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Il disastro climatico di Sharm-el-Sheik

21 Nov


La Conferenza Cop27 sul clima si è chiusa il 20 novembre col buon proposito dei paesi ricchi di risarcire i paesi poveri colpiti dalle catastrofi climatiche (nel 2009 si erano impegnati a risarcirli con mille miliardi di $ l’anno, impegno mai mantenuto). Ma la Conferenza non ha preso nessuna decisione sulla riduzione delle emissioni da fonti di energia fossili che provocano quei disastri (l’Arabia Saudita ha impedito persino che si menzionassero le fonti fossili).
Per denunciare questo terribile fallimento, riportiamo qui l’articolo di Luca Martinelli, “Risorse finite, da adesso consumiamo come due pianeti”, uscito in occasione dell’Earth Overshoot Day su il manifesto del 29.07.2022:
“L’Earth Overshoot Day segna il più grande sfruttamento ecologico dall’inizio degli anni ’70.
Ieri è arrivato, puntuale, l’Earth Overshoot Day: il 28 luglio – secondo i calcoli del Global Footprint Network – è stato il giorno in cui sono finite le risorse naturali per il 2022, segnando il più grande deficit ecologico da quando il mondo è entrato nel sovrasfruttamento delle risorse, all’inizio degli anni Settanta: l’umanità ad oggi utilizza l’equivalente di quasi due pianeti, «1,75 Terre». Quest’anno, ben 156 giorni separano il Giorno del sovrasfruttamento della Terra dalla fine dell’anno.
L’Italia, poi, è tra i Paesi in cui l’overshoot day arriva ancora prima della data globale: quest’anno è stato il 15 maggio. Non devono quindi stupirci le ondate di calore anomale, gli incendi, la siccità e le inondazioni sempre più frequenti, perché sono tutti «sintomi» di questo sovrasfruttamento che ha portato ad un declino della biodiversità, a un eccesso di gas serra nell’atmosfera e a una maggiore competizione per l’energia e le risorse alimentari, secondo l’organizzazione. Le conseguenze – secondo Global Footprint Network – sono già visibili: più di 3 miliardi di persone vivono in Paesi che producono meno cibo di quanto ne consumano e generano meno reddito della media mondiale e hanno quindi una capacità alimentare inadeguata ed un enorme svantaggio nell’accesso al cibo sui mercati globali.
Allargando il discorso a tutte le risorse, il numero di persone esposte alla doppia sfida – economica ed ambientale – sale a 5,8 miliardi di persone. «La sicurezza delle risorse naturali sta diventando un parametro essenziale della forza economica. Non c’è alcun vantaggio nel temporeggiare. Piuttosto, è nell’interesse di ogni città, azienda o Nazione proteggere la propria capacità di operare in un futuro inevitabile di maggiori cambiamenti climatici e scarsità delle risorse» ha spiegato il fondatore del Global Footprint Network, Mathis Wackernagel. È tempo di invertire la tendenza al sovrasfruttamento: «Farlo porterà vantaggi economici a coloro che guideranno il cambiamento».
Alcuni esempi: dimezzare gli sprechi alimentari a livello globale farebbe spostare la data dell’Earth Overshoot Day di 13 giorni, migliorare le infrastrutture ciclabili urbane in tutto il mondo, in linea con gli standard che attualmente troviamo nei Paesi Bassi, ha il potenziale di far spostare la data dell’Earth Overshoot Day di 9 giorni, produrre energia con eolico on- shore a costi competitivi, come avviene in Danimarca e Germania, ha il potenziale di far spostare la data dell’Earth Overshoot Day di almeno 10 giorni.
Quest’anno la giornata è stata celebrata in Ecuador, dal ministro dell’Ambiente, dell’Acqua e della Transizione Ecologica, Gustavo Manrique: «L’Earth Overshoot Day dimostra che l’attuale modello economico, basato su produzione e consumo, non è compatibile con l’intenzione di continuare ad abitare questo Pianeta. Per proteggere meglio le risorse naturali del nostro Pianeta e gestire la nostra domanda su di esse, è necessario intraprendere azioni concrete e congiunte volte ad un nuovo modello di sviluppo basato sulla sostenibilità e sulla rigenerazione. Dall’Ecuador chiediamo al mondo di impegnarsi per questa causa» ha detto Manrique.
Un elemento chiave è l’azione che dovrà esercitarsi a livello urbano: «Le città rappresentano la chiave per la trasformazione. Quito per la conservazione delle aree protette, Santiago del Cile per il numero di autobus elettrici o Bogotà per le piste ciclabili dimostrano come i governi locali diano alle loro città maggiori possibilità di avere un futuro solido» afferma Sebastian Navarro, segretario generale di CC35, la Coalizione delle Città capitali delle Americhe per la lotta al cambiamento climatico. Un cambiamento di rotta è necessario: ritardando l’Earth Overshoot Day di 6 giorni ogni anno, l’umanità riuscirà a rientrare al di sotto dei limiti di un pianeta prima del 2050. Per seguire il percorso ideale, quello definito dello scenario IPCC 1,5°C, dovremmo invece spostare la data di 10 giorni all’anno. Una sfida che l’umanità deve raccogliere, ora. Perché il perdurare da 50 anni di questa situazione di sovrasfruttamento delle risorse naturali significa che i deficit annuali si sono accumulati in un debito ecologico pari a 19 anni di rigenerazione del Pianeta”.

