La privatizzazione del Servizio sanitario nazionale (Ssn) in Italia – 1a parte

6 Mag


a cura di Cosimo Perrotta – 6-5-2024

La privatizzazione accelera
Nei paesi ricchi il settore sanitario cresce sempre più, sia per i forti progressi della ricerca medica sia per il conseguente invecchiamento della popolazione. Il capitale privato lo ha scelto da tempo tra i primi settori d’investimento. Ma la privatizzazione non avviene, come si racconta, attraverso la concorrenza fra settore privato (che sarebbe più efficiente) e settore pubblico. Avviene soprattutto finanziando l’investimento privato con la spesa pubblica. Ciò accade in vari modi, fra cui: A) cliniche, ospedali e laboratori privati convenzionati, le cui cure e analisi sono rimborsate dallo stato ai prezzi fissati dai privati. B) Assistenza intramoenia, svolta nelle strutture pubbliche da medici del Ssn ma con tariffe di livello privato, pagate dai pazienti per accelerare i tempi di diagnosi e cure. C) Medici che lavorano in parte nelle strutture pubbliche e in parte come liberi professionisti. D) Nei paesi più avanzati c’è una vasta attività di ricerca finanziata dallo stato a cui attingono anche le strutture private; le quali brevettano a proprio vantaggio i risultati della ricerca fatta con fondi pubblici (ad es., è accaduto in molti casi per il Covid).
In Italia, paese politicamente arretrato, la privatizzazione dei finanziamenti pubblici è più devastante. Si stanno formando grandi compagnie private con migliaia di medici e operatori sanitari e decine di ospedali – ad. es. il Gruppo S. Donato, che comprende 18 ospedali tra cui il S. Raffaele. Esse interagiscono con le compagnie che promuovono l’assicurazione privata degli utenti. Si delinea così una sanità per ricchi, che punta sulle specializzazioni “di eccellenza” e sulla scelta dei settori più remunerativi. Il modello è quello USA: i ceti più alti vengono liberati dalle tasse per la sanità pubblica in modo da farli accedere a una sanità privata costosa, che i ceti poveri non possono pagare.
Il numero di medici per abitante in Italia è simile a quello degli altri paesi UE (400 ogni 100mila abitanti) ma da noi il 79% dei medici ha più di 55 anni. I medici di famiglia e gli infermieri sono valutati e pagati meno che in altri paesi e hanno minori contatti con gli ospedali (in Francia e Germania gli ospedali ogni 100mila abitanti sono 3-4 volte di più). In Italia i medici sono per il 32% liberi professionisti, perciò i costi per i pazienti sono molto più elevati.
Nel 2021 le strutture ospedaliere private accreditate erano 995 (quasi raddoppiate in 10 anni), pari al 48,6% del totale. Le strutture private di specialistica ambulatoriale sono il 60,4% del totale.

Le carenze si aggravano
A causa delle attese troppo lunghe per analisi e cure nelle ASL, il 34,4% delle famiglie con basso reddito, deve ricorrere alle cure a pagamento (del settore privato puro o intramoenia). Per gli altri redditi, compresi i medio-bassi, vi ricorre oltre il 40%. Per evitare queste attese, ci sono circa 600mila migranti sanitari (quasi un terzo dei pazienti) che vanno in altre regioni. Altri, più di un quarto, si spostano per avere prestazioni migliori. Emilia e Lombardia hanno un saldo attivo di ca. 58mila unità ciascuna, mentre tutto il Sud più Abruzzo, Marche e Liguria hanno un saldo passivo. I posti letto per 100mila abitanti sono in Italia 314, in Francia 590, Ungheria e Romania 700, Germania 800. In soli due anni (2020-2022) il Ssn italiano ha perso 32.500 posti-letto.
C’è una grande fuga del personale all’estero o nel privato a causa dei turni massacranti e degli stipendi troppo bassi. Dal 2012 al 2021 i finanziamenti del nostro Ssn sono aumentati del 6,4%, ma in Spagna del 21,2, in Francia del 24,7, Germania del 33 per cento. Dal 2004 vige in Italia il tetto di spesa che impedisce nuove assunzioni nel Ssn. Perciò buona parte del personale è assunto tramite cooperative, che ottengono appalti dalle Asl con bandi triennali e pagano stipendi molto bassi. A volte si tratta di false cooperative che spariscono senza pagare Tfr e contributi. Rispetto al 2015, abbiamo 15mila specialisti in meno. Ci sono stati ripetuti scioperi dei medici nel 2023, con risultati scarsi. Gli infermieri in Italia, sono solo 6,2 per mille abitanti, (la media UE è 9,1), con profonde disparità fra Nord e Sud.
I medici del privato lavorano la metà e guadagnano fino a quattro volte rispetto al pubblico. Un medico pubblico fa lo straordinario a 60 euro l’ora, un medico a gettone guadagna invece fra 140 e 180 euro (prezzi fissati dalle loro cooperative). Dunque nel pubblico si assume poco personale per risparmiare, ma poi le Asl devono ricorrere ai medici a gettone spendendo molto di più.
L’Italia spende il 6,7% del PIL per la sanità, ma la Spagna il 7,8, Francia 10,3, Germania 10,9. Oggi mancano 30mila medici e 320mila infermieri. L’Italia spende per la sanità ca. 4.300 $ per abitante, ma la Francia ne spende 6.500, e la Germania più di 8mila.
I pronto soccorso sono intasati perché la famiglie ricorrono ad essi per risparmiare e perché manca la medicina territoriale. Ma il personale è ancora più scarso che negli altri settori e il lavoro è più pesante e difficile. Le specializzazioni per l’emergenza, anestesia e rianimazione sono poco valutate e sottoposte ad alti ritmi di lavoro e al rischio di aggressioni da parte dei pazienti.
Negli ultimi 10 anni, sono stati chiusi 61 dipartimenti di emergenza, 35 centri di rianimazione, 113 pronto soccorso e 11 ospedali. Le attese in barella spesso durano diversi giorni. Il 31,6% del personale denuncia di aver subito aggressioni dagli utenti.

