“Il capitale umano e le promesse mancate dell’ordine liberale” – I parte

8 Apr


di Giorgio Barberis (Univ. del Piemonte Orientale)
Sintesi della relazione tenuta a “I Venerdì di Diogene” di Humanfirst, Univ. del Salento, aprile 2023

L’ordine liberale, ossia il sistema politico-economico che si è affermato su larga parte del globo a conclusione della Seconda guerra mondiale, con i suoi pilastri ben definiti – la democrazia e i diritti individuali; il multipolarismo connotato da istituzioni internazionali formalmente riconosciute; un sistema di sicurezza collettiva assicurata dalla Nato, dalla coesione transatlantica e dall’egemonia statunitense; un’economia internazionale aperta, nata dagli accordi di Bretton Woods – e con le sue promesse di crescita e benessere per tutti, ha avuto indubbi successi – riassunti nelle formule felici del “Welfare state” e dei “Trenta gloriosi”, ossia i tre decenni di sviluppo economico dell’Occidente – ma anche evidenti contraddizioni, criticità, limiti. A sfidarlo, da un lato, il comunismo internazionale e l’economia pianificata sovietica, e – dall’altro – il pensiero critico, non rassegnato a ridurre l’individuo all’unica dimensione di consumatore. Con la fine della guerra fredda, con la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’URSS, con la globalizzazione e il successo planetario del (neo)liberismo, quell’ordine sembrava avviato a un trionfo ‘definitivo’, e si parlò addirittura, con una certa insistenza, di “fine della storia”, immaginando un’umanità giunta al suo massimo livello possibile grazie a una forma di governo in grado di assicurare la ‘sovranità’ a ognuno (la democrazia) e un sistema economico (il capitalismo) capace di garantire a tutti la possibilità di soddisfare ogni desiderio. Nessuno spazio per alternative concrete di fronte a un pensiero unico che prometteva felicità e pretendeva fedeltà. Ma era, se non una mistificazione, certamente un abbaglio, un’illusione, destinata a crollare nel giro di pochissimo tempo. L’ordine liberale after victory, infatti, ha palesato in tempi rapidi tutta la propria fragilità, non riuscendo in alcun modo a mantenere le sue promesse di pace, di sicurezza, di benessere e di prosperità universale, ed è precipitato in una profonda crisi, trascinando con sé anche la politica (che in realtà aveva da tempo abdicato al proprio ruolo di guida, cedendo il primato all’economia di mercato) e tutti gli ambiti fondamentali della vita sociale, alle prese con una “transizione” infinita tra un non più e un non ancora, in sospensione tra due mondi diversissimi: quello di ieri, ormai in pezzi, e quello di domani, pieno di incognite e di zone d’ombra.
Per capire ciò che sta accadendo oggi credo che sia opportuno risalire molto indietro, e più precisamente agli anni Settanta del Novecento. Si inizia allora a comprendere (pensiamo alla crisi petrolifera) che non può esserci una crescita infinita in un mondo finito, e che il modello produttivo richiede consistenti modifiche. A segnare quel decennio, e invero tutti quelli a venire, è però un vorticoso rinnovamento scientifico e tecnologico, la terza rivoluzione industriale, determinata dall’informatica, dall’elettronica, dai processi di automazione, dal silicio, e pure dagli aerei e dalle navi a grandi capacità, da uno spazio che si riduce e da un tempo che accelera, ponendo le premesse per la massiccia intensificazione di quei flussi che danno vita a una globalizzazione senza più argini e “confini”. Un cambiamento epocale che, come detto, ha interessato ogni ambito, a partire dal sistema economico e dal mondo del lavoro. Il passaggio dal fordismo al post-fordismo ha rappresentato una vera e propria rivoluzione copernicana, rendendo obsolete procedure e dinamiche che sembravano eterne (basti pensare alla catena di montaggio e a tutta l’organizzazione taylorista del processo produttivo), e che invece vengono travolte dal just in time, dalla lean production, dall’apoteosi del marketing, e dai processi di finanziarizzazione. Il lavoro si frantuma, la “flessibilità” diventa la parola chiave, ma porta con sé, come due facce della stessa medaglia, la precarietà, l’instabilità, l’incertezza, che sconfinano presto dall’ambito professionale a quello tout court esistenziale. Un cambio di paradigma che premia pochi fortunati ed espone i più fragili a conseguenze drammatiche, mettendo in crisi anche la retorica – per certi aspetti positiva – del “capitale umano” e delle sue potenzialità. Dal miraggio dell’emancipazione individuale alle nuove schiavitù il passo, purtroppo, è molto breve.
E la politica? È forse proprio questo il cuore del cambiamento che segna il nostro tempo. La sfera politica non è più il luogo della decisione sovrana, ed è vieppiù marginale e subalterna all’ambito economico. A determinare le sorti collettive sono le scelte di agenzie transnazionali sottratte al controllo democratico, di tecnocrazie non elettive e delle grandi corporations. La sensazione diffusa è quella di una mediocrità complessiva della leadership politica ad ogni livello, dal globale al locale.

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