Luca Martinelli

Petrolieri e genocidi

17 Ott


“Survival International” la Ong che difende i popoli aborigeni e diffonde informazioni sulle numerose persecuzioni a loro danno, ha mandato ai suoi sostenitori questa lettera il 12 ottobre 2022:
Nel 1542 Francisco de Orellana, conquistatore spagnolo, guidava una spedizione nelle vicinanze del fiume Napo, in Perù, alla ricerca di oro e altre risorse naturali. La spedizione portò con sé morte, saccheggi e malattie fino a quel momento sconosciute. 
A quel tempo, la regione amazzonica era abitata da 5 milioni di persone; nel 1700 la sua popolazione si era ridotta a 2 milioni fino ad arrivare, nel 1980, a meno di 200.000 unità. Insieme a quelle vite, scomparvero anche secoli di conoscenze ecologiche, di farmacopee, cosmovisioni, modi diversi di pensare, sentire e interpretare il mondo. 
L’invasione europea fu l’inizio di un genocidio, a volte intenzionale, condotto attraverso violenze, schiavitù e invasioni, altre volte silenzioso attraverso la trasmissione di malattie e l’acculturazione forzata. 
Nel 2022 François Perrodo dirige Perenco, una compagnia anglo-francese fondata e dii proprietà della famiglia miliardaria Perrodo. Da anni è attiva nella foresta pluviale del Perù settentrionale, tra i fiumi Napo e Tigre, nonostante all’interno delle aree su cui ha una concessione petrolifera, note come Lotto 67 e 39, sia stata confermata la presenza di popoli incontattati come gli Aewa, i Taushiro, i Tagaeri, i Taromenane e i Záparo. 
Da vent’anni le organizzazioni indigene del Perù lottano affinché l’area, nota come Napo-Tigre, sia protetta come Riserva Indigena per le tribù incontattate. Innumerevoli studi hanno confermato la presenza di questi gruppi e, nel luglio di quest’anno, una Commissione ufficiale ne ha riconosciuto formalmente l’esistenza – un passo fondamentale per garantire la loro protezione. 
Ma la Perenco considera la creazione della riserva una minaccia per le sue attività e ha messo in atto una campagna senza precedenti per sovvertire questo processo. 
Ha presentato un’istanza formale per chiedere alle autorità di cancellare i piani di creazione della riserva e ha persino insistito per partecipare agli incontri della Commissione che deve decidere se proteggere o meno il territorio. Ha inoltre esplicitamente negato la presenza di popoli incontattati nell’area.

Oggi, 500 anni dopo, le invasioni e il genocidio continuano.

Le trivellazioni petrolifere nei territori delle tribù incontattate mettono a rischio la sopravvivenza stessa di questi popoli. Oltre alla distruzione e all’inquinamento della foresta, e al rischio concreto di incontri violenti, l’afflusso nell’area dei lavoratori petroliferi può introdurre malattie verso cui le tribù non hanno difese immunitarie e che potrebbero sterminarle completamente. 
Perenco ha ignorato le proteste e le lettere inviate dalle organizzazioni indigene del Perù, dai gruppi a loro sostegno e da Survival International. 
Solo una grande campagna internazionale potrebbe convincerla a cambiare atteggiamento scongiurando un genocidio. E allora, per favore, scrivi al presidente di Perenco, Francois Perrodo, per sollecitare la compagnia a smettere di attaccare i diritti dei popoli incontattati della regione peruviana Napo-Tigre.
Oggi è il 12 ottobre, la data che ha segnato l’inizio dell’invasione delle Americhe e il genocidio di milioni di indigeni. Attivati per evitare che la storia si ripeta.

Francesca Casella
Direttrice di Survival per l’Italia”

La lettera chiede di mandare una mail al presidente di Perenco e chiedergli di rinunziare alle trivellazioni nel territorio delle tribù non contattate. Chi vuole farlo, cerchi il sito di Survival: https://intervieni.survival.it/page/114867/action/3

UE: un trattato “preistorico e tossico” sull’energia

23 Mag


di Giulio (Roma), Rachel (Amsterdam) e tutto il team WeMove Europe


Questa mattina ci troviamo davanti agli uffici dei Commissari europei con un dinosauro gigante [artificiale] che rappresenta un trattato preistorico e tossico sui combustibili fossili. Questo trattato costituisce un pericolo per il clima e dovrebbe appartenere al passato. Le aziende di estrazione del petrolio o di combustione del carbone sfruttano questo trattato pericolosissimo per portare in tribunale i governi che li ostacolano (1).
Si tratta di una minaccia per i nostri governi che cercano di intraprendere la strada della transizione verso il consumo di energie più pulite. Questa minaccia potrebbe costare agli europei oltre 7 miliardi di euro (2).
L’azienda Rockhopper, attiva nei settori di gas e petrolio, chiede 260 milioni di Euro agli italiani per aver vietato nuovi giacimenti petroliferi lungo la sua costa. Ascent chiede 120 milioni ai contribuenti sloveni per aver dato priorità all’ambiente anziché al fracking del gas. Vattenfall ha portato in tribunale i cittadini tedeschi chiedendo 4,3 miliardi di Euro in seguito alla decisione di abbandonare il nucleare. E i cittadini olandesi dovranno pagare 2,4 miliardi di Euro a RWE e Uniper per aver deciso di abbandonare il carbone!
Nelle prossime settimane, i leader europei concluderanno i dibattiti sul futuro di questo trattato. Questa è la nostra possibilità di accantonarlo una volta per tutte. Ma i nostri leader stanno subendo pressioni forti delle aziende che potrebbero trarne vantaggio.
I nostri sforzi stanno cominciando a dare i loro risultati. Abbiamo inondato le caselle di posta dei ministri per l’energia e convinto gli europarlamentari (3). Ora è il Commissario europeo in carica a dover dare ascolto alle nostre voci.
Questa mattina, insieme ai nostri partner, ai membri della nostra comunità …, ci siamo riuniti in massa davanti agli uffici dei Commissari. …
Contattando subito i Commissari, non potranno ignorare il messaggio che arriva dentro e fuori dai loro uffici! Aiutaci a rafforzare il nostro appello e chiedere ai Commissari di dire no a questo trattato tossico!
Questo dinosauro è artificiale, proprio come il trattato sui combustibili fossili. È un mostro fatto di oggetti prodotti dai combustibili fossili: un’auto al posto della mandibola e un camion per il trasporto dei combustibili al posto della coda. Un ricordo del passato recente quando i governi tuttavia negavano la crisi climatica.
In tutta Europa, la gente sta portando questo mostro a forma di dinosauro nelle piazze. Stanno dicendo ai leader che loro credono in un futuro in cui la salute del clima e di tutti gli esseri viventi è più importante dei profitti di qualche grande multinazionale.
Questa non è la prima volta che la nostra comunità si riunisce per ricordare alla Commissione Europea di dare priorità all’urgente crisi climatica. Lo scorso anno abbiamo attirato l’attenzione del Commissario per gli oceani con un libriccino per proteggere gli oceani. Inoltre, abbiamo fatto di tutto per assicurare che i funzionari della Commissione vedessero il nostro messaggio per porre fine all’allevamento industriale mettendolo in evidenza sui social media, in strada e nelle loro caselle di posta elettronica.
I leader di Spagna, Germania, Repubblica Ceca e Austria hanno già visto il mostro-dinosauro che simboleggia la minaccia del nostro futuro (4).
Unita, la nostra comunità ha la forza necessaria per fare in modo che la Commissione non possa ignorare il nostro messaggio.