(La seconda parte uscirà il 13 maggio)

Quei 63.285 migranti morti durante il viaggio

29 Apr


di Piero RizzoCommenti esteri n° 78, 29-4-2024

L’articolo selezionato per questo mese è stato pubblicato dall’Observer (edizione domenicale del Guardian) il 24 marzo u.s. con il titolo ”Volevo umanizzare coloro che si perdono nelle statistiche: quattro registi nei loro nuovi film che raccontano i viaggi dei rifugiati”. Sono 4 interviste a quattro registi che raccontano aspetti della vita dei migranti che di rado si leggono sui giornali.
Riportiamo per motivi di spazio solo ampi stralci dell’intervista a Matteo Garrone, regista di “Io Capitano”, fatta da Sean O’Hagan e di quella a Milad Alami, regista di “Opponent”, fatta da WI (probabilmente Wendy Ide ,critico cinematografico dell’Observer).

Io Capitano, diretto da Matteo Garrone
Nel luglio 2014, Fofana Amaro, un quindicenne dell’Africa occidentale, è stato costretto dai trafficanti di esseri umani a guidare una barca di migranti dalla Libia alla Sicilia con 250 persone a bordo. Dopo aver effettuato con successo la traversata, Amaro ha salutato con orgoglio la guardia costiera italiana con le parole “Io Capitano” (“Io sono il capitano”), solo per essere arrestato e incarcerato con l’accusa di traffico di esseri umani.
“E’ un eroe che ha salvato la vita a così tante persone, ma è diventato subito un’altra vittima del sistema che demonizza i migranti”. “Io Capitano” è tratto direttamente dalla testimonianza di Amaro e di altri due migranti che hanno compiuto il viaggio dall’Africa all’Europa.
Per la maggior parte, il film segue le tracce dei protagonisti senegalesi, Seydou e Moussa, nel tratto del viaggio terrestre (meno documentato): l’arduo percorso attraverso il Sahara, dove il territorio inospitale è pattugliato da milizie private che sfruttano, imprigionano e, in alcuni casi, torturano coloro che catturano.
“Volevo dare forma visiva alla parte del viaggio che non vediamo nei media”, racconta Garrone. “E volevo anche umanizzare coloro che si perdono nelle statistiche, comprese le 50.000 persone morte durante il viaggio negli ultimi 10 anni”.

“Opponent”, diretto da Milad Alami
“C’è un luogo che è una specie di limbo tra una nuova vita e la vecchia.” Il regista iraniano Milad Alami parla degli aspetti dell’esperienza del rifugiato che esplora nel secondo lungometraggio, “Opponent”. “Volevo mostrare quel mondo dall’interno, la sua bellezza per una nuova vita, ma anche le difficoltà di adattarsi a quella vita e al bagaglio che porti con te.”
Il bagaglio portato da Iman (interpretato dall’attore iraniano-americano Payman Maadi), è anche il motivo per cui lui, sua moglie e la sua famiglia devono lasciare l’Iran. Wrestler professionista, Iman ha a lungo negato la sua attrazione per altri uomini, cosa che in Iran è illegale e punibile con la morte. Quando la sua relazione con un collega wrestler diventa pubblica, Iman deve fuggire immediatamente dal paese.
Ma mentre una nuova vita in Svezia sembrerebbe offrirgli la possibilità di essere se stesso per la prima volta, Iman fatica a conciliare la sua identità di gay con quella di marito e padre amorevole. Sente di dover scegliere tra diverse parti di sé piuttosto che accettarle tutte”.
Sebbene Alami avesse solo sei anni quando arrivò in Svezia con la sua famiglia di emigrati politici, nello scrivere la sceneggiatura egli attinge ai suoi ricordi di emigrato iraniano. “ I miei ricordi sono belli. Ero in un centro per rifugiati. Tutto era nuovo. Ma percepivo anche ansia e stress nei miei genitori. E in sostanza la domanda era: possiamo restare qui o no?”

