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“Il capitale umano e le promesse mancate dell’ordine liberale” – I parte

8 Apr


di Giorgio Barberis (Univ. del Piemonte Orientale)
Sintesi della relazione tenuta a “I Venerdì di Diogene” di Humanfirst, Univ. del Salento, aprile 2023

L’ordine liberale, ossia il sistema politico-economico che si è affermato su larga parte del globo a conclusione della Seconda guerra mondiale, con i suoi pilastri ben definiti – la democrazia e i diritti individuali; il multipolarismo connotato da istituzioni internazionali formalmente riconosciute; un sistema di sicurezza collettiva assicurata dalla Nato, dalla coesione transatlantica e dall’egemonia statunitense; un’economia internazionale aperta, nata dagli accordi di Bretton Woods – e con le sue promesse di crescita e benessere per tutti, ha avuto indubbi successi – riassunti nelle formule felici del “Welfare state” e dei “Trenta gloriosi”, ossia i tre decenni di sviluppo economico dell’Occidente – ma anche evidenti contraddizioni, criticità, limiti. A sfidarlo, da un lato, il comunismo internazionale e l’economia pianificata sovietica, e – dall’altro – il pensiero critico, non rassegnato a ridurre l’individuo all’unica dimensione di consumatore. Con la fine della guerra fredda, con la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’URSS, con la globalizzazione e il successo planetario del (neo)liberismo, quell’ordine sembrava avviato a un trionfo ‘definitivo’, e si parlò addirittura, con una certa insistenza, di “fine della storia”, immaginando un’umanità giunta al suo massimo livello possibile grazie a una forma di governo in grado di assicurare la ‘sovranità’ a ognuno (la democrazia) e un sistema economico (il capitalismo) capace di garantire a tutti la possibilità di soddisfare ogni desiderio. Nessuno spazio per alternative concrete di fronte a un pensiero unico che prometteva felicità e pretendeva fedeltà. Ma era, se non una mistificazione, certamente un abbaglio, un’illusione, destinata a crollare nel giro di pochissimo tempo. L’ordine liberale after victory, infatti, ha palesato in tempi rapidi tutta la propria fragilità, non riuscendo in alcun modo a mantenere le sue promesse di pace, di sicurezza, di benessere e di prosperità universale, ed è precipitato in una profonda crisi, trascinando con sé anche la politica (che in realtà aveva da tempo abdicato al proprio ruolo di guida, cedendo il primato all’economia di mercato) e tutti gli ambiti fondamentali della vita sociale, alle prese con una “transizione” infinita tra un non più e un non ancora, in sospensione tra due mondi diversissimi: quello di ieri, ormai in pezzi, e quello di domani, pieno di incognite e di zone d’ombra.
Per capire ciò che sta accadendo oggi credo che sia opportuno risalire molto indietro, e più precisamente agli anni Settanta del Novecento. Si inizia allora a comprendere (pensiamo alla crisi petrolifera) che non può esserci una crescita infinita in un mondo finito, e che il modello produttivo richiede consistenti modifiche. A segnare quel decennio, e invero tutti quelli a venire, è però un vorticoso rinnovamento scientifico e tecnologico, la terza rivoluzione industriale, determinata dall’informatica, dall’elettronica, dai processi di automazione, dal silicio, e pure dagli aerei e dalle navi a grandi capacità, da uno spazio che si riduce e da un tempo che accelera, ponendo le premesse per la massiccia intensificazione di quei flussi che danno vita a una globalizzazione senza più argini e “confini”. Un cambiamento epocale che, come detto, ha interessato ogni ambito, a partire dal sistema economico e dal mondo del lavoro. Il passaggio dal fordismo al post-fordismo ha rappresentato una vera e propria rivoluzione copernicana, rendendo obsolete procedure e dinamiche che sembravano eterne (basti pensare alla catena di montaggio e a tutta l’organizzazione taylorista del processo produttivo), e che invece vengono travolte dal just in time, dalla lean production, dall’apoteosi del marketing, e dai processi di finanziarizzazione. Il lavoro si frantuma, la “flessibilità” diventa la parola chiave, ma porta con sé, come due facce della stessa medaglia, la precarietà, l’instabilità, l’incertezza, che sconfinano presto dall’ambito professionale a quello tout court esistenziale. Un cambio di paradigma che premia pochi fortunati ed espone i più fragili a conseguenze drammatiche, mettendo in crisi anche la retorica – per certi aspetti positiva – del “capitale umano” e delle sue potenzialità. Dal miraggio dell’emancipazione individuale alle nuove schiavitù il passo, purtroppo, è molto breve.
E la politica? È forse proprio questo il cuore del cambiamento che segna il nostro tempo. La sfera politica non è più il luogo della decisione sovrana, ed è vieppiù marginale e subalterna all’ambito economico. A determinare le sorti collettive sono le scelte di agenzie transnazionali sottratte al controllo democratico, di tecnocrazie non elettive e delle grandi corporations. La sensazione diffusa è quella di una mediocrità complessiva della leadership politica ad ogni livello, dal globale al locale.