(1) Si chiama Trattato sulla Carta dell’Energia (Energy Charter Treaty, ECT) https://energy-charter-dirty-secrets.org
(2) Vedi https://energy-charter-dirty-secrets.org/#section5https://friendsoftheearth.eu/press-release/uk-fracking-company-sues-slovenia-over-environmental-protection/https://www.investigate-europe.eu/en/2021/ect/https://www.euractiv.com/section/energy/news/energy-charter-treaty-strikes-again-as-uniper-sues-netherlands-over-coal-phase-out/https://www.euractiv.com/section/energy/news/germanys-rwe-uses-energy-charter-treaty-to-challenge-dutch-coal-phase-out/
(3) https://www.endseurope.com/article/1698206/meps-call-eu-withdraw-energy-charter-treaty-renegotiations-fail
(4) https://www.publico.es/sociedad/politica-transicion-energetica-catalunya-suspende.htmlhttps://taz.de/Umstrittener-Vertrag-ueber-Energiecharta/!5847799/

(We Move Europe 17 maggio 2022)

La transizione ecologica motore del pieno impiego

16 Mag

di Cosimo Perrotta

Oggi ci sono nel mondo due urgenze gravi: accrescere l’occupazione e risanare l’ambiente. L’unico modo per farvi fronte è di fare grandi investimenti pubblici per creare lavoro diretto a risanare l’ambiente.

La disoccupazione dilaga. Nei paesi OCSE è al 7,5%; a cui vanno aggiunti: i NEET, che non studiano né lavorano (tra 20 e 40% nei paesi in via di sviluppo; 13,6% in Italia); le casalinghe involontarie; gli assistiti in vari modi. Sono in tutto tra il 25 e il 40% degli occupabili. Non è vero quindi, come afferma la teoria ufficiale, che la disoccupazione consista in scompensi temporanei del 3-5% dei lavoratori.

La teoria afferma anche che causa della disoccupazione è la mancanza di concorrenza: senza vincoli salariali e con libertà di licenziare non ci sarebbe disoccupazione, perché l’incontro di offerta e domanda di lavoro sarebbe completo.

In realtà avviene il contrario. La larga disoccupazione è favorita proprio dalle imprese, che grazie ad essa possono abbassare i salari e sfruttare gli occupati (1). Da ciò deriva la gig economy: salari bassissimi, part time, contratti a termine, falsi autonomi, lavoro nero, morti crescenti sul lavoro, aumento dei ritmi di lavoro.

Disoccupazione e gig economy hanno quindi la stessa causa, cioè lo squilibrio permanente tra offerta di beni (delle imprese) e domanda di beni (dei consumatori). La domanda è debole a causa dei troppi lavoratori disoccupati o mal pagati. E’ quindi il dominio assoluto delle imprese a creare disoccupazione e crisi, che alla lunga nuocciono anche alle stesse imprese.

Si è creato infatti un circolo vizioso per cui la bassa domanda (dovuta a disoccupazione e bassi salari) fa calare gli investimenti; questo calo accresce la disoccupazione, e ciò abbassa ancor più la domanda. Lo stesso circolo vizioso si produsse cento anni fa, generando la crisi della democrazia, la caccia ai capri espiatori (razzismo), le dittature, la corsa alle armi, i nazionalismi.

Questi processi derivano dalla volontà di sfruttare senza limiti il lavoro. Nelle democrazie sono veicolati dalla politica dell’austerity, secondo cui bisogna contenere la spesa pubblica tagliando i servizi sociali (considerati improduttivi) e finanziando le imprese (che sarebbero sempre produttive), privatizzare i servizi pubblici, e imporre tasse regressive (che pesano sui redditi più bassi).

C’è quindi un flusso costante di ricchezza che va da salari e spesa sociale verso rendite e profitti improduttivi. Questo flusso crea il debito passivo, che alimenta le rendite.

Ma c’è anche un debito “attivo”, quello keynesiano, che si crea investendo nei servizi sociali e nel capitale umano. Questo alza la domanda e ricostituisce la convenienza a investire. In Italia troviamo la grande intuizione di una politica di spesa sociale nella Costituzione. Essa parla di “rimuovere gli ostacoli” che limitano la libertà e l’uguaglianza” (art. 3) e di “diritto al lavoro” che bisogna rendere effettivo (art. 4).

Non è vero che queste politiche sacrificano la concorrenza e la libertà del mercato. Per la teoria dominante tutta l’economia moderna sarebbe un attentato alla libertà economica: la politica per il pieno impiego, i sindacati, la spesa sociale di ogni genere. In realtà non sono state queste politiche a creare disoccupazione ma la loro mancanza, la quale ha incoraggiato la produzione di beni ripetitivi e di scarsa utilità, la speculazione finanziaria e quella immobiliare, le sovvenzioni dirette a famiglie e imprese. Così facendo, ha portato all’impiego improduttivo dei capitali.