Brevi considerazioni
Leggendo l’intervista a Garrone è inevitabile che venga in mente le celebre frase:“Una singola morte è una tragedia, un milione di morti sono una statistica.” “Volevo umanizzare coloro che si perdono nelle statistiche, comprese le 50.000 persone morte durante il viaggio negli ultimi 10 anni”, dice Garrone. In realtà i morti o dispersi nell’ultimo decennio sono stati 63.285, come si legge in un rapporto dell’IOM, di cui più di 27.000 nel Mediterraneo. Un numero impressionante. E dopo le stragi di Cutro (94 morti) e dell’Adriana (600) di cui abbiamo parlato nell’articolo precedente, è più che fondato (a nostro avviso) il sospetto che in molti casi si è voluto lasciarli morire.
Milad Alami nel suo film punta i riflettori su un’altra categoria di problemi che raramente approdano sulle pagine dei giornali: i problemi psicologici, che provocando ansia e stress, affliggono la vita di un certo numero di migranti, tra i quali anche i suoi genitori. Quest’ultimi sono stati fortunati ad essere stati accolti in un paese, la Svezia, in cui una persona può soddisfare tutti i suoi bisogni materiali e dove si può dire e fare ciò che si vuole. E tuttavia a volte il vissuto che ci si porta dietro rende difficile adattarsi a una nuova vita, anche se in teoria enormemente migliore di quella che ci si è lasciata alle spalle. Da qui il dilemma se restare o andar via.


https://www.theguardian.com/film/2024/mar/24/refugee-films-ali-smith-io-capitano-green-border-drift-opponent-migration-crisisLifestyle

Conversazioni sul Mezzogiorno Ep. 6

24 Apr

Oggi nuovo episodio https://open.spotify.com/episode/6Sa6baJTXh1cD0mk1BUIb1?si=gQsl8tleTFyT6DQf_jmbwQ

Buon 25 aprile a tutte/i!

Gaza: Il fallimento dell’Europa come guida morale

22 Apr

di Muddassar Ahmed (Social Europe 1° marzo 2024) – IL DOCUMENTO, 22-4-2024

La demolizione di Gaza da parte di Israele perseguiterà la coscienza dell’Europa per generazioni e mette in forse le pretese del mondo democratico.

Nonostante le crescenti pressioni del pubblico e dei politici, Israele ha stabilito che la scadenza per il suo attacco a Rafah sarà alla fine del mese sacro del Ramadan. Ma invadere la città che ospita attualmente più di un milione di persone non sarebbe solo un’apocalisse per i palestinesi, ma perseguiterebbe la coscienza europea per le future generazioni.

Israele, massacrando i palestinesi di Gaza, sta rompendole regole di guerra consolidate, e questo svela la sua storia e rinnova i ricordi di persecuzione dei palestinesi.

Distruzione senza freni
Negli ultimi mesi oltre 650mila case sono state distrutte e circa 1 milione e 800mila persone obbligate a spostarsi. l’Unesco ha dovuto diffondere immagini satellitari della distruzioni di siti storici ed ha espresso profonda preoccupazione. Ma una cosa è chiara: la cultura e la vita dei palestinesi non saranno più le stesse. Il 19 ottobre scorso è stata distrutta la più antica chiesa di Gaza, S. Porfirio, che era un vero mosaico della sua storia antica. Aveva pietre e targhe con impresse iscrizioni in greco antico (compresa la parola Gaza). Anche la Grande Moschea Omari, che era prima un tempio pagano, è stata distrutta, con il solo minareto che emerge come un dito mozzato.

Quando Alessandro Magno assediò Gaza nel 332 a.C. stava tentando di conquistare una città culturalmente ricca che collegava l’Assiria con l’Egitto lungo la Via della Seta. Oggi le sue biblioteche sono state bruciate e oltre 200 siti religiosi e culturali unici sono in macerie a causa della riduzione in polvere di Gaza da parte di Israele.

Quando lo Stato Islamico mosse la sua guerra alla storia, all’identità e all’eredità materiale, il mondo espresso unanime sdegno. Oggi l’Europa e gli USA sono stranamente in silenzio su Israele, ignorano l’infinito incubo dei palestinesi e lo spianamento della loro storia, che avrebbero dovuto da tempo preservare.