La cattiva occupazione nel Sud e le sue conseguenze

2 Apr


di Cosimo Perrotta – 2-4-2024

Qualche anno fa Mario Draghi fece una distinzione, elementare ma fondamentale, fra spesa pubblica cattiva (quella che crea rendite e spreco) e spesa pubblica buona (gli investimenti, che creano occupazione produttiva). Una distinzione simile si può applicare all’occupazione (come ho fatto nel seminario di Humanfirst del 14 marzo scorso).
C’è infatti un’occupazione cattiva, basata sul lavoro precario, mal pagato e non protetto, e un’occupazione buona, che assicura contratti non a termine, salari decenti e garanzie sul lavoro. L’occupazione cattiva domina nei lavoretti (“gig economy”), nelle consegne a domicilio, i call center, i lavori stagionali dell’agricoltura e del turismo, la ristorazione, l’edilizia, il commercio al minuto. Ma essa è ormai largamente presente anche nelle fabbriche, soprattutto attraverso il meccanismo degli appalti a cascata, delle false cooperative e delle false partite IVA, tutti strumenti fraudolenti (anche se spesso legalizzati) per sfruttare maggiormente il lavoro dipendente.
Anche per l’occupazione la distinzione è elementare ma fondamentale. Innanzitutto per smentire le statistiche ingannevoli diffuse spesso dalle fonti ufficiali. Queste statistiche registrano come occupate anche le persone che hanno lavorato per poche ore in un mese. Dati di questo genere fanno pensare a chissà quale sviluppo economico sia in atto, quando in realtà l’economia italiana è ferma da 25 anni. Ma quella distinzione è importante soprattutto perché i due tipi di occupazione danno risultati economici e sociali opposti.
La buona occupazione fornisce una domanda robusta e una produzione in crescita, assicura benessere, aumento della produttività, innovazione e migliore qualità. Insomma, permette lo sviluppo. Questo complesso di fattori positivi, però, in Italia si va assottigliando sempre più, e nel Sud si riduce molto più rapidamente che nel Centro-Nord. La cattiva occupazione invece crea una domanda di beni finali insufficiente, si basa su lavoro dequalificato, non motiva i lavoratori, scoraggia l’innovazione e quindi deprime gli investimenti sia privati che pubblici.
L’attuale governo ripete all’infinito che non bisogna disturbare “chi produce ricchezza”, cioè le imprese private; come se queste fossero l’unica e certa fonte di ricchezza. Per questo motivo si lasciano correre, con mille marchingegni, l’evasione fiscale, gli appalti incontrollati, il caporalato, l’iper-sfruttamento dei lavoratori. Ma una tale politica impedisce proprio quella produzione di ricchezza che si vuole incoraggiare; perché fa calare allo stesso tempo la produttività e la domanda di consumi.
Per di più, il governo finanzia le imprese attraverso una parte crescente delle entrate pubbliche. Il risultato è che l’occupazione pubblica deperisce; i suoi servizi (trasporti pubblici, asili-nido, scuole, sanità, affitti), che sono la necessaria integrazione dei redditi più bassi, diventano inefficienti; e ciò deprime ulteriormente la domanda di beni finali. Perciò le imprese, non avendo prospettive sufficienti di vendita, riducono ancor più gli investimenti, e impiegano i lauti finanziamenti governativi in attività improduttive, come la speculazione finanziaria o immobiliare, quando non li imboscano nei paradisi fiscali. L’avvitamento verso il basso dell’economia è particolarmente forte al Sud, come sempre accade per le aree meno dinamiche e più povere. Se queste politiche non cambiano rapidamente, la crisi economica e quella culturale di gran parte del Sud diventeranno irreparabili. Le proiezioni dei demografi prevedono che nel 2080 il Nord avrà perso ca. il 10% della popolazione del 2022, il Centro poco più del 20%, ma il Sud perderà ben il 40%, creando uno spopolamento economicamente devastante.
Infatti, la disoccupazione ha creato un esodo massiccio verso il Nord, alla ricerca del lavoro. A ciò si aggiunge una carenza di servizi pubblici e di sostegno così grave che le famiglie rimandano sempre più la decisione di fare figli. Infine, i lavoratori poveri dell’economia precaria spesso non sono autosufficienti e non possono permettersi di fare figli. Ma non basta.
La povertà crescente del Sud non impedisce il diffondersi dei modelli culturali tipici delle aree più avanzate. Nel Sud è scomparsa la natalità non programmata della società contadina. Come nelle aree sviluppate, si è imposta la transizione demografica: le famiglie, una volta raggiunto un certo benessere, lo difendono facendo meno figli. La denatalità nel Sud, quindi, è in parte frutto del benessere, come per la Svezia o la Germania, ma per un’altra parte è frutto della carenza di garanzie lavorative e di servizi pubblici. È esattamente questa sovrapposizione che porta il Sud Italia a soffrire di un calo di natalità molto maggiore di quello dell’Europa ricca.
Questa doppia radice della denatalità del Sud ci porterà al collasso. A meno che non ci decidiamo ad accogliere gli immigrati e a favorire il loro inserimento produttivo.

Clara Mattei: l’austerità come mezzo di sfruttamento – I parte

12 Feb


di Cosimo Perrotta – 12-2-2024

Commento a Clara E. Mattei, Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo, Einaudi 2022, pp. 421, € 34 (versione italiana di The Capital Order, Univ. of Chicago, 2022).