Per tornare all’investimento produttivo, bisogna invertire il flusso di ricchezza, riportandolo dalle rendite a salari e spesa sociale. Oggi i settori in crescita che accrescono la produttività del capitale umano sono il settore pubblico, il terzo settore (del non-profit) e i nuovi lavoratori autonomi della produzione immateriale. Questi settori sono anch’essi produttivi, perché – come spiegò Alvin Hansen – nessun settore può essere produttivo da solo; tutti sono interdipendenti (2).

La nuova spesa pubblica, rivolta soprattutto all’ambiente, trascinerà gli investimenti privati. Essa si può finanziare tassando un po’ di più il 10% più ricco della popolazione (che oggi detiene il 50% della ricchezza); e con la Tobin tax (0,2% sulle transazioni valutarie); imposte su internet, su energie fossili e su consumo eccessivo di acqua. Inoltre, si finanzierà convertendo in investimenti le sovvenzioni pubbliche alle imprese (in Italia, 30 miliardi l’anno), ai disoccupati (60 miliardi), alle famiglie, in forma di bonus, e, per gli abili al lavoro, al reddito di cittadinanza. In tal modo nessuno perde il reddito, ma lo ottiene in cambio di lavoro produttivo.

(1) K. Marx, Capital I, 1867, Progress Publishers, Moscow, 2015, cap. 25, par. 3 e 4. Su Daly, v. greenreport.it , 30 sett. 2013, intervista di Luca Aterini, “Herman Daly e i paradossi dell’economia…”.

(2) A. Hansen, Fiscal Policy and Business Cycle, London: Allen & Unwin, 1941 (pp. 144-52).

(Sintesi della relazione al ciclo di incontri “I Venerdì di Diogene 2022”, 22 aprile)

Soldati sotto il vessillo del Cane a sei zampe

31 Gen


di Sofia Basso (brani da Sbilanciamoci del 21-12-2021)
Con una mano il governo Draghi firma gli impegni sulla transizione ecologica, con l’altra invia i militari a difendere gli interessi delle fonti fossili all’estero. Un recente rapporto di Greenpeace ha svelato che nel 2021 circa due terzi della spesa italiana per le missioni militari sono destinati a operazioni a tutela di gas e petrolio, per un totale di quasi 800 milioni di euro. Due missioni militari, inoltre, hanno il compito di “proteggere gli asset estrattivi Eni”, azienda per il 70 per cento privata. Sommando tutte le operazioni “fossili” degli ultimi quattro anni, il ministero della Difesa ha speso circa 2,4 miliardi di euro. … Sempre senza alcuna discussione pubblica sugli interessi che le Forze armate italiane sono chiamate a difendere. Ovviamente nessuna missione militare ha l’esclusivo obiettivo di proteggere le piattaforme Eni o la sicurezza energetica del Paese, ma in alcuni casi questo compito è addirittura al primo posto.

Uno dei casi più eclatanti è l’operazione Gabinia nel Golfo di Guinea: malgrado le acque in questione siano infestate dai pirati, il primo compito indicato nella scheda di missione inviata dal Governo al Parlamento è “proteggere gli asset estrattivi di Eni, operando in acque internazionali”. La necessità di difendere il naviglio mercantile nazionale dagli attacchi dei pirati compare solo al secondo posto: un compito di nuovo collegato al fattore energetico, dato che – come sottolinea la delibera che istituisce la missione – sul Golfo di Guinea “si affacciano due dei maggiori produttori di petrolio dell’Africa subsahariana, la Nigeria e l’Angola”. ….
Non solo. Anche se il nome potrebbe evocare il salvataggio dei migranti, la prima attività dell’operazione Mare Sicuro al largo della costa libica è, di nuovo, la “sorveglianza e protezione delle piattaforme dell’Eni ubicate nelle acque internazionali prospicienti la costa libica”. … Nel giugno 2020, illustrando l’impegno militare italiano nel Paese africano, Luigi Di Maio è andato diretto al punto: “Stiamo lavorando per proteggere i nostri asset geostrategici. Come lo facciamo? L’Eni è lì, l’Eni è in Libia”. ….
Guerini nel giugno 2020 [parlando della minaccia di un crollo dell’Iraq] ha spiegato: “Per l’Italia, questo scenario metterebbe a repentaglio la nostra sicurezza energetica essendo l’Iraq, infatti, il nostro primo fornitore di greggio”. ….
C’è poi la partita nel “Mediterraneo orientale”, il nuovo eldorado del gas. Già nel 2019, il ministro Lorenzo Guerini esprimeva preoccupazione per lo “sfruttamento delle risorse energetiche” in quella zona di mare a causa del contenzioso in corso tra Cipro e Turchia, e sottolineava l’esigenza di tutelare “gli interessi nazionali nell’area”. Interessi che hanno un nome e cognome preciso: “Nello specifico, d’accordo con Eni, il governo segue con attenzione costante l’attività di esplorazione”. ….
Una delle operazioni che ha recentemente registrato un incremento nell’area del Mediterraneo orientale è la missione Nato Sea Guardian, che “svolge essenzialmente attività di sorveglianza degli spazi marittimi di interesse nel Mar Mediterraneo”, ma anche compiti di “protezione delle infrastrutture sensibili”.
Tra le missioni militari che Greenpeace ha etichettato come “fossili” compare anche Atalanta, l’operazione antipirateria dell’Unione europea al largo della Somalia, nel Golfo di Aden …
L’impegno “fossile” delle Forze armate italiane potrebbe non finire qui. Questa estate, il ministro Guerini ha dato mandato allo Stato Maggiore della Difesa di “avviare una valutazione su possibili contributi italiani” alla missione di addestramento militare in Mozambico, istituita il 12 luglio 2021 dal Consiglio dell’Unione europea per formare e sostenere le forze armate locali nella protezione della popolazione civile e per ripristinare la sicurezza nella provincia più settentrionale del Paese, Cabo Delgado. …. Il titolare della Difesa aveva precisato che la provincia in questione è “un’area caratterizzata anche dalla presenza di risorse energetiche”. …. Nel suo sito web, Eni definisce il Mozambico “uno tra i Paesi più promettenti del continente africano nel settore energetico”.
I contribuenti italiani si trovano, di fatto, a pagare una quota della sicurezza delle infrastrutture Eni, nonostante la stessa compagnia dichiari ai suoi azionisti che “la tutela della sicurezza di persone e asset è responsabilità aziendale”. Sommando tutte le missioni militari con compiti “fossili” – più i costi di supporto – si arriva a un totale di 797 milioni per il 2021, 560 milioni per il 2020, 525 milioni per il 2019 e 568 milioni per il 2018.
Si tratta di un impegno militare ed economico importante, deliberato anno dopo anno senza un vero dibattito pubblico sugli interessi che il nostro Paese dovrebbe tutelare. Tutto questo mentre il connubio tra la Difesa ed Eni è sempre più forte. Nel luglio 2021 la Marina militare e il colosso energetico hanno firmato un Protocollo d’intesa per garantire la “sicurezza marittima” e potenziare la “sicurezza energetica a protezione degli interessi nazionali in campo marittimo”. Impossibile, però, sapere cosa preveda, visto che il documento è sottratto all’accesso pubblico: la richiesta di accesso agli atti di Greenpeace è stata infatti bocciata. Rimane così il dubbio che l’obiettivo ultimo di tutte queste missioni sia più assicurare contratti e protezione ad Eni, che non la sicurezza energetica degli italiani. Ormai sempre più minacciati dagli sconvolgimenti climatici, causati proprio dall’uso delle fonti fossili.
[Si noti che l’ENI è una società privata, anche se con capitale a maggioranza pubblico NdR]