Ispirandosi ai Monument Men [i cacciatori di opere d’arte] della II guerra mondiale], alcune organizzazioni come il Comitato del Blue Shield [scudo blu] sono stati instancabili nel cercare di preservare l’eredità culturale durante i recenti conflitti in Iraq, Siria, Mali. Ma Israele non mostra alcuna intenzione di fare lo stesso. I palestinesi sono messi di fronte a scene di devastazione che si trovano solo sui libri di storia.

Appello urgente
Non è solo Gaza che sta perdendo la sua anima. La coscienza europea sarà segnata per sempre se non si prendono misure per portare i governi più potenti a chiedere un cessate-il-fuoco. Già si vedono le crepe nella leadership morale e politica dell’Europa. Le proteste per avere un cessate-il-fuoco a Gaza crescono di giorno in giorno, e si allarga il divario tra i popoli e i loro rappresentanti, persino tra i rappresentanti ufficiali. Tutto ciò, nell’anno delle tante elezioni, mette in pericolo la nostra democrazia.

In Gran Bretagna il principe William ha fatto un passo senza precedenti, è intervento pubblicamente per dire che “troppe persone sono state uccise” e invocare un impegno perché questo cessi “il più presto possibile”. Israele lo ha bollato come “ingenuo”, ma questa è la leadership che stiamo perdendo come governi europei e americani.

Gli stati del Golfo, visti da tempo come l’unica via possibile per normalizzare la regione insieme con Israele, hanno le chiavi per la pace dell’area, ma adesso sono costretti a osservare il doppio standard del sistema internazionale. Mentre l’UNRWA [agenzia ONU per i soccorsi) è collassata, l’Arabia Saudita … ha dato più di 5mila tonnellate di aiuti e guida la diplomazia dietro le quinte.

A Riyadh, i ministri dell’Autorità Palestinese, Emirati, Qatar, Arabia Saudita, Giordania ed Egitto si sono incontrati per discutere su un riconoscimento irreversibile dello stato palestinese. Ad alcuni incontri hanno partecipato anche rappresentanti di USA, UE, e Gran Bretagna.
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[Fra gli esponenti delle società civile che sostengono con motivi morali il cessate-il fuoco, l’autore cita il papa, la marcia delle 150 miglia verso Washington e la maggioranza dei gruppi religiosi, inclusi quelli ebrei e gli evangelici. Cita inoltre la Lega Mondiale dei Musulmani e il suo capo Al-Issa che ha chiesto pubblicamente il rilascio degli ostaggi tenuti da Hamas.

Queste autorità morali hanno capito ciò che non è chiaro ai leader politici]:
in questo conflitto che sembra a somma zero siamo tutti destinati a perdere: distruzione di vite umane, opere d’arte e siti storici, aumento dell’odio e disumanizzazione del mondo. I diritti umani e i valori democratici rischiano di essere seppelliti insieme con tanti palestinesi di Gaza.

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Il capitale umano e le promesse mancate dell’ordine liberale – II parte

16 Apr

di Giorgio Barberis (Univ. del Piemonte Orientale)
(per la I parte v. articolo del 8-4-2024)