Clara Mattei è una giovane studiosa italiana che insegna economia alla New School for Social Research di New York. Il suo libro racconta le turbolenze economico-politiche del primo dopoguerra in Inghilterra e in Italia, quando le élite dei due paesi passarono rapidamente da una tentennante condiscendenza verso le rivendicazioni operaie e le istanze di rinnovamento radicale del sistema economico ad una rigida chiusura, la quale confermò e aggravò la distanza fra classe dirigente e classi subalterne.
Dopo quella drammatica svolta, la restaurazione dei privilegi delle élite legati allo sfruttamento dei lavoratori e dei ceti medi poveri continuò e venne rafforzata fino ai giorni nostri. Ciò avvenne attraverso una politica – che oggi chiamiamo dell’austerità – che costrinse i ceti subalterni ad accettare bassi salari, alte tasse e magri consumi in nome delle necessità del bilancio statale. Le politiche economiche dirette a comprimere i redditi dei ceti popolari vennero e vengono presentate come leggi di natura che, se trascurate, portano al disastro.
Non sono soltanto i salari che devono essere tenuti bassi attraverso la disoccupazione, anche i servizi pubblici – essenziali per i ceti medio-bassi – devono essere sacrificati all’austerità. Lo stato – la cui spesa è considerata sempre improduttiva, contro ogni ragionevole teoria economica – deve limitare le spese “improduttive” per scuole, sanità, trasporti pubblici, case popolari, pensioni, sussidi di disoccupazione. I salari “troppo alti” – dicono i rappresentanti della politica di austerità – sono causa di disoccupazione, perché esauriscono quello che gli economisti classici chiamavano il “fondo salari”.
Mattei fa lo spoglio minuzioso di un’enorme quantità di documenti (carteggi, giornali e periodici, rapporti e dichiarazioni ufficiali, studi accademici) e un gran numero di fonti storiche e teoriche. La sua fitta e precisa documentazione dimostra che la politica dell’austerità nasce proprio in quel periodo e rispunta poi ogni volta che si profila il “pericolo” di un maggiore benessere e di un più rilevante ruolo sociale dei ceti popolari. Le frasi di sintesi del libro sono icastiche e le dimostrazioni rigorose. Le politiche di austerità vengono esaminate minuziosamente in tutti i loro risvolti, versioni, protagonisti e strumenti.
È interessante la storia parallela di due regimi diversi, uno che resta democratico e l’altro che abbraccia il fascismo, ma dove i risultati economici sono abbastanza analoghi. In entrambi i casi la sfera dell’economia viene “depoliticizzata” e le decisioni economiche vengono sottratte al controllo democratico in nome della competenza e della “neutralità” delle istituzioni indipendenti. Il capitalismo viene presentato come il sistema naturale, che realizza il vantaggio di tutti, purché “tutti” (in pratica, i lavoratori) abbiano un comportamento virtuoso e risparmiatore. La concorrenza dev’essere lasciata libera di funzionare, senza richieste di aumenti salariali o di regolazione del lavoro che turbino il funzionamento del mercato.
L’austerità non si fa valere soltanto con gli ostacoli posti alle rivendicazioni salariali e con le politiche di bilancio. Essa ricorre anche alle imposte indirette, alle regole fiscali che avvantaggiano i più ricchi, e ancor più all’inflazione. Proprio l’inflazione, da una parte, viene usata per ridurre il potere d’acquisto dei ceti popolari, dall’altra è una prospettiva minacciosa usata per rafforzare l’austerità e bloccare le richieste di miglioramenti salariali.
Mattei spiega bene le tecniche per imporre la tecnocrazia. Per pretendere di essere neutrale, e quindi rappresentativo di tutti, lo stato e le sue istituzioni devono essere apolitici. Tra i fattori garanti della apoliticità, oltre all’inflazione, al fisco e alla difesa della concorrenza senza regole, c’è anche l’indipendenza delle banche centrali. Queste ultime svolgono il loro lavoro in difesa dell’austerità, cioè dello status quo, affermando la propria indipendenza dalle rappresentanze democratiche. Un altro strumento delle politiche di austerità è dato dalle restrizioni creditizie, giustificate col principio che bisogna frenare la tendenza dei lavoratori allo spreco, come affermò Hawtrey (p. 175).
L’operazione di mostrare come asettici tutti i fattori di governo dell’economia ovviamente investì anche la teoria economica. Qui ci limitiamo a segnalare la citazione fatta da Mattei di Maffeo Pantaleoni il quale, parlando delle “classi che hanno redditi minori” scrive che la loro “deficienza è causa del minor reddito e non già il minor reddito causa della deficienza” (p. 215). Lo stesso Pantaleoni afferma che la gente non capisce qual è il suo vero interesse e quindi bisogna tenerla lontana dalle decisioni economiche per il suo stesso bene (p. 287). È esattamente il contrario di quanto scrive Adamo Smith.

(la II parte sarà pubblicata lunedì 19 febbraio)

Appello di Greenpeace contro i mega-allevamenti

5 Feb

pubblicato il 9 gennaio 2024 (5-2-2024)


Sembra incredibile ma i Paesi dell’Unione Europea hanno concesso ai più grandi allevamenti intensivi l’esenzione dalle norme UE sulle emissioni industriali.
Cosa significa? Le lobby dell’industria della carne sono riuscite a garantirsi il diritto di continuare a inquinare, sostenendo inoltre che queste modifiche avrebbero colpito negativamente i piccoli e medi allevamenti bovini europei.
 La realtà è un’altra ed è uno schiaffo alla verità che fa male agli animali, alle persone e all’ambiente. Le dichiarazioni delle lobby della carne sono false, per nulla supportate dai dati, dal momento che le proposte di modifica riguardavano appena l’1% di tutti gli allevamenti di bovini in Europa e solo quelli più grandi e più inquinanti.
 Gli allevamenti intensivi sono luoghi di sofferenza per miliardi di animali destinati al macello – circa 75 miliardi ogni anno in tutto il mondo -. È un sistema che divora risorse preziose del Pianeta (acqua e foreste in primis) e che contribuisce pesantemente al riscaldamento globale e all’inquinamento. Ma perché, allora, dovremmo continuare a sostenerlo? 
Hai mai pensato a quanto possa essere inefficiente oltre che distruttivo, questo sistema su scala mondiale? Ecco qualche dato: il modello di produzione intensiva degli allevamenti e della produzione di mangimi impiega circa l’80% della superficie agricola mondiale per ottenere solo il 18% del fabbisogno calorico. In più, a livello globale, generano il 60% delle emissioni di gas serra dell’intero settore agricolo, aggravando così la crisi climatica che sta trasformando in peggio la vita sulla Terra.
 Solo in Europa il settore zootecnico è responsabile di quasi il 90% delle emissioni di ammoniaca che l’agricoltura immette nell’atmosfera e dell’80% della dispersione di azoto. 
 Sono dati che ci preoccupano molto perché hanno conseguenze concrete sulle nostre vite. Ad esempio, gli allevamenti intensivi contribuiscono all’inquinamento di polveri sottili (i pericolosi PM 2,5) che causa migliaia di morti premature ogni anno solo in Italia! 
Il nostro obiettivo è spingere il Governo Italiano a bloccare la costruzione di nuovi allevamenti intensivi e di frenare le conseguenze disastrose di quelli esistenti.
 Bisogna combattere quelle istituzioni e aziende che ancora credono che questo modello economico, basato sullo sfruttamento incondizionato degli animali e dell’ambiente, produca ricchezza.
 La verità è che dietro i loro margini di profitto si nascondono costi ambientali e sociali enormi, pagati da tutti noi e che danneggiano economicamente tutte quelle piccole e medie aziende agricole che avrebbero tratto un vantaggio competitivo dall’imposizione di limiti più stringenti agli allevamenti intensivi più grandi e industrializzati.
 

