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Gaza: Il fallimento dell’Europa come guida morale

22 Apr

di Muddassar Ahmed (Social Europe 1° marzo 2024) – IL DOCUMENTO, 22-4-2024

La demolizione di Gaza da parte di Israele perseguiterà la coscienza dell’Europa per generazioni e mette in forse le pretese del mondo democratico.

Nonostante le crescenti pressioni del pubblico e dei politici, Israele ha stabilito che la scadenza per il suo attacco a Rafah sarà alla fine del mese sacro del Ramadan. Ma invadere la città che ospita attualmente più di un milione di persone non sarebbe solo un’apocalisse per i palestinesi, ma perseguiterebbe la coscienza europea per le future generazioni.

Israele, massacrando i palestinesi di Gaza, sta rompendole regole di guerra consolidate, e questo svela la sua storia e rinnova i ricordi di persecuzione dei palestinesi.

Distruzione senza freni
Negli ultimi mesi oltre 650mila case sono state distrutte e circa 1 milione e 800mila persone obbligate a spostarsi. l’Unesco ha dovuto diffondere immagini satellitari della distruzioni di siti storici ed ha espresso profonda preoccupazione. Ma una cosa è chiara: la cultura e la vita dei palestinesi non saranno più le stesse. Il 19 ottobre scorso è stata distrutta la più antica chiesa di Gaza, S. Porfirio, che era un vero mosaico della sua storia antica. Aveva pietre e targhe con impresse iscrizioni in greco antico (compresa la parola Gaza). Anche la Grande Moschea Omari, che era prima un tempio pagano, è stata distrutta, con il solo minareto che emerge come un dito mozzato.

Quando Alessandro Magno assediò Gaza nel 332 a.C. stava tentando di conquistare una città culturalmente ricca che collegava l’Assiria con l’Egitto lungo la Via della Seta. Oggi le sue biblioteche sono state bruciate e oltre 200 siti religiosi e culturali unici sono in macerie a causa della riduzione in polvere di Gaza da parte di Israele.

Quando lo Stato Islamico mosse la sua guerra alla storia, all’identità e all’eredità materiale, il mondo espresso unanime sdegno. Oggi l’Europa e gli USA sono stranamente in silenzio su Israele, ignorano l’infinito incubo dei palestinesi e lo spianamento della loro storia, che avrebbero dovuto da tempo preservare.

Ispirandosi ai Monument Men [i cacciatori di opere d’arte] della II guerra mondiale], alcune organizzazioni come il Comitato del Blue Shield [scudo blu] sono stati instancabili nel cercare di preservare l’eredità culturale durante i recenti conflitti in Iraq, Siria, Mali. Ma Israele non mostra alcuna intenzione di fare lo stesso. I palestinesi sono messi di fronte a scene di devastazione che si trovano solo sui libri di storia.

Appello urgente
Non è solo Gaza che sta perdendo la sua anima. La coscienza europea sarà segnata per sempre se non si prendono misure per portare i governi più potenti a chiedere un cessate-il-fuoco. Già si vedono le crepe nella leadership morale e politica dell’Europa. Le proteste per avere un cessate-il-fuoco a Gaza crescono di giorno in giorno, e si allarga il divario tra i popoli e i loro rappresentanti, persino tra i rappresentanti ufficiali. Tutto ciò, nell’anno delle tante elezioni, mette in pericolo la nostra democrazia.

In Gran Bretagna il principe William ha fatto un passo senza precedenti, è intervento pubblicamente per dire che “troppe persone sono state uccise” e invocare un impegno perché questo cessi “il più presto possibile”. Israele lo ha bollato come “ingenuo”, ma questa è la leadership che stiamo perdendo come governi europei e americani.

Gli stati del Golfo, visti da tempo come l’unica via possibile per normalizzare la regione insieme con Israele, hanno le chiavi per la pace dell’area, ma adesso sono costretti a osservare il doppio standard del sistema internazionale. Mentre l’UNRWA [agenzia ONU per i soccorsi) è collassata, l’Arabia Saudita … ha dato più di 5mila tonnellate di aiuti e guida la diplomazia dietro le quinte.

A Riyadh, i ministri dell’Autorità Palestinese, Emirati, Qatar, Arabia Saudita, Giordania ed Egitto si sono incontrati per discutere su un riconoscimento irreversibile dello stato palestinese. Ad alcuni incontri hanno partecipato anche rappresentanti di USA, UE, e Gran Bretagna.
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[Fra gli esponenti delle società civile che sostengono con motivi morali il cessate-il fuoco, l’autore cita il papa, la marcia delle 150 miglia verso Washington e la maggioranza dei gruppi religiosi, inclusi quelli ebrei e gli evangelici. Cita inoltre la Lega Mondiale dei Musulmani e il suo capo Al-Issa che ha chiesto pubblicamente il rilascio degli ostaggi tenuti da Hamas.

Queste autorità morali hanno capito ciò che non è chiaro ai leader politici]:
in questo conflitto che sembra a somma zero siamo tutti destinati a perdere: distruzione di vite umane, opere d’arte e siti storici, aumento dell’odio e disumanizzazione del mondo. I diritti umani e i valori democratici rischiano di essere seppelliti insieme con tanti palestinesi di Gaza.