Ma il problema è strutturale, dovuto non tanto e non solo ai singoli individui che ricoprono ruoli di responsabilità, quanto piuttosto all’impossibilità di gestire e controllare quei flussi (di merci e capitali, di persone e soprattutto di informazioni e di dati) che connotano il travolgente processo di globalizzazione sviluppatosi dagli anni Ottanta del secolo scorso ad oggi, il quale ha eroso via via sovranità e prerogative agli Stati nazionali. Le tradizionali forme dell’agire politico, a cominciare dai partiti, attraversano una crisi profondissima, e più in generale si assiste all’obsolescenza delle categorie politiche fondamentali del Novecento. Nell’epoca delle “larghe intese” e dei governi “tecnici”, infatti, si va riducendo lo spazio per la dialettica tra destra e sinistra, ossia tra opzioni realmente “alternative” della gestione della cosa pubblica. Il «pilota automatico» alla guida della politica economica italiana (ma il ragionamento potrebbe valere per ogni altro Paese), evocato da Mario Draghi da Francoforte, nel suo ruolo di presidente della Bce, per rassicurare i mercati finanziari all’indomani dell’esito incerto delle elezioni politiche della primavera 2013, dà il senso del momento che stiamo vivendo. Le “cose da fare” sono chiare, valgono per tutti, vincolano ogni governo possibile, escludono autonomia decisionale e sottraggono, di fatto, il potere al popolo. Perché andare a votare se è già tutto deciso? E che cosa resta alla politica in un simile scenario? La parte simbolica, forse. Il desiderio di affermazione e le ambizioni dei singoli, sicuramente. Il “gioco della parti”, in una dinamica molto simile a uno “spettacolo”, a una rappresentazione, che va progressivamente a sostituirsi alla rappresentanza. Ma nessuna capacità di incidere davvero sulla struttura economica e sociale. Si spiega anche così (oltre che per le conseguenze della crisi economica e l’impoverimento dei ceti medi) la reazione populista e sovranista, che ha conosciuto in anni recenti una diffusione e una crescita impetuose in moltissimi luoghi, anche assai diversi l’uno dall’altro. Certo, una risposta non praticabile, giacché pare effettivamente inverosimile ipotizzare un semplice ritorno al mondo di “prima”, agli Stati sovrani liberi di gestire in autonomia la propria politica e soprattutto la propria economia (anche schiacciando, all’occorrenza, i popoli più deboli). Troppo profonda l’interdipendenza globale e troppo avanzata la rivoluzione tecnologica. Però non può funzionare neppure quel modello unidimensionale, che omologa e conforma il pensiero, i costumi e i consumi, nato dal progetto globalista e neoliberista di politici cinici e ambiziosi e di rampanti e disinvolti economisti.
Occorrerebbe, invece, che la politica ritrovasse il proprio ruolo, rispondendo con mezzi adeguati e con un’estensione congrua – recuperando quella vocazione all’internazionalismo che è al cuore del progetto rivoluzionario del pensiero socialista – allo strapotere del capitalismo finanziario. E occorrerebbe soprattutto dedicare tempo, risorse e intelligenza a costruire un altro mondo possibile, a individuare e tracciare alternative credibili, concrete, efficaci, per dare respiro e forma all’idea di una società armonica, giusta, solidale. Il pensiero libertario, a partire da Bakunin, ci insegna che «bisogna sempre osare la speranza e sperare l’impossibile». L’esatto contrario di quel che sosteneva Margaret Thatcher, la “Lady di ferro”, la quale soleva ribadire che non ci sono alternative possibili. Di nuovo il “pensiero unico”. There is no alternative era uno dei suoi slogan più celebri, accanto all’idea, invero piuttosto rozza, secondo cui “la società non esiste; esistono solo gli individui”. E invece no! La dimensione collettiva dà respiro e senso. E c’è sempre un’altra possibilità, una via diversa, un’alternativa plausibile. La Storia non finisce con il capitalismo, un sistema sempre più iniquo e insostenibile, imbevuto di illusioni, sfruttamento e avidità.

Bibliografia essenziale

  • G. Barberis, History is back! A trent’anni dalla fine della storia, «Quaderno di storia contemporanea», 66, 2019, pp.202-212.
  • G. Barberis – M. Revelli, Dopo Cosmopolis. Quel che resta della politica, in M. Cappitti – M. Pezzella – P.P. Poggio (a cura di), L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, vol. V, Alle frontiere del capitale, Jaca Book, Milano 2018, pp.207-218.
  • Papa Francesco, Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2020.
  • F. Fukuyama, The End of History and the Last Man, The Free Press, New York 1992, tr. it., La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1996.
  • S. Lucarelli, Cala il sipario sull’ordine liberale? Crisi di un sistema che ha cambiato il mondo, Vita e Pensiero, Milano 2020.
    A. Schiavone, Progresso, il Mulino, Bologna 2020.
11 Apr

“Il capitale umano e le promesse mancate dell’ordine liberale” – I parte

8 Apr


di Giorgio Barberis (Univ. del Piemonte Orientale)
Sintesi della relazione tenuta a “I Venerdì di Diogene” di Humanfirst, Univ. del Salento, aprile 2023