Migranti: i centristi europei risucchiati dalla destra

29 Gen


a cura di Piero RizzoCommenti esteri n° 75, 29-1-2024
Per questo numero abbiamo selezionato l’editoriale del Guardian pubblicato il 20 dic. u.s. con il titolo: “Il punto di vista del Guardian sulla politica dell’immigrazione: quando i centristi sguazzano nell’estremismo”. In esso si stigmatizza il riposizionamento di eminenti politici europei in vista delle prossime elezioni.
Riportiamo ampi stralci liberamente tradotti e in calce brevi considerazioni.
La politica dell’Europa occidentale sta improvvisamente facendo nascere alcune coppie molto strane. Lo scorso fine settimana, Rishi Sunak è volato a Roma e ha posato per delle foto amichevoli con la leader italiana di estrema destra, Giorgia Meloni. Questa settimana, il “centrista radicale” francese Emmanuel Macron è stato acclamato da Marine Le Pen. Per entrambi gli uomini è stato un lungo e strano viaggio sempre più a destra. Sunak e Macron sono entrati in politica dopo una formazione d’élite e un periodo nella finanza globale. Anni dopo, sembrano ancora più a loro agio con i miliardari della Silicon Valley che con gli elettori. Non sono nativisti intransigenti. Allora cosa vedono questi lettori di fogli di calcolo appena stampati nei loro improbabili nuovi sostenitori?
In una parola: convenienza. In ritardo nei sondaggi, stanno frugando nel bidone sporco della politica anti-immigrati e tirando fuori retorica e politiche che l’estrema destra rivendica come suo diritto. L’ex globalista Macron ora sostiene un disegno di legge che assegnerà alloggi e benefici non sulla base delle necessità, ma sul grado di francesità. Non c’è da stupirsi che la Le Pen l’abbia salutata come una “vittoria ideologica.

Per Sunak l’atteggiamento anti-immigrazione si è rivelato più umiliante a livello personale. Quando il figlio di migranti dell’Africa orientale divenne primo ministro, fu salutato come un trionfo dei valori multiculturali. Eppure lo scorso fine settimana ha avvertito che i nuovi arrivi in Europa minacciano di “sopraffare” il continente. Un linguaggio del genere può confortare i razzisti più reazionari, ma questi non si affezioneranno mai a Sunak perché non riescono a vedere oltre il colore della sua pelle. È anche un indicatore del basso livello morale in cui ora sguazza il conservatorismo britannico. Nel 1968, quando Enoch Powell pronunciò il suo discorso sui “fiumi di sangue”, fu prontamente licenziato dalla carica di ministro ombra e non ricoprì mai più una carica politica di alto livello. Al giorno d’oggi i principali conservatori dicono di peggio.

Le uniche persone per le quali il nuovo nativismo rappresenta un vero vantaggio sono ovviamente gli stessi nativisti. Nel Regno Unito Nigel Farage ha appena trascorso settimane in televisione in prima serata fingendosi una celebrità nella giungla. In Italia, la Meloni esce con Elon Musk, mentre la Le Pen sta usando la sua ritrovata importanza per liberare le vecchie associazioni del suo partito dall’antisemitismo e per atteggiarsi invece a protettrice degli ebrei. Si tratta di una riconfigurazione totale della politica europea, in cui il centrodestra si atteggia a radicale e la destra nativista indossa le vesti di centrista
Sia la Gran Bretagna che la Francia gestivano enormi imperi da cui estraevano fortune. Come dice il vecchio proverbio, le persone di quei paesi sono qui perché i loro padroni di un tempo erano laggiù. In secondo luogo, le società dell’Europa occidentale che invecchiano hanno bisogno che gli stranieri vengano a lavorare e paghino le tasse per sovvenzionare ospedali e scuole. Terzo, è nella natura degli esseri umani viaggiare, innamorarsi, sognare. Lo hanno sempre fatto e lo faranno sempre. I migranti non sono solo unità economiche; sono persone che possono contribuire ad una società e ad una cultura. Sostenere il contrario significa giocare nella politica del pregiudizio
.

Brevi considerazioni
Trump in una intervista a Fox News ha affermato che, se eletto, sarà dittatore solo per il primo giorno, per blindare il confine con il Messico e per trivellare, trivellare, trivellare. I migranti (come previsto) sono al centro delle prossime campagne elettorali su tutt’e due le sponde dell’Atlantico. “It’s the economy, stupid”! (alla fine è l’economia che conta), lo slogan di clintoniana memoria non funziona più. Il buon Biden che (a nostro parere) ha avuto buoni successi in economia, secondo i sondaggi, perderebbe le elezioni sul “confine sud”. Macron, Sunak e non solo, sugli immigrati, stanno scavalcando a destra Meloni. Ma mentre in Europa alle decisioni dei governi fanno da contrappeso le corti supreme (come è già avvenuto in UK con il “piano Ruanda” e in Albania), negli USA un eventuale secondo mandato di Trump non avrebbe “guardrail” (nella corte suprema i trumpiani sono in maggioranza) e potrebbe anche realizzare almeno in parte i suoi piani, in barba a diritti umani e a trattati internazionali. L’eccezionalismo americano così come il sogno americano sono e sono sempre stati dei miti (a nostro parere).

https://www.theguardian.com/commentisfree/2023/dec/20/the-guardian-view-on-the-politics-of-migration-when-centrists-dabble-in-extremism

Il mito del “libero mercato”

15 Gen


di Dean Baker
(brani da “The myth of the “Free Market”, Real-World Economics Review Blog, July 7, 2023 – IL DOCUMENTO – 15-1-2024)