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“Il capitale umano e le promesse mancate dell’ordine liberale” – I parte

8 Apr


di Giorgio Barberis (Univ. del Piemonte Orientale)
Sintesi della relazione tenuta a “I Venerdì di Diogene” di Humanfirst, Univ. del Salento, aprile 2023

L’ordine liberale, ossia il sistema politico-economico che si è affermato su larga parte del globo a conclusione della Seconda guerra mondiale, con i suoi pilastri ben definiti – la democrazia e i diritti individuali; il multipolarismo connotato da istituzioni internazionali formalmente riconosciute; un sistema di sicurezza collettiva assicurata dalla Nato, dalla coesione transatlantica e dall’egemonia statunitense; un’economia internazionale aperta, nata dagli accordi di Bretton Woods – e con le sue promesse di crescita e benessere per tutti, ha avuto indubbi successi – riassunti nelle formule felici del “Welfare state” e dei “Trenta gloriosi”, ossia i tre decenni di sviluppo economico dell’Occidente – ma anche evidenti contraddizioni, criticità, limiti. A sfidarlo, da un lato, il comunismo internazionale e l’economia pianificata sovietica, e – dall’altro – il pensiero critico, non rassegnato a ridurre l’individuo all’unica dimensione di consumatore. Con la fine della guerra fredda, con la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’URSS, con la globalizzazione e il successo planetario del (neo)liberismo, quell’ordine sembrava avviato a un trionfo ‘definitivo’, e si parlò addirittura, con una certa insistenza, di “fine della storia”, immaginando un’umanità giunta al suo massimo livello possibile grazie a una forma di governo in grado di assicurare la ‘sovranità’ a ognuno (la democrazia) e un sistema economico (il capitalismo) capace di garantire a tutti la possibilità di soddisfare ogni desiderio. Nessuno spazio per alternative concrete di fronte a un pensiero unico che prometteva felicità e pretendeva fedeltà. Ma era, se non una mistificazione, certamente un abbaglio, un’illusione, destinata a crollare nel giro di pochissimo tempo. L’ordine liberale after victory, infatti, ha palesato in tempi rapidi tutta la propria fragilità, non riuscendo in alcun modo a mantenere le sue promesse di pace, di sicurezza, di benessere e di prosperità universale, ed è precipitato in una profonda crisi, trascinando con sé anche la politica (che in realtà aveva da tempo abdicato al proprio ruolo di guida, cedendo il primato all’economia di mercato) e tutti gli ambiti fondamentali della vita sociale, alle prese con una “transizione” infinita tra un non più e un non ancora, in sospensione tra due mondi diversissimi: quello di ieri, ormai in pezzi, e quello di domani, pieno di incognite e di zone d’ombra.
Per capire ciò che sta accadendo oggi credo che sia opportuno risalire molto indietro, e più precisamente agli anni Settanta del Novecento. Si inizia allora a comprendere (pensiamo alla crisi petrolifera) che non può esserci una crescita infinita in un mondo finito, e che il modello produttivo richiede consistenti modifiche. A segnare quel decennio, e invero tutti quelli a venire, è però un vorticoso rinnovamento scientifico e tecnologico, la terza rivoluzione industriale, determinata dall’informatica, dall’elettronica, dai processi di automazione, dal silicio, e pure dagli aerei e dalle navi a grandi capacità, da uno spazio che si riduce e da un tempo che accelera, ponendo le premesse per la massiccia intensificazione di quei flussi che danno vita a una globalizzazione senza più argini e “confini”. Un cambiamento epocale che, come detto, ha interessato ogni ambito, a partire dal sistema economico e dal mondo del lavoro. Il passaggio dal fordismo al post-fordismo ha rappresentato una vera e propria rivoluzione copernicana, rendendo obsolete procedure e dinamiche che sembravano eterne (basti pensare alla catena di montaggio e a tutta l’organizzazione taylorista del processo produttivo), e che invece vengono travolte dal just in time, dalla lean production, dall’apoteosi del marketing, e dai processi di finanziarizzazione. Il lavoro si frantuma, la “flessibilità” diventa la parola chiave, ma porta con sé, come due facce della stessa medaglia, la precarietà, l’instabilità, l’incertezza, che sconfinano presto dall’ambito professionale a quello tout court esistenziale. Un cambio di paradigma che premia pochi fortunati ed espone i più fragili a conseguenze drammatiche, mettendo in crisi anche la retorica – per certi aspetti positiva – del “capitale umano” e delle sue potenzialità. Dal miraggio dell’emancipazione individuale alle nuove schiavitù il passo, purtroppo, è molto breve.
E la politica? È forse proprio questo il cuore del cambiamento che segna il nostro tempo. La sfera politica non è più il luogo della decisione sovrana, ed è vieppiù marginale e subalterna all’ambito economico. A determinare le sorti collettive sono le scelte di agenzie transnazionali sottratte al controllo democratico, di tecnocrazie non elettive e delle grandi corporations. La sensazione diffusa è quella di una mediocrità complessiva della leadership politica ad ogni livello, dal globale al locale.

Clara Mattei: l’austerità come mezzo di sfruttamento – II parte

19 Feb


di Cosimo Perrotta – 19-2-2024

(Commento a Clara E. Mattei, Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo, Einaudi 2022)