Dean Baker: finanziamenti pubblici + brevetti rallentano il progresso

6 Dic

Dean Baker, in un recente articolo, (1) scrive che le decine di milioni di morti per il Covid sono anche conseguenza del ritardo nella distribuzione dei vaccini. D’altra parte, aggiunge, alcuni si sono arricchiti enormemente grazie alla pandemia, in particolare i detentori dei brevetti dei vaccini mRNA. Già nell’aprile scorso Forbes indicava 40 di quelli che erano diventati miliardari con le azioni di Pfizer e Moderna.

Si noti che la ricerca di Moderna è stata finanziata dal governo. La tecnologia mRNA (quella che utilizza molecole di acido ribonucleico messaggero) si sviluppò negli anni Ottanta finanziata quasi interamente dallo stato. Moderna ha proseguito la ricerca, ma lo sviluppo dei test del vaccino è stato tutto a carico dello stato. Dopo tutto questo, Moderna, Pfizer e Merck, ecc. hanno avuto il monopolio dei brevetti.

Se avessimo dato le licenze per produrre i vaccini ci sarebbero stati diversi produttori e avremmo accumulato le scorte necessarie molto presto. Ma bloccare la pandemia e salvare vite non era nel programma. Bisognava salvare la struttura di mercato e permettere a un piccolo numero di persone di diventare incredibilmente ricche. Lo stesso sta succedendo per le tecnologie verdi.

Per salvare il clima, dovremmo distribuire a tutti le tecnologie adatte, ma questo è impedito da brevetti, copyright e segreti industriali. Sebbene le tecnologie per il clima siano più costose dei vaccini, la logica è sempre quella di proteggere l’arricchimento individuale attraverso la proprietà intellettuale. Ma la proprietà intellettuale non è necessaria, come ci ha mostrato l’esperienza. La ricerca sui vaccini ha mobilitato le case farmaceutiche non grazie ai brevetti ma attraverso enormi incentivi monetari dello stato.

Lo stesso si potrebbe fare con la ricerca per le nuove tecnologie per il clima. Con la differenza che non c’è la necessità di essere così veloci come per i vaccini e soprattutto che non è necessario pagare due volte la ricerca, una volta per ottenere i risultati e un’altra volta dandogli i brevetti di proprietà esclusiva. I risultati di queste ricerche devono quindi essere a disposizione di tutti (fully open). Immaginate che, grazie alla mancanza di brevetti, il prezzo dei pannelli solari, delle turbine per il vento e delle batterie cada del 30-40%. Le energie pulite sarebbero enormemente più competitive di quelle fossili, e sarebbero rapidamente adottate.

Portare le nuove tecnologie a costo zero sarebbe di per sé un vantaggio enorme, ma ancora più importante sarebbe pubblicare i risultati per tutti. I ricercatori di tutto il mondo, potendo conoscere questi risultati, sarebbero fortemente spinti a continuare le ricerche e ottenere risultati migliori, e questo darebbe una forte accelerazione all’avanzamento tecnologico.

Le compagnie industriali possono resistere a questo metodo, ma è possibile spingerli ad accettarlo. Se, ad esempio, il governo raccogliesse fondi per sviluppare i pannelli solari a condizione che le nuove tecnologie sia aperte a tutti, le ditte che rifiutano di rendere pubblici i loro risultati si troverebbero ben presto a competere con prodotti che costano molto meno dei loro, perché chi li produce non deve pagare i brevetti. E a chi mantiene i propri brevetti si dovrebbe vietare l’uso delle tecnologie aperte a tutti. Bisognerebbe usare un metodo come “copyleft” (nel senso quindi di software libero non di prezzo zero). In questo modo, mettendo cioè in alternativa i finanziamenti pubblici con i brevetti di monopolio dei risultati, la ricerca verrebbe potenziata.

Al livello internazionale sarebbe necessario un accordo sulla partecipazione ai costi per questi finanziamenti alla ricerca. I costi dovrebbero essere in proporzione alla grandezza ma anche alla ricchezza dei vari paesi.

(1) “Imagine if stopping climate change was more important than making climate change billionaires”, Real World Economics Review Blog, November 20, 2021.