L’ordine liberale, ossia il sistema politico-economico che si è affermato su larga parte del globo a conclusione della Seconda guerra mondiale, con i suoi pilastri ben definiti – la democrazia e i diritti individuali; il multipolarismo connotato da istituzioni internazionali formalmente riconosciute; un sistema di sicurezza collettiva assicurata dalla Nato, dalla coesione transatlantica e dall’egemonia statunitense; un’economia internazionale aperta, nata dagli accordi di Bretton Woods – e con le sue promesse di crescita e benessere per tutti, ha avuto indubbi successi – riassunti nelle formule felici del “Welfare state” e dei “Trenta gloriosi”, ossia i tre decenni di sviluppo economico dell’Occidente – ma anche evidenti contraddizioni, criticità, limiti. A sfidarlo, da un lato, il comunismo internazionale e l’economia pianificata sovietica, e – dall’altro – il pensiero critico, non rassegnato a ridurre l’individuo all’unica dimensione di consumatore. Con la fine della guerra fredda, con la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’URSS, con la globalizzazione e il successo planetario del (neo)liberismo, quell’ordine sembrava avviato a un trionfo ‘definitivo’, e si parlò addirittura, con una certa insistenza, di “fine della storia”, immaginando un’umanità giunta al suo massimo livello possibile grazie a una forma di governo in grado di assicurare la ‘sovranità’ a ognuno (la democrazia) e un sistema economico (il capitalismo) capace di garantire a tutti la possibilità di soddisfare ogni desiderio. Nessuno spazio per alternative concrete di fronte a un pensiero unico che prometteva felicità e pretendeva fedeltà. Ma era, se non una mistificazione, certamente un abbaglio, un’illusione, destinata a crollare nel giro di pochissimo tempo. L’ordine liberale after victory, infatti, ha palesato in tempi rapidi tutta la propria fragilità, non riuscendo in alcun modo a mantenere le sue promesse di pace, di sicurezza, di benessere e di prosperità universale, ed è precipitato in una profonda crisi, trascinando con sé anche la politica (che in realtà aveva da tempo abdicato al proprio ruolo di guida, cedendo il primato all’economia di mercato) e tutti gli ambiti fondamentali della vita sociale, alle prese con una “transizione” infinita tra un non più e un non ancora, in sospensione tra due mondi diversissimi: quello di ieri, ormai in pezzi, e quello di domani, pieno di incognite e di zone d’ombra.
Per capire ciò che sta accadendo oggi credo che sia opportuno risalire molto indietro, e più precisamente agli anni Settanta del Novecento. Si inizia allora a comprendere (pensiamo alla crisi petrolifera) che non può esserci una crescita infinita in un mondo finito, e che il modello produttivo richiede consistenti modifiche. A segnare quel decennio, e invero tutti quelli a venire, è però un vorticoso rinnovamento scientifico e tecnologico, la terza rivoluzione industriale, determinata dall’informatica, dall’elettronica, dai processi di automazione, dal silicio, e pure dagli aerei e dalle navi a grandi capacità, da uno spazio che si riduce e da un tempo che accelera, ponendo le premesse per la massiccia intensificazione di quei flussi che danno vita a una globalizzazione senza più argini e “confini”. Un cambiamento epocale che, come detto, ha interessato ogni ambito, a partire dal sistema economico e dal mondo del lavoro. Il passaggio dal fordismo al post-fordismo ha rappresentato una vera e propria rivoluzione copernicana, rendendo obsolete procedure e dinamiche che sembravano eterne (basti pensare alla catena di montaggio e a tutta l’organizzazione taylorista del processo produttivo), e che invece vengono travolte dal just in time, dalla lean production, dall’apoteosi del marketing, e dai processi di finanziarizzazione. Il lavoro si frantuma, la “flessibilità” diventa la parola chiave, ma porta con sé, come due facce della stessa medaglia, la precarietà, l’instabilità, l’incertezza, che sconfinano presto dall’ambito professionale a quello tout court esistenziale. Un cambio di paradigma che premia pochi fortunati ed espone i più fragili a conseguenze drammatiche, mettendo in crisi anche la retorica – per certi aspetti positiva – del “capitale umano” e delle sue potenzialità. Dal miraggio dell’emancipazione individuale alle nuove schiavitù il passo, purtroppo, è molto breve.
E la politica? È forse proprio questo il cuore del cambiamento che segna il nostro tempo. La sfera politica non è più il luogo della decisione sovrana, ed è vieppiù marginale e subalterna all’ambito economico. A determinare le sorti collettive sono le scelte di agenzie transnazionali sottratte al controllo democratico, di tecnocrazie non elettive e delle grandi corporations. La sensazione diffusa è quella di una mediocrità complessiva della leadership politica ad ogni livello, dal globale al locale.