Il libro di Clara Mattei ha una grande forza demistificatrice. Attraverso il concetto di austerità e attraverso l’analisi delle sue numerose (eppur sempre ritornanti) applicazioni, esso prova che c’è una stretta continuità fra le politiche antipopolari e antidemocratiche di cento anni fa – quando la crisi del primo dopoguerra portò i governi inglesi e quello italiano ad opprimere i ceti più poveri – e le politiche messe in atto oggi contro i lavoratori e i ceti medio-bassi.
Quest’analisi, però, assumendo un punto di vista radicale, cioè la critica del capitalismo in quanto tale, tende ad appiattire la diversità delle dinamiche della produzione e della lotta sociale. Il libro sembra mettere tutto sullo stesso piano, non solo le politiche economiche dei governi democratici inglesi con quelle del governo fascista italiano, ma anche Keynes (vedi ad es. pp. 146 e 155), che viene menzionato come fautore di alcune politiche di austerità. Sarà pur vero, ma non fu certo questo il tratto distintivo delle politiche proposte da Keynes, che contribuirono fortemente alla creazione del welfare state. Lo stesso welfare state viene ignorato nel libro di Mattei, e con esso passa sotto silenzio il gigantesco progresso dei ceti popolari, che fu promosso proprio dagli stati dell’Europa occidentale nel secondo dopoguerra. Viene quindi ignorato anche lo sviluppo economico impetuoso che quel progresso generò, la crescita dei ceti medi, le grandi conquiste sociali, l’affermarsi dei nuovi diritti civili.
È vero che oggi una gran parte delle conquiste dei lavoratori ottenute in quel periodo è stata spazzata via dalla reazione neoliberista; e ciò sembra giustificare il parallelo fra gli anni Venti di un secolo fa e quelli di oggi. Tuttavia questo parallelismo semplifica una situazione reale molto più complessa. Oggi, accanto al trattamento disumano dei poveri e degli sfruttati, che è persino peggiore di quello di un secolo fa, e al di sotto dei ceti ricchi, c’è una fascia del lavoro protetta e garantita, e sopra di loro un’altra fascia di professionisti privilegiata. Inoltre attualmente cresce un’attenzione verso i diritti umani, i diritti della donna e di tante altre categorie che sarebbe stata impensabile un secolo fa.
Questo schematismo mostra un limite del libro. Spesso nella sua critica Mattei usa come intercambiabili i concetti, ovviamente ben diversi tra loro, di proprietà privata e proprietà privata dei mezzi di produzione. Lo stesso fa riguardo allo sfruttamento, per il quale non distingue due accezioni molto diverse. Una è il concetto nel senso comune, cioè di lavoro oppressivo, con salari minimi e tempi di lavoro senza limiti, l’altra è l’accezione marxiana del termine, cioè di lavoro che, anche quando è umano e ben pagato, sarebbe comunque sfruttato perché il valore che produce viene parzialmente estorto (“espropriato”) per formare il profitto.
Quest’ultima confusione è decisiva. Se noi pensiamo che ciò che conta veramente sia lottare per la fine dello sfruttamento in senso marxiano, cioè per la fine della proprietà privata dei mezzi di produzione, tendiamo a rimandare il superamento dell’oppressione sociale alle calende greche. Soprattutto, con questo approccio finiamo col considerare lo sfruttamento del lavoro nel senso comune del termine un male tollerabile o comunque secondario, anche se oggi si presenta nelle forme più odiose del lavoro dei migranti nelle campagne o nei cantieri, dei rider, degli addetti ai call-center, delle badanti.
Ciononostante, il libro di Mattei è importante, perché ci fa toccare con mano come si sono ridotte oggi l’economia occidentale e la sua democrazia, in quale situazione di barbarie siamo ricaduti, dopo la fase del welfare state, a causa del neoliberismo e delle sue politiche di austerità. Siamo arrivati ad una società dove una parte crescente della popolazione odia e disprezza i poveri, esalta il successo (misurato in denaro) e si attacca all’individualismo e all’identità “tribale” come valori principali. Dove i lavoratori immiseriti non esprimono più una domanda sul mercato che sia sufficiente a mantenere un livello adeguato di investimento, e dove le disuguaglianze crescenti trasformano i profitti in rendite parassitarie e gli investimenti in produzione di armamenti.
Clara Mattei nelle ultime righe dei suoi Ringraziamenti, alla fine del libro, ricorda il prozio, il noto partigiano Gianfranco Mattei, il quale si uccise durante le torture che subiva nelle prigioni di via Tasso a Roma per evitare di rivelare i nomi dei suoi compagni. A lui Clara ha dedicato il suo libro, e da quel ricordo ha tratto la grande forza della sua analisi.

Clara Mattei: l’austerità come mezzo di sfruttamento – I parte

12 Feb


di Cosimo Perrotta – 12-2-2024

Commento a Clara E. Mattei, Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo, Einaudi 2022, pp. 421, € 34 (versione italiana di The Capital Order, Univ. of Chicago, 2022).

Clara Mattei è una giovane studiosa italiana che insegna economia alla New School for Social Research di New York. Il suo libro racconta le turbolenze economico-politiche del primo dopoguerra in Inghilterra e in Italia, quando le élite dei due paesi passarono rapidamente da una tentennante condiscendenza verso le rivendicazioni operaie e le istanze di rinnovamento radicale del sistema economico ad una rigida chiusura, la quale confermò e aggravò la distanza fra classe dirigente e classi subalterne.
Dopo quella drammatica svolta, la restaurazione dei privilegi delle élite legati allo sfruttamento dei lavoratori e dei ceti medi poveri continuò e venne rafforzata fino ai giorni nostri. Ciò avvenne attraverso una politica – che oggi chiamiamo dell’austerità – che costrinse i ceti subalterni ad accettare bassi salari, alte tasse e magri consumi in nome delle necessità del bilancio statale. Le politiche economiche dirette a comprimere i redditi dei ceti popolari vennero e vengono presentate come leggi di natura che, se trascurate, portano al disastro.
Non sono soltanto i salari che devono essere tenuti bassi attraverso la disoccupazione, anche i servizi pubblici – essenziali per i ceti medio-bassi – devono essere sacrificati all’austerità. Lo stato – la cui spesa è considerata sempre improduttiva, contro ogni ragionevole teoria economica – deve limitare le spese “improduttive” per scuole, sanità, trasporti pubblici, case popolari, pensioni, sussidi di disoccupazione. I salari “troppo alti” – dicono i rappresentanti della politica di austerità – sono causa di disoccupazione, perché esauriscono quello che gli economisti classici chiamavano il “fondo salari”.
Mattei fa lo spoglio minuzioso di un’enorme quantità di documenti (carteggi, giornali e periodici, rapporti e dichiarazioni ufficiali, studi accademici) e un gran numero di fonti storiche e teoriche. La sua fitta e precisa documentazione dimostra che la politica dell’austerità nasce proprio in quel periodo e rispunta poi ogni volta che si profila il “pericolo” di un maggiore benessere e di un più rilevante ruolo sociale dei ceti popolari. Le frasi di sintesi del libro sono icastiche e le dimostrazioni rigorose. Le politiche di austerità vengono esaminate minuziosamente in tutti i loro risvolti, versioni, protagonisti e strumenti.
È interessante la storia parallela di due regimi diversi, uno che resta democratico e l’altro che abbraccia il fascismo, ma dove i risultati economici sono abbastanza analoghi. In entrambi i casi la sfera dell’economia viene “depoliticizzata” e le decisioni economiche vengono sottratte al controllo democratico in nome della competenza e della “neutralità” delle istituzioni indipendenti. Il capitalismo viene presentato come il sistema naturale, che realizza il vantaggio di tutti, purché “tutti” (in pratica, i lavoratori) abbiano un comportamento virtuoso e risparmiatore. La concorrenza dev’essere lasciata libera di funzionare, senza richieste di aumenti salariali o di regolazione del lavoro che turbino il funzionamento del mercato.
L’austerità non si fa valere soltanto con gli ostacoli posti alle rivendicazioni salariali e con le politiche di bilancio. Essa ricorre anche alle imposte indirette, alle regole fiscali che avvantaggiano i più ricchi, e ancor più all’inflazione. Proprio l’inflazione, da una parte, viene usata per ridurre il potere d’acquisto dei ceti popolari, dall’altra è una prospettiva minacciosa usata per rafforzare l’austerità e bloccare le richieste di miglioramenti salariali.
Mattei spiega bene le tecniche per imporre la tecnocrazia. Per pretendere di essere neutrale, e quindi rappresentativo di tutti, lo stato e le sue istituzioni devono essere apolitici. Tra i fattori garanti della apoliticità, oltre all’inflazione, al fisco e alla difesa della concorrenza senza regole, c’è anche l’indipendenza delle banche centrali. Queste ultime svolgono il loro lavoro in difesa dell’austerità, cioè dello status quo, affermando la propria indipendenza dalle rappresentanze democratiche. Un altro strumento delle politiche di austerità è dato dalle restrizioni creditizie, giustificate col principio che bisogna frenare la tendenza dei lavoratori allo spreco, come affermò Hawtrey (p. 175).
L’operazione di mostrare come asettici tutti i fattori di governo dell’economia ovviamente investì anche la teoria economica. Qui ci limitiamo a segnalare la citazione fatta da Mattei di Maffeo Pantaleoni il quale, parlando delle “classi che hanno redditi minori” scrive che la loro “deficienza è causa del minor reddito e non già il minor reddito causa della deficienza” (p. 215). Lo stesso Pantaleoni afferma che la gente non capisce qual è il suo vero interesse e quindi bisogna tenerla lontana dalle decisioni economiche per il suo stesso bene (p. 287). È esattamente il contrario di quanto scrive Adamo Smith.

