comprendere più a fondo i segnali esterni e compiere scelte più efficienti) o il campo immobiliare (qui l’elaborazione dei big data rende già possibile fornire valutazioni molto più precise in merito al valore presente e futuro di ciascun immobile, informazioni di cui banche e aziende si servono per orientare le proprie scelte di business).
In questo panorama di grande complessità, le istituzioni non sono più chiamate solo a regolamentare beni e mercati specifici, ma anche a definire adeguate modalità di impiego dell’enorme massa informativa disponibile che coinvolge e intreccia nel contempo differenti settori ed interessi. Si tratta di uno sforzo notevole perché l’economia delle informazioni genera importanti esternalità e l’accesso ai dati e il modo in cui essi vengono adoperati ed trasformati in conoscenza condiziona fortemente tali ricadute.
L’Unione Europea non è estranea a questo tema. E’ intervenuta di recente in materia di privacy attraverso l’introduzione del nuovo regolamento sulla protezione dei dati personali (“General Data Protection Regulation”). Questo regolamento, già operativo nei paesi membri da pochi mesi, punta alla responsabilizzazione (accountability) dei detentori dei dati – Titolari e Responsabili – e a un uso più trasparente e corretto delle informazioni.
Il regolamento è tutelato dalla nuova figura del Data Protection Officer. La UE sta elaborando un quadro normativo di riferimento in materia di finanza sostenibile, attraverso l’implementazione dei criteri di valutazione a disposizione degli investitori – i cosiddetti criteri ESG, environment, society e governance – e attraverso la definizione di interventi di regolamentazione volti a incentivare l’investimento responsabile in ambito europeo.
Si tratta solo di alcuni primi passi. La definizione di adeguate cornici normative potrebbe contribuire a ridurre le asimmetrie informative nei mercati e ad omogeneizzare i processi cognitivi, limitando i rischi di manipolazione dei dati, così come i casi di selezione avversa, come viene teorizzata da G. Akerlof con il suo modello sui lemons.
Il processo di adeguamento istituzionale necessita, tuttavia, di tempo: esso dipende strettamente dal livello di maturità politica e culturale della società e ha bisogno di acquisire strumenti idonei a cogliere la complessità dei sistemi informativi e dei processi cognitivi a questi connessi.

(1) Edoardo Segantini, “Quintarelli e la scoperta della lentezza istituzionale”, L’Economia del Corriere della Sera, 13 agosto 2018, p. 18.