DDL Concorrenza: privatizzazioni su larga scala. Una dichiarazione di guerra all’acqua e ai beni comuni

29 Nov

Era il 5 Agosto 2011 quando l’allora Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, insieme al Presidente della Banca Centrale Europea Jean-Claude Trichet, scrisse la famigerata lettera al Presidente del Consiglio Berlusconi in cui indicava come necessarie e ineludibili “privatizzazioni su larga scala” in particolare della “fornitura di servizi pubblici locali”.
Uno schiaffo ai 26 milioni di italiani che poco più di un mese prima avevano votato ai referendum indicando una strada diametralmente opposta, ossia lo stop alle privatizzazioni e alla mercificazione dell’acqua.Oggi Draghi, da Premier con pieni poteri, ripropone in maniera esplicita e chiara quella stessa ricetta mediante il DDL Concorrenza approvato dal Consiglio dei Ministri giovedì scorso.La logica che muove l’intero disegno di legge, oltremodo evidenziata nell’art.6, è quella di chiudere il cerchio sul definitivo affidamento al mercato dei servizi pubblici essenziali.
Un provvedimento ispirato da un’evidente ideologia neoliberista in cui la supremazia del mercato diviene dogma inconfutabile nonostante la realtà dei fatti dimostri il fallimento della gestione privatistica, soprattutto nel servizio idrico: aumento delle tariffe, investimenti insufficienti, aumento delle perdite delle reti, aumento dei consumi e dei prelievi, carenza di depurazione, diminuzione dell’occupazione, diminuzione della qualità del servizio, mancanza di democrazia.
Questa norma, di fatto, punta a rendere residuale la forma di gestione del cosiddetto “in house providing”, ossia l’autoproduzione del servizio compresa la vera e propria gestione pubblica, per cui gli Enti Locali che opteranno per tale scelta dovranno “giustificare” (letteralmente) il mancato ricorso al mercato.
Nel DDL emerge chiaramente la scelta della privatizzazione. Gli Enti Locali che intendano discostarsi da quell’indirizzo dovranno dimostrare anticipatamente e successivamente periodicamente il perché di altra scelta, sottoponendola al giudizio dell’Antitrust, oltre a prevedere sistemi di monitoraggio dei costi.  Mentre, i privati avranno solo l’onere di produrre una relazione sulla qualità del servizio e sugli investimenti effettuati.

Inoltre, si prevedono incentivi per favorire le aggregazioni indicando così chiaramente che il modello prescelto è quello delle grandi società multiservizi quotate in Borsa che diventeranno i soggetti monopolisti (alla faccia della concorrenza!) praticamente a tempo indefinito. Tutto ciò in perfetta continuità con quanto previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

Ed è proprio dal combinato disposto tra PNRR, DDL sulla concorrenza e decreto semplificazioni (poteri sostitutivi dello Stato) che il Governo intende mettere una pietra tombale sull’esito referendario provando così a chiudere una partita che Draghi ha iniziato a giocare ben 10 anni fa dimostrando, oggi come allora, di fare solo gli interessi delle grandi lobby finanziarie e svilendo strumenti di democrazia diretta garantiti dalla Costituzione.

L’art. 6 è un proditorio attacco alla sovranità comunale: i comuni da presidii di democrazia di prossimità ridotti a meri esecutori della spoliazione della ricchezza sociale.  E’ il punto di demarcazione tra due diverse culture, quella che considera un dovere il rispetto e la garanzia dei diritti fondamentali e quella che trasforma ogni cosa, anche le persone, in strumenti economici e merci.

Noi continueremo a batterci per la difesa dell’acqua, dei beni comuni e dei diritti ad essi associati e della volontà popolare.
A questo scopo, nelle prossime settimane, a partire dalla manifestazione nazionale in programma il 20 novembre a Napoli in cui chiederemo con forza anche lo stop alla privatizzazione delle partecipate della città partenopea (tra le quali l’azienda pubblica “Acqua Bene Comune”) paventate in questi giorni, metteremo in campo una rinnovata attivazione per ottenere il ritiro di questo provvedimento al pari del DDL Concorrenza e dei famigerati intendimenti in esso contenuti.

Facciamo appello alla mobilitazione generale, rivolgendoci alle tante realtà e organizzazioni sociali che in questi anni hanno saputo coltivare e arricchire un dibattito e una mobilitazione sui servizi pubblici locali e sui beni comuni per ribadire insieme che essi sono un valore fondante delle comunità e della società senza i quali ogni legame sociale diviene contratto privatistico e la solitudine competitiva l’unico orizzonte individuale.

Roma, 9 Novembre 2021.

Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua

M. Mazzucato per un nuovo patto sociale

15 Nov

Mariana Mazzucato su Social Europe del 14 ott. 2021 lancia un manifesto per un nuovo patto sociale. Lo riassumiamo, sottoscrivendolo dalla prima all’ultima parola.

Sta per sparire il Washington Consensus, che ha dominato per almeno 50 anni e che teorizza il neoliberismo. Il Comitato per la resilienza economica dei G7 (dove l’autrice rappresenta l’Italia) chiede un rapporto radicalmente diverso fra settore pubblico e privato.

I postulati responsabili dell’attuale disastro, sono stati teorizzati dal Washington Consensus, praticati da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale e hanno guidato le istituzioni. Essi hanno esacerbato le disuguaglianze e perpetuato la subordinazione del sud del mondo. Nel 2020 abbiamo evitato per poco un collasso economico a causa del Covid, e oggi dobbiamo affrontare rischi senza precedenti, incertezza, moti sociali e catastrofi climatiche. I leader mondiali devono scegliere fra sostenere ancora un sistema economico fallimentare o buttare a mare il Washington Consensus e sostituirlo con un nuovo contratto sociale.

L’alternativa è il “Cornwall Consensus” (Consenso di Cornovaglia), emerso dall’incontro dei G7 del giugno scorso. Mentre il Washington Consensus riduceva al minimo il ruolo economico dello stato e promuoveva un’aggressiva politica di deregulation, privatizzazione e iper-liberismo, il nuovo Consenso rafforzerebbe l’economia pubblica, permettendoci di perseguire fini sociali, costruire una solidarietà internazionale e riformare il governo mondiale nell’interesse del bene comune.