(la II parte sarà pubblicata lunedì 19 febbraio)

I genocidi non sono tutti uguali

24 Gen


di Cosimo Perrotta – 24-1-2024
Quest’anno alcuni gruppi politici vogliono far coincidere il 27 gennaio – Giorno della Memoria della Shoah – con la condanna dell’aggressione in corso a Gaza e la richiesta del cessate il fuoco. Con questa coincidenza essi vogliono rinfacciare a Israele di essere passato da vittima ad autore di un genocidio. In effetti per un numero crescente di persone a Gaza è in atto oggi un genocidio, e qualche ragione per dirlo forse c’è.
Ma sarebbe un grave errore e fonte di confusioni pericolose far coincidere la memoria della Shoah con altri episodi di massacro, per quanto efferati. Il genocidio è probabilmente il crimine più grave di tutti, e forse questo induce a pensare che ogni genocidio sia uguale all’altro, essendo tutti il massimo dell’ignominia. Purtroppo non è così; sembrerà cinico dirlo ma ci sono diversi gradi di gravità anche nel genocidio. Dopo il ripugnante eccidio di 1.300 innocenti perpetrato da Hamas, ci sono stati i crudeli bombardamenti sulla Striscia di Gaza, che hanno colpito tutti gli ospedali, molte scuole e chiese, hanno lasciato finora oltre 25mila civili uccisi, fra cui diecimila bambini (quelli conteggiati) e tanti altri, piccoli e grandi, con gli arti amputati, operati spesso senza anestesia, un milione di persone che soffre la fame e non sa dove rifugiarsi.
Sono stati uccisi oltre cento giornalisti palestinesi, gli unici testimoni del massacro, e oltre cento funzionari dell’ONU, gli unici agenti di soccorso esterno. L’attuale governo israeliano sta cercando in tutti i modi di cacciare con la violenza i palestinesi da Gaza e dalla Cisgiordania, la loro terra, imputando loro le colpe di Hamas in quanto palestinesi. Hanno persino distrutto consapevolmente gli archivi anagrafici, i casellari giudiziari, i catasti, in un annientamento delle persone che è peggiore della semplice uccisione.
Nonostante tutto questo, però, la Shoah è un’altra cosa; è il punto più basso dell’abiezione umana; è lo sterminio scientificamente pianificato di un popolo, gli ebrei, che avevano una sola “colpa”: essere ebrei, e in quanto tali erano considerati sotto-uomini. Perché? Erano meno obbedienti, meno intelligenti, più ostili verso i regimi di destra? Nient’affatto. Essi avevano il “sangue non-ariano”. Questa idiozia fu giustificata da alcuni biologi e antropologi privi di dignità negli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Essi si arrampicarono sugli specchi per spiegare che c’è una divisione fra razze superiori e inferiori. Non ci riuscirono, ma intanto 6 milioni – lo sappiamo tutti, ma ripetiamolo – sei milioni di innocenti, tra cui tantissimi bambini, furono uccisi per questo.
Accanto a loro furono uccisi altri uomini innocenti: sinti, rom, omosessuali, disabili, slavi; anch’essi considerati razze inferiori o persone degenerate. Ma nessuno fu oggetto di una persecuzione tanto feroce, accanita e sistematica quanto gli ebrei.
Ripetiamo anche questo: i nazisti pianificarono la raccolta di denti d’oro, abiti, e oggetti delle loro vittime (personalmente ricordo ancora nel lager di Theresienstadt l’enorme contenitore di scarpette dei bambini uccisi); fecero sapone o rivestimenti in pelle umana con molti dei cadaveri. Insieme con gli altri fascisti, sguinzagliarono per tutta Europa spie e delatori prezzolati e confiscarono i beni degli ebrei a vantaggio di chi li aggrediva o li accusava. Prima di ucciderli li sfruttavano per lavori pesanti, li umiliavano in tutti i modi, li torturavano o li sottoponevano a folli esperimenti medici; strapparono i bambini ai genitori; uccisero i non ebrei che nascondevano gli ebrei per solidarietà umana.
È per tutto questo che la Shoah è stata chiamata il male assoluto. Essa è stata la fine dell’innocenza (o presunta tale) del genere umano, e il suo ricordo è sacro. Nessuno dei tantissimi genocidi che conosciamo della storia passata e del presente si avvicina a questa disumanità totale. La Shoah deve rimanere distinta, come monito contro tutti gli episodi di disumanità perpetrati oggi.