La cattiva occupazione nel Sud e le sue conseguenze

2 Apr


di Cosimo Perrotta – 2-4-2024

Qualche anno fa Mario Draghi fece una distinzione, elementare ma fondamentale, fra spesa pubblica cattiva (quella che crea rendite e spreco) e spesa pubblica buona (gli investimenti, che creano occupazione produttiva). Una distinzione simile si può applicare all’occupazione (come ho fatto nel seminario di Humanfirst del 14 marzo scorso).
C’è infatti un’occupazione cattiva, basata sul lavoro precario, mal pagato e non protetto, e un’occupazione buona, che assicura contratti non a termine, salari decenti e garanzie sul lavoro. L’occupazione cattiva domina nei lavoretti (“gig economy”), nelle consegne a domicilio, i call center, i lavori stagionali dell’agricoltura e del turismo, la ristorazione, l’edilizia, il commercio al minuto. Ma essa è ormai largamente presente anche nelle fabbriche, soprattutto attraverso il meccanismo degli appalti a cascata, delle false cooperative e delle false partite IVA, tutti strumenti fraudolenti (anche se spesso legalizzati) per sfruttare maggiormente il lavoro dipendente.
Anche per l’occupazione la distinzione è elementare ma fondamentale. Innanzitutto per smentire le statistiche ingannevoli diffuse spesso dalle fonti ufficiali. Queste statistiche registrano come occupate anche le persone che hanno lavorato per poche ore in un mese. Dati di questo genere fanno pensare a chissà quale sviluppo economico sia in atto, quando in realtà l’economia italiana è ferma da 25 anni. Ma quella distinzione è importante soprattutto perché i due tipi di occupazione danno risultati economici e sociali opposti.
La buona occupazione fornisce una domanda robusta e una produzione in crescita, assicura benessere, aumento della produttività, innovazione e migliore qualità. Insomma, permette lo sviluppo. Questo complesso di fattori positivi, però, in Italia si va assottigliando sempre più, e nel Sud si riduce molto più rapidamente che nel Centro-Nord. La cattiva occupazione invece crea una domanda di beni finali insufficiente, si basa su lavoro dequalificato, non motiva i lavoratori, scoraggia l’innovazione e quindi deprime gli investimenti sia privati che pubblici.
L’attuale governo ripete all’infinito che non bisogna disturbare “chi produce ricchezza”, cioè le imprese private; come se queste fossero l’unica e certa fonte di ricchezza. Per questo motivo si lasciano correre, con mille marchingegni, l’evasione fiscale, gli appalti incontrollati, il caporalato, l’iper-sfruttamento dei lavoratori. Ma una tale politica impedisce proprio quella produzione di ricchezza che si vuole incoraggiare; perché fa calare allo stesso tempo la produttività e la domanda di consumi.
Per di più, il governo finanzia le imprese attraverso una parte crescente delle entrate pubbliche. Il risultato è che l’occupazione pubblica deperisce; i suoi servizi (trasporti pubblici, asili-nido, scuole, sanità, affitti), che sono la necessaria integrazione dei redditi più bassi, diventano inefficienti; e ciò deprime ulteriormente la domanda di beni finali. Perciò le imprese, non avendo prospettive sufficienti di vendita, riducono ancor più gli investimenti, e impiegano i lauti finanziamenti governativi in attività improduttive, come la speculazione finanziaria o immobiliare, quando non li imboscano nei paradisi fiscali. L’avvitamento verso il basso dell’economia è particolarmente forte al Sud, come sempre accade per le aree meno dinamiche e più povere. Se queste politiche non cambiano rapidamente, la crisi economica e quella culturale di gran parte del Sud diventeranno irreparabili. Le proiezioni dei demografi prevedono che nel 2080 il Nord avrà perso ca. il 10% della popolazione del 2022, il Centro poco più del 20%, ma il Sud perderà ben il 40%, creando uno spopolamento economicamente devastante.
Infatti, la disoccupazione ha creato un esodo massiccio verso il Nord, alla ricerca del lavoro. A ciò si aggiunge una carenza di servizi pubblici e di sostegno così grave che le famiglie rimandano sempre più la decisione di fare figli. Infine, i lavoratori poveri dell’economia precaria spesso non sono autosufficienti e non possono permettersi di fare figli. Ma non basta.
La povertà crescente del Sud non impedisce il diffondersi dei modelli culturali tipici delle aree più avanzate. Nel Sud è scomparsa la natalità non programmata della società contadina. Come nelle aree sviluppate, si è imposta la transizione demografica: le famiglie, una volta raggiunto un certo benessere, lo difendono facendo meno figli. La denatalità nel Sud, quindi, è in parte frutto del benessere, come per la Svezia o la Germania, ma per un’altra parte è frutto della carenza di garanzie lavorative e di servizi pubblici. È esattamente questa sovrapposizione che porta il Sud Italia a soffrire di un calo di natalità molto maggiore di quello dell’Europa ricca.
Questa doppia radice della denatalità del Sud ci porterà al collasso. A meno che non ci decidiamo ad accogliere gli immigrati e a favorire il loro inserimento produttivo.

Conversazione sul Mezzogiorno n. 5

28 Mar

Salvare i naufraghi sarebbe un “pull factor”?