Garanzie e investimenti dello stato e degli organismi multilaterali verrebbero concessi a condizione di una rapida decarbonizzazione, invece della liberalizzazione del mercato che il FMI esige per gli aiuti strutturali. I governi passerebbero dal riparare (cioè intervenire solo a danno compiuto) al preparare (anticipare le misure per proteggersi da danni futuri), dalla riparazione reattiva dei fallimenti del mercato al plasmare in modo pro-attivo i tipi di mercato che ci servono per un’economia verde. Questo permetterebbe di sostituire la redistribuzione con la pre-distribuzione, mediante progetti guidati pubblico-privati che creerebbero un’economia equa, sostenibile e resiliente.

Tutto ciò, spiega la Mazzucato, è necessario perché il vecchio modello non produce più vantaggi per la maggioranza, se mai lo ha fatto. Esso si dimostra incapace di reagire agli shock economici, ecologici ed epidemiologici. Con gli accordi voluti dal quel modello, è stato sempre difficile raggiungere gli obbiettivi del Programma ONU di sviluppo sostenibile del 2015. Ma durante l’epidemia è stato addirittura impossibile.

Siamo sull’orlo di un cambio di paradigma, atteso a lungo ma reversibile. Molte istituzioni economiche sono ancora governate dalle vecchie regole, che impediscono di dare le risposte necessarie per metter fine alla pandemia. Per non parlare dell’obiettivo, fissato dall’Accordo di Parigi sul clima, di non superare il surriscaldamento di 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali.

Il rapporto dei G7 sottolinea innanzitutto l’urgenza di rafforzare la resilienza mondiale contro rischi e shock futuri, sia acuti (la pandemia) che cronici (disuguaglianze estreme e polarizzazione dei redditi). Chiede un radicale cambiamento di parametri nel misurare lo sviluppo economico, passando da crescita di PIL, valore aggiunto lordo o profitti finanziari al raggiungimento di obbiettivi comuni.

Chiediamo equità nella distribuzione dei vaccini, nel finanziamento dei programmi sanitari e nell’accesso alle innovazioni che aiutano la popolazione e che sono state finanziate dallo stato. Questo esige un approccio nuovo sui diritti di proprietà intellettuale. Anche il Consiglio per l’economia della salute pubblica (dell’Organizzazione Mondiale della Sanità), presieduto dalla stessa Mazzucato, afferma che la politica della proprietà intellettuale va riformata perché la conoscenza è frutto di un processo collettivo di creazione di valore.

Inoltre nella Commissione del G7 si chiedono maggiori investimenti pubblici per il recupero post-pandemico e si appoggia la proposta di Nicholas Stern di aumentare questa spesa del 2% del PIL l’anno, arrivando a mille miliardi annui fino al 2030. Ma non basta aver i soldi, è importante come si spendono. L’investimento pubblico va regolato con nuovi meccanismi contrattuali e istituzionali che incentivino la creazione di valore di lungo periodo anziché il profitto privato di breve periodo.

Infine, per rispondere alla sfida più grande, la crisi climatica, chiediamo di creare un CERN per la tecnologia climatica (come fu fatto il CERN per la ricerca sull’atomo) per ricerche su come decarbonizzare l’economia, convogliando investimenti pubblici e privati in progetti ambiziosi, come l’eliminazione della CO2 dall’atmosfera o soluzioni a carbone zero per le industrie inquinanti che non si possono chiudere, come navi, aerei, settori del siderurgico e del cemento. Questa istituzione multilaterale e interdisciplinare agirebbe da catalizzatore per dar forma a nuovi mercati di energia rinnovabile e di produzione circolare.

Solo una nuova cooperazione fra stati, conclude Mazzucato, cioè un nuovo contratto sociale, può impedire che le crisi future crescano e si incastrino l’una con l’altra.

A new global economic consensus

“Quei soldi all’energia sporca”

19 Ott

Dopo un allarme lanciato dal ministro Cingolani e ben reclamizzato sul rincaro delle bollette del gas e dell’elettricità del 40%, il governo decise il 23 settembre scorso di dare sussidi ai consumatori per affrontare il rincaro. Ma questo provvedimento ha suscitato le giuste proteste degli ambientalisti, perché i sussidi riguarderanno anche l’energia da idrocarburi, ed ha creato perplessità fra molti ricercatori, perché si estende anche alle famiglie benestanti (vedi ad esempio Massimo Lombardini, in ISPI, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, online, 8 ott.).

Su questo problema l’articolo di Carlo Cottarelli, su Repubblica del 24 settembre, “Quei soldi all’energia sporca” è una decisa critica alle politiche ambientali del governo. Scrive l’autore: il governo ha stanziato un sussidio di 1,2 miliardi per il terzo trimestre di quest’anno e di 3-3,5 miliardi per il quarto trimestre. Il sussidio pesa quindi in termini annuali dai 12 ai 14 miliardi, che è ben più dei 7 miliardi spesi nel 2020 per il Reddito di cittadinanza.

Questo nuovo macigno sui conti pubblici, già abbastanza disastrati, è in parte inevitabile perché evita il collasso economico delle famiglie indigenti. Ma, nota l’articolo, il sussidio va molto oltre questa necessità. Esso andrà a beneficio di ben 29 milioni di utenze domestiche, comprendendo quindi anche quelle a reddito più alto. Perché, si chiede l’autore, dare soldi ai benestanti sul cui reddito l’aumento dell’elettricità e del gas certamente non pesa molto e che, per di più, consumano energia molto più degli altri? Eppure “la Commissione Europea ha raccomandato di limitare i sussidi solo a chi ne ha davvero bisogno”.

Non solo questo. L’aumento delle bollette è per l’80% dovuto all’aumento del prezzo internazionale del prodotti energetici (notiamo che questo aumento è dovuto essenzialmente – oltre che ad alcuni fatti contingenti citati dall’autore – alla ripresa post-Covid, la quale sta esprimendo un forte e subitaneo aumento della domanda. L’aumento di domanda sta generando scompensi nell’offerta di molti beni, anche perché il lungo digiuno di vendite durante il Covid ha spinto le imprese a consumare le scorte). Ma il 20% dell’aumento delle bollette deriva dall’aumento di prezzo dei permessi di emissione di CO2 rilasciati dalla UE. Questo aumento è dovuto alla politica UE di scoraggiare progressivamente la produzione di CO2.