Verso lo sviluppo umano e sostenibile; il faro e le onde

8 Gen


di Gianni Vaggi
Nel 1967 Papa Paolo VI scrive: “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Per l’inizio del terzo millennio, l’ONU vara i diciassette Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, OSS, raggruppati in cinque aree: Persone, Pianeta, Prosperità, Pace, Partenariato globale per lo sviluppo, le cinque P. Le ultime due aree comprendono un unico obiettivo, sedici e diciassette rispettivamente, ma con molti targets e indicatori. La sostenibilità ambientale entra compiutamente nell’idea di sviluppo nel 1987 con il Rapporto Brundtland, che ci fa ragionare in termini di rapporti fra le generazioni. Nel 1990 abbiamo il primo rapporto sullo sviluppo umano dell’ONU, con l’Indice di Sviluppo Umano, ISU, che allarga l’idea della qualità della vita degli esseri umani al di là degli indicatori economici ed in particolare si focalizza sul diritto alla salute ed all’istruzione.
La pace sembra sempre più lontana, lo sviluppo arranca. Con Marco Missaglia abbiamo provato a delineare un percorso verso lo Sviluppo Umano e Sostenibile, SUS: Introduzione all’economia dello sviluppo, Carocci 2022. Uso la metafora del faro, che nella sua cella luminosa include gli OSS, ma anche diritti umani, ecologia integrale, transizione ecologica, beni comuni e tutto quello che noi possiamo pensare essere in SUS.
Nella luce del faro ci sono soprattutto Persone e Pianeta: gli esseri umani e le risorse naturali. SUS non è una situazione di equilibrio, ma un processo che possiamo misurare con il trascorrere delle generazioni. Gli esseri umani della generazione successiva, Persone 2, dovrebbero avere più opportunità della generazione precedente: essere più istruiti, potersi muovere ed incontrare con maggio facilità e libertà. Stesso discorso per Pianeta 2: minor inquinamento, acqua più pulita disponibile per più esseri umani.
Il faro indica la direzione e avvisa dove c’è terra, ma la navigazione è condizionata dalle onde a dai venti, che sono le condizioni storiche, economiche e sociali in cui SUS si deve svolgere.
Queste strutture, sono anche vincoli, sono le sfide incluse nell’area Prosperità, quattro obiettivi che definisco ‘strutturali’. N. 8, crescita inclusiva piena occupazione lavoro decente; n. 9, infrastrutture resilienti e industrializzazione sostenibile; n.10 ridurre le diseguaglianze all’interno e fra le nazioni; n. 12 modelli di consumo e produzione sostenibili.
Anche gli altri obiettivi implicano un cambiamento delle strutture economiche, ma questi quattro le affrontano direttamente. Negli ultimi decenni, e forse soprattutto nell’ultimo, le acque sono state molto agitate e spesso i venti non hanno soffiato nella direzione indicata dal faro. Siamo a metà della navigazione verso il 2030 e il Global Sustainable Development Report 2023 dell’ONU è molto pessimista sul fatto che la nostra nave abbia la velocità giusta per conseguire gli OSS; quasi tutti gli obiettivi dovranno essere spostati più in là o forse modificati.
Nel 1662 Sir William Petty scrive: “Il Lavoro è il Padre e principio attivo della Ricchezza, come le Terre sono la Madre”: Persone e Pianeta. Certo lui si occupava di ricchezza e non di sostenibilità, ma sottolineo l’espressione principio attivo, cioè la responsabilità che è degli esseri umani di organizzare se stessi e utilizzare le risorse naturali. Questo ci porta agli ultimi due OSS, che di fatto si riferiscono a chi conduce la nave e come la conduce. Chi decide la rotta e la velocità? Il partenariato globale per lo sviluppo è l’ultimo obiettivo, il 17, che comprende aree quali Finanza, Tecnologia, Commercio. Tre elementi che condizionano non solo la navigazione verso il faro, ma la società futura: come saranno Persone 2 e Pianeta 2? Chi decide quanto e come investire? Quali settori e aspetti dell’economia favorire e quali scoraggiare? Questo ci porta ad una sesta P, quella di Potere, che non compare direttamente negli OSS 16 e 17, ma che è inevitabile affrontare. Ci sono enormi squilibri nel potere economico e politico fra paesi e all’interno dei paesi. Un modesto criterio per valutare la nostra navigazione è quello del ribilanciamento di questi poteri così diversi. Tutti gli stakeholders hanno ‘voce in capitolo’? Partecipano davvero alle decisioni sulla tecnologia? Sul come scoraggiare o incoraggiare stili di consumo e produzione sostenibili? Sul come e quanto dedicare alla navigazione verso SUS dei trilioni di dollari di fondi che si muovono nella finanza internazionale? Le sfide di Partenariato e Pace saranno con noi ancora a lungo ben oltre il 2030. Forse sono utopie, ma le alternative sono terribili. Vale la pena continuare a cercare di orientare la nave verso il faro.