I media USA stanno davvero esagerando nel raccontare che i giorni del libero mercato sono finiti con le politiche economiche di Biden. Il Presidente Biden ha soltanto costruito politiche volte a modificare la direzione dell’economia, favorendo l’energia pulita e la produzione interna di semiconduttori avanzati. Egli ha anche rinvigorito la politica anti-trust, che era stata largamente dimenticata dai suoi predecessori.
Ma l’idea che le politiche degli ultimi 40 anni siano state un problema perché non si è lasciato il mercato libero di funzionare è una grottesca bugia. Supponiamo che nel 2008-09 avessimo lasciato fare al mercato i suoi miracoli, quando Citigroup, Bank of America e altri giganti finanziari erano di fatto in bancarotta a causa della propria ingordigia e stupidità. Avremmo avuto un settore finanziario radicalmente ridotto, con molte meno persone che guadagnano salari bancari di sette-otto cifre (No, non avremmo avuto una seconda Grande Depressione. Keynes ci ha insegnato come prevenirla: spendendo denaro).
Avremmo avuto un settore finanziario molto più piccolo anche tassando le vendite di azioni, obbligazioni e derivati così come si tassano vestiti, mobili e auto. È stata la potente industria finanziaria, non il mercato libero, a dirci che queste transazioni dovevano essere esenti dalle imposte che si applicano a tutte le altre compravendite.

Non c’è nessun libero mercato nemmeno nelle agevolazioni fiscali dei super ricchi che guadagnano sugli hedge funds o private equity funds [prodotti di speculazione finanziaria]. Né è il libero mercato a rapinare i fondi delle pensioni pubbliche, promettendo alti rendimenti che raramente si realizzano.
D’altra parte, abbiamo rimosso le barriere commerciali sui beni manifatturieri perché la concorrenza dei salari bassi dei paesi poveri potesse ridurre i salari dei nostri lavoratori. Questo ci è costata la perdita di milioni di posti di lavoro e la riduzione dei salari sui posti rimasti. Ma non abbiamo rimosso le barriere che proteggono i medici, dentisti, e altri professionisti dalla concorrenza delle controparti che vivono nei paesi poveri. Ciò infatti avrebbe ridotto i posti di lavoro e le remunerazioni dei professionisti nati in USA. … Il libero mercato ha riguardato solo i lavoratori che non hanno frequentato i college.
L’altra grande parte del nostro libero mercato riguarda i brevetti e i diritti d’autore, che sono stati resi più lunghi e più costrittivi. È da incubo orwelliano dire che questi monopoli prolungati, garantiti dal governo, fanno parte del libero mercato. E il loro impatto non è da poco. Quest’anno [2023] spenderemo oltre 550 miliardi di dollari per i farmaci prescritti da ricette mediche. Se questi farmaci fossero venduti sul mercato libero, senza brevetti, il costo complessivo sarebbe quasi certamente inferiore a 100 miliardi. … La differenza di 450 miliardi di dollari … equivale a più della metà delle nostre spese militari.
Dopo la pandemia abbiamo creato 5 nuovi miliardari pagando la ditta farmaceutica “Moderna” perché sviluppasse nuovi vaccini, e abbiamo lasciato a questa impresa il pieno controllo dei vaccini stessi. Secondo i miei calcoli, noi trasferiamo oltre mille miliardi l’anno a chi beneficia di brevetti e copyright rispetto al prezzo che avrebbero le medicine, le attrezzature mediche, i software per computer, ecc. Ciò significa il 40% di tutti gli altri profitti da impresa che vengono tassati.
Potremmo tralasciare una gran numero di altri settori in cui il governo ha costruito processi di redistribuzione dei redditi verso l’alto (vedi il mio Rigged. How Globalization and the Rules of the Modern Economy Were Structured to Make the Rich Richer, Center for Economic and Policy Research, Washington, 2016. È di libero accesso online). Dovrebbe essere ovvio per chiunque abbia familiarità con la politica economica degli ultimi decenni che la questione non è il libero mercato ma la strutturazione dell’economia in modo da rendere i ricchi più ricchi.
Si può capire che chi propone queste politiche affermi che il problema è solo il libero mercato. Dopo tutto appare molto meglio dire al pubblico, alla maggioranza fatta dei perdenti creati da questo politiche, che “il mercato crea sia i vincenti che i perdenti”, invece di dire “stiamo costruendo politiche per trasferire denaro da voi a noi”.
Ma perché la gente che è contraria a queste politiche accetta l’inganno? A quanto sembra c’è un grande mercato per questa sorta di finzioni nei prodotti dei media più importanti, ma sarebbe bello avere discussioni di politica più basate sulla realtà.