25 Mar


di Piero RizzoCommenti esteri n° 77 – 25-3-2024
Il 26 gennaio è stato l’anniversario del naufragio di Cutro, 94 morti. Tra qualche mese, in giugno, cadrà l’anniversario del naufragio dell’Adriana (barca carica di migranti) al largo delle coste greche, 600 morti). Due naufragi fotocopia dovuti al ritardo degli interventi delle navi di soccorso. Una scelta deliberata, in ossequio al principio del “pull factor” (fattore di attrazione) sempre presente ma sempre smentito dalle ONG, secondo cui tempestivi salvataggi da parte dei paesi costieri europei incoraggerebbero le partenze. L’articolo selezionato per questo mese, scritto dalla ombudsman (difensore civico) europea Emily O’Reilly per il Guardian del 28 febbraio u.s., si sofferma sul secondo caso, quello del naufragio in Grecia.
Riportiamo ampi brani liberamente tradotti e in calce brevi considerazioni.
Quando 600 persone muoiono in una notte d’estate nel Mediterraneo, il loro viaggio è noto e testimoniato per molte ore e in vari momenti da un’agenzia dell’UE, dalle autorità marittime di due paesi dell’UE, da attivisti della società civile e da numerose navi e imbarcazioni private – un viaggio e un annegamento effettivamente in bella vista – c’è una domanda ovvia: “Come è successo?”. Il mio ufficio ha indagato sul ruolo dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, Frontex, negli eventi riguardanti il ribaltamento nel giugno 2023 dell’Adriana, un peschereccio sovraffollato in rotta verso l’Italia dalla Libia, con circa 750 persone a bordo.

In un discorso del 2020, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, affermò: “Salvare vite umane in mare non è un optional”. Eppure le scelte politiche dell’UE e degli Stati membri hanno reso difficile realizzare questo impegno. Le affermazioni secondo cui la possibilità di essere salvati agisce come un fattore di “attrazione” per i migranti e coloro che li sfruttano – i trafficanti di esseri umani – hanno influenzato tali scelte.
Frontex, l’agenzia più grande e dotata di maggiori risorse dell’UE, è chiamata agenzia di frontiera e di “guardia costiera”, ma il suo mandato limita fortemente il suo ruolo di “ricerca e salvataggio” alla sola ricerca e sorveglianza. Il potere di agire per salvare vite umane nel contesto specifico di un salvataggio in mare spetta principalmente agli Stati membri dell’UE.

Frontex non opera in un vuoto di ignoranza rispetto alle azioni passate di alcuni di questi Stati. Secondo quanto riferito, l’agenzia ha assistito o è stata a conoscenza di violazioni dei diritti fondamentali nel contesto dei tentativi di migranti di raggiungere l’Europa (e a volte si sospetta sia stata complice ndr).
La tragedia dell’Adriana è avvenuta poco dopo le dimissioni dell’ex direttore di Frontex in seguito a un rapporto dell’UE che denunciava i respingimenti illegali di migranti da parte della guardia costiera greca. Meno di un anno prima la Corte europea dei diritti dell’uomo si era pronunciata contro la Grecia per un caso simile. Eppure Frontex ad oggi ha scelto di non esercitare il suo diritto legale di ritirarsi dalla Grecia. Questo è un aspetto che ora gli chiediamo di considerare e di rendere pubbliche tali considerazioni.
Frontex aveva scelto di non esercitare un potere autonomo – emettere una ritrasmissione di soccorso – sulla base del fatto che l’Adriana non era in “pericolo immediato” quando inizialmente avvistata. L’agenzia ha agito in conformità con le norme e le procedure legali, ma un esame di tali norme mostra che non si può dare piena attuazione all’impegno dell’UE di salvare le vite dei migranti.

Brevi considerazioni
In questo caso, come in altri, Frontex esclude ogni sua responsabilità perché le regole vigenti le impediscono di operare salvataggi senza il permesso del governo del paese in cui si trova l’imbarcazione. Quel che lascia perplessi, nel caso greco come in quello di Cutro, è la valutazione di Frontex che non si era in presenza di un pericolo immediato, anche se il “sovraffollamento, l’apparente mancanza di giubbotti di salvataggio, bambini a bordo e possibili vittime” hanno dimostrato il contrario. E’ vero che Frontex ha informato le autorità nazionali della presenza delle due imbarcazioni, ma visto che dopo tante ore nessuno interveniva e non essendoci dubbi che salvare vite umane è in assoluto la priorità, era il caso di continuare ad agire “in conformità con le norme e le procedure legali”?
La commissaria europea agli affari interni Ylva Johanson ha dichiarato in parlamento che i salvataggi devono essere il monumento della UE alle vittime dell’Adriana che giacciono nelle acque silenziose senza lapidi, senza alcun segno, senza qualcosa che ricordi i nomi. Bene. Ma ci permettiamo di osservare che questo monumento sarà sempre in pericolo se non è presidiato da custodi responsabili, e finora non è stato così. Le norme, anche se non proprio raffinate, ci sono già, ma spesso sono rimaste lettera morta (a nostro avviso).
https://www.theguardian.com/commentisfree/2024/feb/28/600-people-drowning-eu-deters-migrants-adriana-tragedy