Libertà per Öcalan. Soluzione politica per il Kurdistan

19 Dic

del Comitato di sostegno a Öcalan [fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan] – ottobre 2023 – DOCUMENTO

Nel corso del 2023, specialmente in seguito alla rielezione di Recep Tayyip Erdoğan alla carica di Presidente della Repubblica di Turchia, è iniziata una nuova escalation del conflitto tra Turchia e popolo curdo. Da gennaio a settembre l’esercito turco ha effettuato solo nella Siria del Nord-Est/Rojava 51 attacchi con droni che hanno ucciso 65 persone e ne hanno ferite gravemente 54, l’ultimo su un’auto del canale televisivo locale a guida femminile JinTV. Agli attacchi di droni vanno sommate le continue incursioni e gli attacchi indiscriminati di artiglieria quotidianamente lanciati dall’esercito turco e dai gruppi jihadisti alleati sulle città di confine. Nella regione del Kurdistan in Iraq l’esercito turco ha stabilito più di 150 basi militari illegali in aree occupate durante l’invasione in corso dal 2017. In aggiunta, l’intelligence turca è responsabile di decine di esecuzioni extragiudiziali in territorio iracheno ai danni di politici e attivisti curdi in esilio.

Da 29 mesi non ci sono notizie sullo stato di salute di Abdullah Öcalan [Öchala’n] e delle altre tre persone detenute nella stessa struttura: Ömer Hayri Konar, Veysi Aktaş e Hamili Yıldırım. Il 25 marzo 2021 in seguito ad un’ondata di preoccupazione dell’opinione pubblica è stata concessa una telefonata ad Abdullah Öcalan da parte di suo fratello Mehmet Öcalan. Prima di allora l’ultima visita da parte dei familiari risale al marzo 2020 e l’ultimo colloquio con i suoi avvocati all’agosto 2019. Le visite degli avvocati vengono impedite con motivazioni futili tra cui continue sanzioni disciplinari applicate arbitrariamente ad Öcalan e presunti problemi tecnici che impedirebbero l’accesso all’isola.

Le condizioni di isolamento prolungato dei prigionieri di Imrali violano apertamente le regole minime standard delle Nazioni Unite per il trattamento dei prigionieri nonché lo stesso codice penale della Repubblica di Turchia. Il Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti del Consiglio d’Europa (CPT), unica istituzione in grado di visitare Imrali senza chiedere permessi, non ha reso pubblici i dettagli della sua ultima visita ad hoc alla prigione di Imrali tra il 20 e il 29 settembre 2022, nonostante i numerosi appelli degli avvocati di Öcalan.

All’età di 74 anni, Abdullah Öcalan ha trascorso 24 anni in prigione, quasi un terzo della sua vita. Durante la detenzione, Öcalan ha redatto numerosi scritti difensivi e documenti per i tribunali nazionali ed europei, tradotti e pubblicati in diverse lingue. Questi scritti hanno portato alla creazione di una nuova filosofia politica denominata “Confederalismo Democratico”, attualmente applicato nel Nord-Est della Siria e in diverse altre aree a maggioranza curda. Il popolo e le associazioni curde a seguito di questi eventi hanno deciso di lanciare contemporaneamente in oltre 70 città in tutto il mondo una campagna internazionale per rompere l’isolamento su Abdullah Öcalan.


LE PUBBLICAZIONI RIPRENDERANNO LUNEDI’ 8 GENNAIO

BUONE FESTE A TUTTI

Il lavoro nelle Costituzioni democratico-sociali*

11 Dic


di Maurizia Pierri
La Costituzione italiana, insieme a quelle di Grecia, Germania, Spagna e Portogallo, fa parte, secondo il diritto comparato, del ciclo costituzionale democratico–sociale, che è successivo alla seconda guerra mondiale ed è caratterizzato dall’espansione della tutela dei diritti sociali. La forma di Stato delineata da questo ciclo costituzionale, è il Welfare State. A differenza dello Stato liberale, il Welfare State si preoccupa dei bisogni sanitari, assistenziali, scolastici e abitativi espressi dalla collettività, erogando prestazioni in precedenza fornite da enti privati. La giustificazione dell’impiego di risorse pubbliche per coprire i costi degli interventi statali è di dare attuazione concreta al principio di uguaglianza sostanziale, che è riconosciuto in tutte le costituzioni del ciclo democratico-sociale. Tale principio impone, non una asettica equidistanza delle legge rispetto ai singoli, ma un intervento pubblico affinché vi sia “pari dignità” tra le persone e siano rimosse le situazioni che impediscono lo sviluppo della persona, uti singulus e uti socius (come singolo e come associato). Tra i diritti sociali, fondamentale è il lavoro, attraverso il quale la persona si sente parte attiva dell’ordinamento sociale e giuridico, e ottiene inoltre i mezzi per assicurare a sé ed alla sua famiglia una vita dignitosa. Il legame tra lavoro e dignità è intenso ed è riconosciuto anche da norme del diritto internazionale: dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alle Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del Lavoro, dalla Carta sociale europea al Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, e alla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali. In tutti questi documenti emerge il principio che “ogni individuo ha diritto a una remunerazione equa e soddisfacente, che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana”.
Anche a livello statale il diritto al lavoro è inteso come esigenza fondamentale ed è presente nei testi delle Costituzioni democratico-sociali. Particolarmente significative sono le disposizioni della Costituzione portoghese. Ma anche la Costituzione italiana dedica particolare enfasi al tema del lavoro e, in particolare, della retribuzione, frutto di un dibattito serrato avvenuto in Assemblea costituente. Per di più la Costituzione italiana si caratterizza per il suo “personalismo”, ossia per il suo essere costruita intorno al concetto di persona (da tener distinto da quello di “individuo”). L’influenza del magistero sociale cattolico emerge in filigrana nella formulazione degli articoli dedicati al lavoro. Nell’art. 36 è scritto che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Nella Evangelii Gaudium il lavoro viene definito come la attività in cui “l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita. Il giusto salario permette l’accesso adeguato agli altri beni che sono destinati all’uso comune”.
Il tema del salario è dunque centrale nella realizzazione del diritto sociale al lavoro ed effettivamente il senso da attribuire alla formula dell’art. 36 ha impegnato la dottrina e la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, compresa la legittimità costituzionale. Sintetizziamo i termini del dibattito. Intanto si è riconosciuto che quell’impegno ha forza di precetto, tanto che si sono utilizzati i parametri della contrattazione collettiva per estenderli, in via giurisprudenziale, ai settori privi di tutela. Poi il contenuto dell’articolo è stato coordinato con quello dell’art. 39, che prevede la contrattazione collettiva dei sindacati riconosciuti. Infine si è escluso che il livello del salario rientri obbligatoriamente nella contrattazione collettiva (sentenza della Corte costituzionale n.106/1962). Dunque sarebbe possibile imporre un salario minimo legale per dare attuazione alla prescrizione costituzionale che impone di retribuire il lavoratore “in ogni caso … in modo sufficiente ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Il tema del salario minimo (che in molti Paesi europei è stato inserito con legge) è tornato prepotentemente alla ribalta negli ultimi anni, con l’emergere del problema del lavoro “povero”, spesso collegato ad una condizione di precarietà contrattuale e sociale. Ne sono colpite infatti le categorie più deboli, donne e migranti, gli occupati nei servizi alle famiglie e nei lavori agricoli ed edilizi; settori in cui si registra (i dati sono ministeriali) un alto tasso di lavoro irregolare e privo di tutele.
Lo scenario della realtà odierna è sconfortante e denuncia il fallimento della funzione fondamentale che la Costituzione assegna al lavoro, quello di emancipare la persona dal bisogno e di realizzare la sua progettualità di vita, come singolo e come parte di una comunità.