Il lavoro nelle Costituzioni democratico-sociali*

11 Dic


di Maurizia Pierri
La Costituzione italiana, insieme a quelle di Grecia, Germania, Spagna e Portogallo, fa parte, secondo il diritto comparato, del ciclo costituzionale democratico–sociale, che è successivo alla seconda guerra mondiale ed è caratterizzato dall’espansione della tutela dei diritti sociali. La forma di Stato delineata da questo ciclo costituzionale, è il Welfare State. A differenza dello Stato liberale, il Welfare State si preoccupa dei bisogni sanitari, assistenziali, scolastici e abitativi espressi dalla collettività, erogando prestazioni in precedenza fornite da enti privati. La giustificazione dell’impiego di risorse pubbliche per coprire i costi degli interventi statali è di dare attuazione concreta al principio di uguaglianza sostanziale, che è riconosciuto in tutte le costituzioni del ciclo democratico-sociale. Tale principio impone, non una asettica equidistanza delle legge rispetto ai singoli, ma un intervento pubblico affinché vi sia “pari dignità” tra le persone e siano rimosse le situazioni che impediscono lo sviluppo della persona, uti singulus e uti socius (come singolo e come associato). Tra i diritti sociali, fondamentale è il lavoro, attraverso il quale la persona si sente parte attiva dell’ordinamento sociale e giuridico, e ottiene inoltre i mezzi per assicurare a sé ed alla sua famiglia una vita dignitosa. Il legame tra lavoro e dignità è intenso ed è riconosciuto anche da norme del diritto internazionale: dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alle Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del Lavoro, dalla Carta sociale europea al Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, e alla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali. In tutti questi documenti emerge il principio che “ogni individuo ha diritto a una remunerazione equa e soddisfacente, che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana”.
Anche a livello statale il diritto al lavoro è inteso come esigenza fondamentale ed è presente nei testi delle Costituzioni democratico-sociali. Particolarmente significative sono le disposizioni della Costituzione portoghese. Ma anche la Costituzione italiana dedica particolare enfasi al tema del lavoro e, in particolare, della retribuzione, frutto di un dibattito serrato avvenuto in Assemblea costituente. Per di più la Costituzione italiana si caratterizza per il suo “personalismo”, ossia per il suo essere costruita intorno al concetto di persona (da tener distinto da quello di “individuo”). L’influenza del magistero sociale cattolico emerge in filigrana nella formulazione degli articoli dedicati al lavoro. Nell’art. 36 è scritto che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Nella Evangelii Gaudium il lavoro viene definito come la attività in cui “l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita. Il giusto salario permette l’accesso adeguato agli altri beni che sono destinati all’uso comune”.
Il tema del salario è dunque centrale nella realizzazione del diritto sociale al lavoro ed effettivamente il senso da attribuire alla formula dell’art. 36 ha impegnato la dottrina e la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, compresa la legittimità costituzionale. Sintetizziamo i termini del dibattito. Intanto si è riconosciuto che quell’impegno ha forza di precetto, tanto che si sono utilizzati i parametri della contrattazione collettiva per estenderli, in via giurisprudenziale, ai settori privi di tutela. Poi il contenuto dell’articolo è stato coordinato con quello dell’art. 39, che prevede la contrattazione collettiva dei sindacati riconosciuti. Infine si è escluso che il livello del salario rientri obbligatoriamente nella contrattazione collettiva (sentenza della Corte costituzionale n.106/1962). Dunque sarebbe possibile imporre un salario minimo legale per dare attuazione alla prescrizione costituzionale che impone di retribuire il lavoratore “in ogni caso … in modo sufficiente ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Il tema del salario minimo (che in molti Paesi europei è stato inserito con legge) è tornato prepotentemente alla ribalta negli ultimi anni, con l’emergere del problema del lavoro “povero”, spesso collegato ad una condizione di precarietà contrattuale e sociale. Ne sono colpite infatti le categorie più deboli, donne e migranti, gli occupati nei servizi alle famiglie e nei lavori agricoli ed edilizi; settori in cui si registra (i dati sono ministeriali) un alto tasso di lavoro irregolare e privo di tutele.
Lo scenario della realtà odierna è sconfortante e denuncia il fallimento della funzione fondamentale che la Costituzione assegna al lavoro, quello di emancipare la persona dal bisogno e di realizzare la sua progettualità di vita, come singolo e come parte di una comunità.

  • Questa è la sintesi della relazione tenuta dalla prof.ssa Pierri per i seminari di Humasnfirst “I Venerdì di Diogene” (marzo 2023).

L’Europa fa annegare i lavoratori che le servono

4 Dic


a cura di Piero Rizzo – Commenti esteri n° 74

L’articolo di questo mese pubblicato dall’Economist il 4 ott. u.s. suona come severa critica alla politica europea sulla migrazione. In quest’ultimo periodo il tema è tornato in prima linea perché il numero dei migranti è in notevole aumento.
Un’ondata di piccole imbarcazioni sta arrivando sulle coste meridionali dell’Europa, piene di migranti disposti a lavorare, ad esempio svolgendo lavori poco qualificati nel settore edile o assistendo gli anziani. … Oggi l’Europa registra una crescente carenza di lavoratori, soprattutto nei settori poco qualificati come l’edilizia o la cura degli anziani. Per alcuni, ciò potrebbe suggerire una soluzione tanto complessa quanto inserire l’ultimo pezzo in un puzzle. Purtroppo, la migrazione non è suscettibile di tale ragionamento. I paesi hanno confini per buone ragioni; i bisogni economici sono spesso asserviti agli imperativi politici. Tuttavia, il risultato finale è che l’Europa sta stupidamente schierando, da una parte, recinzioni di filo spinato e, dall’altra, striscioni con la scritta “si cercano lavoratori”. Nel frattempo, migliaia di persone stanno annegando mentre cercano di raggiungere un paese che potrebbe presto rendersi conto di aver bisogno di loro.
Quindi, ahimè, la migrazione è tornata in prima linea nella politica europea. L’UE è sulla buona strada per ricevere oltre 1 milione di domande di asilo quest’anno, il numero più alto dopo l’ondata di arrivi nel 2015-2016. Allora, nel mezzo dei disordini in Afghanistan e Siria, l’atmosfera era piuttosto accogliente: Angela Merkel, la cancelliera tedesca, aveva dichiarato, sulla scia del grande afflusso di migranti, che “Wir schaffen das”, possiamo farcela. Ora l’Europa non ha più la sensazione di potercela fare così tanto. Che siano liberali o conservatori, settentrionali o meridionali, la sensazione degli europei è di un continente ai suoi limiti. Milioni di ucraini in fuga dalla guerra nell’UE hanno messo a dura prova risorse – e simpatia – che avrebbero potuto andare a chi veniva da più lontano. I paesi che hanno accolto molti migranti nel 2015 non se la sono cavata bene: la Svezia sta chiamando l’esercito per aiutare ad affrontare un’ondata di violenza tra bande, in gran parte legata al suo confine precedentemente poroso. I populisti che odiano i migranti sono aumentati, lì come in Germania.
Se c’è una cosa che unisce i politici dell’UE, è la certezza che una politica mal riuscita sull’immigrazione costerà loro la carriera. Il continente soffre comunque di antiche divisioni. I paesi dell’Europa meridionale come l’Italia e la Grecia lamentano di sostenere il peso maggiore delle norme dell’UE, che costringono i paesi di arrivo dei migranti a sostenere le spese per la selezione, anche se la maggior parte dei migranti vuole finire in luoghi come Germania e Svezia. Quei paesi ricchi pensano che i meridionali stiano infrangendo le regole non intercettando i migranti mentre mettono piede nell’UE. Una soluzione discussa per anni è un grande patto paneuropeo, in base al quale i paesi al di là delle prime linee della migrazione accettino di accogliere alcuni migranti fra le masse che si accalcano. Un accordo del genere è stato siglato a giugno e continua a essere oggetto di contrattazioni. Ma sotto il peso dei nuovi arrivi sembra traballare. Un altro elemento è stato l’accordo con la Tunisia, che molti migranti, da tutto il mondo, utilizzano come trampolino di lancio prima di attraversare il Mediterraneo verso l’Europa. In sostanza, il regime autocratico del paese doveva essere “comprato” con i contanti dell’UE per scoraggiare i trafficanti che utilizzavano le sue coste. Un accordo simile con la Turchia ha contribuito a contenere il flusso nel 2016. Ma anche questo non funziona bene.