  • Questa è la sintesi della relazione tenuta dalla prof.ssa Pierri per i seminari di Humasnfirst “I Venerdì di Diogene” (marzo 2023).

L’Europa fa annegare i lavoratori che le servono

4 Dic


a cura di Piero Rizzo – Commenti esteri n° 74

L’articolo di questo mese pubblicato dall’Economist il 4 ott. u.s. suona come severa critica alla politica europea sulla migrazione. In quest’ultimo periodo il tema è tornato in prima linea perché il numero dei migranti è in notevole aumento.
Un’ondata di piccole imbarcazioni sta arrivando sulle coste meridionali dell’Europa, piene di migranti disposti a lavorare, ad esempio svolgendo lavori poco qualificati nel settore edile o assistendo gli anziani. … Oggi l’Europa registra una crescente carenza di lavoratori, soprattutto nei settori poco qualificati come l’edilizia o la cura degli anziani. Per alcuni, ciò potrebbe suggerire una soluzione tanto complessa quanto inserire l’ultimo pezzo in un puzzle. Purtroppo, la migrazione non è suscettibile di tale ragionamento. I paesi hanno confini per buone ragioni; i bisogni economici sono spesso asserviti agli imperativi politici. Tuttavia, il risultato finale è che l’Europa sta stupidamente schierando, da una parte, recinzioni di filo spinato e, dall’altra, striscioni con la scritta “si cercano lavoratori”. Nel frattempo, migliaia di persone stanno annegando mentre cercano di raggiungere un paese che potrebbe presto rendersi conto di aver bisogno di loro.
Quindi, ahimè, la migrazione è tornata in prima linea nella politica europea. L’UE è sulla buona strada per ricevere oltre 1 milione di domande di asilo quest’anno, il numero più alto dopo l’ondata di arrivi nel 2015-2016. Allora, nel mezzo dei disordini in Afghanistan e Siria, l’atmosfera era piuttosto accogliente: Angela Merkel, la cancelliera tedesca, aveva dichiarato, sulla scia del grande afflusso di migranti, che “Wir schaffen das”, possiamo farcela. Ora l’Europa non ha più la sensazione di potercela fare così tanto. Che siano liberali o conservatori, settentrionali o meridionali, la sensazione degli europei è di un continente ai suoi limiti. Milioni di ucraini in fuga dalla guerra nell’UE hanno messo a dura prova risorse – e simpatia – che avrebbero potuto andare a chi veniva da più lontano. I paesi che hanno accolto molti migranti nel 2015 non se la sono cavata bene: la Svezia sta chiamando l’esercito per aiutare ad affrontare un’ondata di violenza tra bande, in gran parte legata al suo confine precedentemente poroso. I populisti che odiano i migranti sono aumentati, lì come in Germania.
Se c’è una cosa che unisce i politici dell’UE, è la certezza che una politica mal riuscita sull’immigrazione costerà loro la carriera. Il continente soffre comunque di antiche divisioni. I paesi dell’Europa meridionale come l’Italia e la Grecia lamentano di sostenere il peso maggiore delle norme dell’UE, che costringono i paesi di arrivo dei migranti a sostenere le spese per la selezione, anche se la maggior parte dei migranti vuole finire in luoghi come Germania e Svezia. Quei paesi ricchi pensano che i meridionali stiano infrangendo le regole non intercettando i migranti mentre mettono piede nell’UE. Una soluzione discussa per anni è un grande patto paneuropeo, in base al quale i paesi al di là delle prime linee della migrazione accettino di accogliere alcuni migranti fra le masse che si accalcano. Un accordo del genere è stato siglato a giugno e continua a essere oggetto di contrattazioni. Ma sotto il peso dei nuovi arrivi sembra traballare. Un altro elemento è stato l’accordo con la Tunisia, che molti migranti, da tutto il mondo, utilizzano come trampolino di lancio prima di attraversare il Mediterraneo verso l’Europa. In sostanza, il regime autocratico del paese doveva essere “comprato” con i contanti dell’UE per scoraggiare i trafficanti che utilizzavano le sue coste. Un accordo simile con la Turchia ha contribuito a contenere il flusso nel 2016. Ma anche questo non funziona bene.