Brevi considerazioni
Leggendo l’articolo ci sono venute in mente le parole del Manzoni: il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune. L’approccio all’annoso problema della migrazione è sempre quello dell’Europa “fortezza”: erezione di muri o di barriere in filo spinato dotato di lame di rasoio, pattugliamento delle coste del Mediterraneo, “blocco navale”, accordi tipo quello con la Turchia e così via. Ebbene, la conclusione dell’articolo è che in un prossimo futuro l’Europa potrebbe essere indotta a cercare più o meno lo stesso numero di persone che oggi lascia annegare. Già oggi in tutti i pesi europei c’è una drammatica carenza di lavoratori qualificati e non, mentre i permessi di lavoro vengono concessi col contagocce. Fino a quando parole come invasione, sostituzione etnica, perdita di identità faranno ancora breccia sull’opinione pubblica e saranno al centro di propaganda elettorale, non c’è molto da sperare. Sentiremo parlare ad nauseam di superamento dell’accordo di Dublino, di accordi di ricollocamento e così via.

https://www.economist.com/europe/2023/10/04/europe-is-stuck-in-a-need-hate-relationship-with-migrants

La povertà crescente al di qua e al di là dell’Atlantico: una luce in fondo al tunnel? – 2a parte

27 Nov

di Elisabetta Grande

Proprio, infatti, quando il mercato avrebbe finalmente potuto avvantaggiare i lavoratori per via di una situazione di bassissima disoccupazione – arrivata al 3,6% prima del periodo pandemico – il sistema ha messo in campo strumenti giuridici “canaglia” (che qui non si ha lo spazio di approfondire e che prendono, fra gli altri, i nomi di clausole anti-competizione o di arbitrato obbligatorio), che hanno ostacolato l’operatività della legge economica della domanda e dell’offerta, che vorrebbe che in tali circostanze i salari aumentino.
Non c’è allora davvero da stupirsi se, nonostante una disoccupazione calante, prima del periodo pandemico i salari dei lavoratori americani meno qualificati non fossero aumentati, con buona pace della legge della domanda e dell’offerta. Né c’è, infine, da meravigliarsi se il numero dei senzatetto -una buona percentuale dei quali peraltro lavora – sia tale da aver fatto dichiarare già qualche anno fa lo stato di emergenza ad alcuni governatori.
Alla politica liberista del laissez faire (o addirittura quella dell’intervento di regole giuridiche che penalizzano il più debole quando il laissez faire lo avvantaggia) nel campo del diritto del lavoro, a partire da Reagan, ma anche e soprattutto con Clinton si è aggiunta la forte riduzione dello stato sociale, in combinato con riforme fiscali a vantaggio dei più ricchi. Già impoveriti e abbandonati in condizioni di massima precarietà dall’assenza di un diritto del lavoro che li tutelasse, gli americani più deboli si sono così indeboliti ancor di più, diventando debolissimi. L’aliquota marginale per i redditi più alti, invece, passava dal 70,1% dei tempi di Carter al 28% di quelli di Reagan, per non raggiungere mai più percentuali al di sopra del 40%, a tutto vantaggio dei più abbienti.

Appaiono perciò evidenti le forti analogie con ciò che – a partire dagli anni ’90 – è avvenuto e ancora sta avvenendo in Italia. Basti pensare all’abbandono delle garanzie giuridiche dei lavoratori a cominciare dal pacchetto Treu – passando per la legge Biagi – fino ad arrivare al Jobs Act. Una flessibilizzazione, che avrebbe dovuto portare più posti di lavoro e che, secondo i dati resi noti dalla Banca d’Italia, ha invece condotto a maggior precarietà e all’abbassamento dei salari. E mentre oggi si reintroducono i voucher e si elimina il decreto dignità, d’altro lato vengono cancellate sanità e scuola così come le conoscevamo. Seguendo la lezione impartitaci dagli Stati Uniti, poi, il nostro sistema fiscale dal 1974 a oggi ha ridotto gli scaglioni di reddito da 35 a 3, diminuendo l’aliquota più alta da tassare dal 72% al 43%. Tutte manovre di politica legislativa che creano povertà!
Cfr. E. Grande, Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Torino, 2017.

Una luce in fondo al tunnel?

Negli ultimi due anni, però, all’uscita dal periodo pandemico, qualcosa negli Stati Uniti sembra aver prodotto un cambiamento di rotta. Che a dare forza ai lavoratori siano stati gli aiuti federali straordinariamente concessi durante la pandemia ai più deboli attraverso i vari Stimulus Acts o i maggiori risparmi determinati dal lock down forzato o la nuova consapevolezza della propria condizione di sfruttati assunta nelle nuove circostanze, o tutto insieme, è difficile dire. Ciò che comunque è accaduto è stata la presa di coscienza da parte di molti che un ritorno ai precedenti lavori e alle stesse condizioni non sarebbe più stato accettabile. Così, dopo la stretta anti-virus, invece della corsa alla ricerca di un lavoro che ci si attendeva, in tanti hanno preferito rimanere a casa. Inoltre, mentre l’offerta di posti di lavoro aumentava a fronte di un ristretto numero di lavoratori disposti ad accettarli, altri decidevano di abbandonare il loro (solo nel 2022, 46 milioni di americani hanno detto basta al loro sfruttamento e hanno dato le dimissioni). Dopo quarant’anni di disciplinamento da parte del mercato, di un diritto canaglia che li voleva ingabbiati in salari da fame e decenni di declino del tasso di partecipazione sindacale, i lavoratori statunitensi si sono ribellati e hanno cominciato a scioperare in modo massiccio e a ri-sindacalizzarsi, con successi straordinari in termini di miglioramento dei salari, soprattutto per i meno qualificati fra loro.
Difficile dire se si tratti di successi duraturi o di breve durata. Quel che è certo è che una nuova e feroce guerra contro i lavoratori è subito stata ingaggiata dalla Federal Reserve, la quale con un susseguirsi di rialzi dei tassi di interesse sul costo del denaro ha cercato di provocare una recessione economica per raffreddare l’economia e gli entusiasmi dei lavoratori. Se fossero le lotte di questi ultimi ad avere la meglio si aprirebbe però un nuovo capitolo della vicenda povertà negli Stati Uniti. E’, infatti, in grandissima misura la possibilità concessa alle persone di avere un lavoro capace “di assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” ciò che permette di evitare la caduta in povertà, al di qua come al di là dell’Atlantico. In questo senso la lotta dei lavoratori su entrambe le sponde è una lotta comune per una società più uguale.

Il Nobel dell’economia 2023: storia delle differenze di genere nel lavoro

16 Ott


di Piero Rizzo – 16-X-2023

Il Nobel per l’economia 2023 è stato conferito a Claudia Goldin della Harvard University, Cambridge, MA, USA, “per aver migliorato la nostra comprensione dei risultati del mercato del lavoro femminile”.
Riportiamo di seguito alcuni tra i risultati più significativi o meno noti (a parere di un profano) delle ricerche della Nobel.
Goldin ha scoperto i fattori chiave delle differenze di genere nel mercato del lavoro e ha fornito per la prima volta un quadro completo dei guadagni e della partecipazione delle donne nel corso dei secoli. Un lavoro certosino negli archivi ha portato alla raccolta di 200 anni di dati provenienti dagli Stati Uniti e mostrato come e perché le differenze di genere nei guadagni e nei tassi di occupazione sono cambiate nel tempo e come i percorsi economici delle donne potrebbero continuare ad evolversi nel futuro.
Le donne sono largamente sotto-rappresentate nel mercato del lavoro globale e, quando lavorano, guadagnano meno degli uomini. Circa il 50% delle donne lavora o cerca attivamente lavoro per reddito, rispetto all’80% degli uomini. Questi dati sono pressappoco costanti nel tempo e in tutti i paesi. I divari di partecipazione tra uomini e donne sono particolarmente ampi in Asia, Medio Oriente e Nord Africa. Goldin ha dimostrato che la partecipazione femminile al mercato del lavoro non ha avuto una continua tendenza al rialzo nel tempo, ma un andamento secondo una curva ad U. La partecipazione delle donne sposate diminuisce con la transizione da una società agricola a una industriale all’inizio del XIX secolo, ma poi inizia ad aumentare con la crescita del settore dei servizi all’inizio del XX secolo. La causa è l’evoluzione delle norme sociali sulle responsabilità delle donne per la casa e la famiglia. E’ stato dimostrato che l’accesso alla pillola contraccettiva ha giocato un ruolo importante nell’accelerare questo cambiamento rivoluzionario, offrendo alle donne incentivi nuovi per investire nell’istruzione e nella carriera.
Nel corso del XX secolo, i livelli di istruzione delle donne sono aumentati costantemente e, nella maggior parte dei paesi ad alto reddito, sono oggi sostanzialmente più alti di quelli degli uomini. Tuttavia, quando lavorano, le donne guadagnano meno: nei Paesi OCSE, ad esempio, le donne guadagnano in media il 13% in meno rispetto agli uomini. Inoltre, le donne tendono a coprire posti di lavoro con meno possibilità di carriera e sono gravemente sotto-rappresentate nei consigli di amministrazione aziendali o come amministratori delegati. I divari di genere nei guadagni e il “soffitto di cristallo”(glass ceiling) nelle promozioni sono fenomeni mondiali.
La modernizzazione, la crescita economica e la crescente percentuale di donne occupate nel XX secolo non hanno colmato il divario retributivo tra donne e uomini. Secondo Goldin, parte della spiegazione è che le decisioni educative, che influiscono sulle opportunità di carriera per tutta la vita, vengono prese in età relativamente giovane. Le aspettative delle giovani donne sono influenzate dalle esperienze delle generazioni precedenti – ad esempio, dalle loro madri, che sono tornate al lavoro solo quando i figli sono cresciuti – e questo porta inevitabilmente ad uno sviluppo più lento.
Accanto alle differenze nell’istruzione e nelle scelte professionali, tuttavia, Goldin ha dimostrato che la maggior differenza di reddito si ha attualmente tra un uomo e una donna di una stessa coppia che svolgono lo stesso tipo di lavoro e ciò si verifica con la nascita del primo figlio. “E’ importante sottolineare che entrambi perdono. Gli uomini rinunciano al tempo trascorso con la famiglia e le donne spesso rinunciano alla carriera”.
In conclusione.
Se le donne vengono trattate in modo diseguale nel mercato del lavoro, non è solo una questione di equità, ma anche di efficienza economica. Quest’ultima diminuisce se le persone non vengono attribuite ai lavori più consoni alle loro competenze. Tali inefficienze comportano ingenti costi economici per la società. Ridurre il divario di genere nell’occupazione e valorizzare il talento femminile potrebbe quindi portare ad aumenti significativi della ricchezza globale. La magistrale narrazione della storia economica delle donne ha fornito fatti nuovi sui molti aspetti delle diseguaglianze di genere e approfondimenti spesso sorprendenti sui ruoli storici e contemporanei delle donne nel mercato del lavoro.

https://www.nobelprize.org/prizes/economic-sciences/2023/press-release/
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