Brevi considerazioni
Leggendo l’articolo ci sono venute in mente le parole del Manzoni: il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune. L’approccio all’annoso problema della migrazione è sempre quello dell’Europa “fortezza”: erezione di muri o di barriere in filo spinato dotato di lame di rasoio, pattugliamento delle coste del Mediterraneo, “blocco navale”, accordi tipo quello con la Turchia e così via. Ebbene, la conclusione dell’articolo è che in un prossimo futuro l’Europa potrebbe essere indotta a cercare più o meno lo stesso numero di persone che oggi lascia annegare. Già oggi in tutti i pesi europei c’è una drammatica carenza di lavoratori qualificati e non, mentre i permessi di lavoro vengono concessi col contagocce. Fino a quando parole come invasione, sostituzione etnica, perdita di identità faranno ancora breccia sull’opinione pubblica e saranno al centro di propaganda elettorale, non c’è molto da sperare. Sentiremo parlare ad nauseam di superamento dell’accordo di Dublino, di accordi di ricollocamento e così via.

https://www.economist.com/europe/2023/10/04/europe-is-stuck-in-a-need-hate-relationship-with-migrants

Lo “stato d’eccezione” di Israele

13 Nov


di Eyal Sivan

IL DOCUMENTO – Dall’intervista di Cristina Piccino a Eyal Sivan dal titolo “Se Israele è un modello, la democrazie mi fa paura”, il manifesto, 7-11-2023. Eyal Sivan, Haifa 1964, è regista, saggista e docente di cinema. Israeliano ebreo, risiede in Francia.

L’innocenza assoluta
Dice Sivan: “La cosa più terribile è che in questo processo non c’è nulla di nuovo. A volte ho l’impressione che tutto è stato detto. Il gesto dell’ambasciatore israeliano di presentarsi all’Onu con la stella di David sul petto conferma questa convinzione. Si vuole dimenticare che quanto è accaduto lo scorso 7 ottobre non inizia in quel momento e utilizzare la dialettica della Shoah per inquadrarlo è una profanazione verso la memoria della Shoah stessa che, ridotta a terrorismo, viene denigrata. Lo trovo un insulto come essere umano, come ebreo, nei confronti della mia storia famigliare. Strumentalizzare la Shoah per giustificare qualsiasi atto rimanda a quella ideologia della vittima, fortemente consolidata nella nostra società, seconda la quale quando si è vittime ci si trova nella posizione di una ‘innocenza assoluta’ – che di per sé non esiste. … Noi, perché vittime della Shoah possiamo permetterci tutto, anche bombardare un campo di rifugiati, gli ospedali, le scuole – ‘l’innocenza totale’ di cui godiamo ci assolve. Tale visione è appunto una profanazione della memoria e una forma di revisionismo. Se Hamas sono nazisti, allora l’Olocausto, il nazismo diventano un atto terrorista? Che dire dei milioni di persone sterminati dall’ideologia hitleriana?. L’Europa accetta questa retorica sul nazismo perché è un buon modo con cui sottrarsi alle proprie responsabilità: considerare l’Olocausto terrorismo ci dice che in fondo non è stato così grave uccidere tutti gli ebrei europei. E l’unicità storica della Shoah viene meno”. …
“Ma gli israeliani sono ‘condannati’ a vivere coi palestinesi, anche se continuano in questo massacro di massa – con un numero di palestinesi uccisi spaventoso che viene sempre più avvicinato a un’idea di genocidio”. “I governi di destra, liberal-conservatori europei giocano col fuoco: c’è un pericolo concreto di importare questo conflitto all’interno dell’Europa che è già caratterizzata da politiche repressive contro l’immigrazione, dall’islamofobia.”
“Definire ogni critica alla politica israeliana come antisemira rimanda ancora una volta a questo ‘stato d’eccezione’- assai ambivalente – di cui Israele beneficia. Dai bombardamenti su Gaza del 2007 alle aggressioni dei coloni che hanno causato molti morti, il mondo intero ha lasciato fare, contro ogni diritto internazionale. Israele gode della facoltà di agire senza limiti , proprio in virtù di quello ‘stato d’eccezione’: ciò che per gli altri vale per loro non esiste.”

Democrazia, ma non per tutti
Alla domanda sul documetno del governo israeliano circa l’espulsione dei gazawi nel Sinai, Sivan risponde: “Quel documento risulta redatto il 3 ottobre e rispecchia la politica israeliana dal 1948, che si sintetizza in un massimo di terra e un minimo di popolazione araba. La differenza oggi è che con l’arrivo al governo della destra più radicale finalmente – come dicono – possono finire il lavoro non fatto nel ’48. È il grande sogno, o l’illusione di espellere i palestinesi dalla coscienza collettiva – una cosa che peraltro è già in atto da quando Gaza è diventata una prigione a cielo aperto, da quando sono stati eretti muri che eliminano milioni di palestinesi dallo spazio comune nella percezione israeliana come in quella europea.”
“La contestazione interna [contro la riforma voluta da Netanyhau] non è mai stata contro l’occupazione o lo stato di guerra, non ha mai espresso critiche per i duecento morti in Cisgiordania quest’anno o per i pogrom dei coloni [cioè fatti dai coloni]”. “In fondo quella contestazione – nella quale non ho mai creduto – era più estetica che strutturale: si battevano per la democrazia ma per gli ebrei, non per tutti, per poter continuare a godere dei propri privilegi.”
“Anche il Sudafrica era una democrazia ma solo per i bianchi. In tutto questo c’è una questione razzista molto forte. Lo ha provato la mobilitazione mondiale per gli ucraini a fronte di un silenzio assordante verso i siriani e tanti altri massacri compiuti nel nostro mondo. Quindi la democrazia è oggi soltanto una questione di bianchi, di occidentali, ed è stata completamente svuotata del suo significato di eguaglianza? Lo stesso vale per Israele: la democrazia è riservata agli ebrei e la metà della popolazione di Israele – gli arabo-israeliani – non la conosce, non ha diritto di voto, diritti civili, subisce una costante discriminazione. Se questo per l’occidente è un modello di democrazia mi fa molta paura. Vuol dire che l’idea di una nuova democrazia europea poggia sul razzismo, sulle diseguaglianze, su uno stato d’eccezione che permette di tenere la gente in prigione senza processo o di entrare di notte nelle case senza ragione.”