Quindi, osserva Cottarelli, oltre a sussidiare i consumi dei ricchi, si sussidiano le imprese incoraggiandole a proseguire come prima nelle quantità di emissioni. Qual è la coerenza di questa politica che dovrebbe avviare la transizione ecologica? Qui non ci sono soltanto le conseguenze negative dei “sussidi generalizzati”, che tutti – istituzioni internazionali ed esperti dell’ambiente – ritengono nocivi, ma c’è anche il fatto che “si sussidia l’energia sporca”. L’autore osserva: “Si dirà che altri Paesi europei fanno la stessa cosa. Ma come è compatibile una politica di sussidio all’energia sporca con gli obiettivi della transizione energetica che, a parole, i Paesi europei considerano come fondamentale?”

Cottarelli ha ragione da vendere (a prezzo non sussidiato!). Del resto, non si dimentichi che il ministro Cingolani, appena nominato, firmò tutti i permessi lasciati in sospeso per l’esplorazione dei giacimenti di idrocarburi e che sostiene ancora il progetto ENI di sotterrare la CO2 al di sotto del mare. Sempre Cingolani ha affermato – con brillante sillogismo – che per avviare la produzione dell’energia verde bisogna intanto potenziare l’uso dell’energia “sporca”; e si è fieramente opposto all’applicazione della normativa UE sul divieto delle plastiche monouso, ottenendone – insieme con Bonomi – un ennesimo rinvio. Ricordiamo ancora – a proposito di energia sporca – che solo in Italia gli incentivi per acquistare un’automobile non valgono solo per le auto elettriche ma anche per quelle diesel e a benzina. Il risultato è che da noi ci sono 100mila auto totalmente elettriche mentre in Germania sono un milione.

Il Fondo Monetario Internazionale e Legambiente stimano che l’Italia ha erogato intorno ai 35 miliardi di euro per sussidi “espliciti e impliciti” ai combustibili fossili (GreenReport.it, art. di Umberto Mazzantini del 7-X-2021). Detto questo, però, l’Italia è in “buona compagnia”: lo stesso articolo ci informa che – sempre secondo il FMI – quasi 6mila miliardi di dollari (5,9 esattamente) sono stati spesi nel 2020 nel mondo per sussidi ai combustibili fossili (il 6,8% del Pil mondiale).
Di questo passo non ridurremo mai veramente l’uso di carbone, petrolio, metano e gas.

L’inganno del “capitalismo verde” secondo Pistor

11 Ott


11-10-2021

Katharina Pistor, della Columbia University, ha pubblicato un articolo, “The myth of green capitalism”, su Social Europe il 27 settembre scorso. Scrive che abbiamo perso decenni scambiare quantità di CO2 [le quote consentite] e schemi finanziari “verdi” che fingono di eliminare la produzione di anidride carbonica.

Il capitalismo “verde” è un altro trucco del settore privato per non affrontare il problema. Il problema non è sostituire le attività verdi a quelle “marrone” [produzione inquinante] ma di condividere le perdite che il capitalismo “marrone” ha imposto a milioni di persone e dare loro un futuro.

Il concetto di capitalismo verde, scrive la Pistor, sottintende che i costi per risolvere il problema climatico sono troppo alti per caricarli sulle spalle dei soli governi e che il settore privato – come sempre – ha risposte migliori. Per i sostenitori del capitalismo verde, la compartecipazione pubblico-privato assicurerà un risanamento ambientale senza costi, attraverso Investimenti accorti nelle nuove tecnologie.

Questo però sembra troppo bello per essere vero. Il DNA del capitalismo non è adatto per affrontare le ricadute del cambiamento climatico che sono in gran parte prodotte dallo stesso capitalismo. Il sistema capitalistico si fonda sulla privatizzazione dei guadagni e la socializzazione delle perdite, con la benedizione della legge.

La legge permette di esternalizzare i costi della spoliazione del pianeta a chiunque sia così bravo da creare un’impresa o una società prima di inquinare. Essa tiene interi paesi ostaggio delle regole internazionali che privilegiano la protezione dei profitti degli investitori stranieri rispetto al benessere della popolazione. “Molti paesi sono stati trascinati in giudizio grazie al Trattato sull’Energia per aver tentato di tagliare le emissioni di ossido di carbonio”.

Due terzi delle emissioni totali dall’inizio della rivoluzione industriale sono stati causati solo da 90 società imprenditoriali. E anche se i manager dei maggiori inquinatori mondiali mirassero davvero alla decarbonizzazione, i loro azionisti si opporrebbero. Per decenni il vangelo della massimizzazione dei profitti degli azionisti ha regnato supremo, e tutti i manager hanno imparato che se deviano dall’ortodossia saranno tradotti in giudizio per violazione dei doveri fiduciari.

Non c’è da meravigliarsi che i leader degli affari e della finanza si appellino alla lotta contro il cambiamento climatico. “Il loro messaggio è che gli azionisti, non i manager, devono incoraggiare il comportamento necessario a cambiare. Le soluzioni vanno trovate nel meccanismo dei prezzi non nelle politiche basate sulla scienza”.

La necessità di cambiamenti drastici, come tasse sulla produzione di CO2, una moratoria permanente sull’estrazione di risorse naturali, ecc., viene rifiutata perché sono “meccanismi che causano distorsioni del mercato”. Ma questo significa idealizzare dei mercati che non esistono. Dopo tutto “i governi hanno sussidiato per decenni e generosamente le industrie basate sull’energia fossile, in USA al ritmo di 5,5 trilioni di dollari” (nel 2017 era il 6,8% del PIL).

L’origine di tutti gli aiuti alle imprese è l’antico processo di codificazione legale del capitale attraverso le leggi sulla proprietà, le società, le alleanze, la bancarotta. E’ la legge, non il mercato o le imprese, che protegge i proprietari del capitale anche quando scaricano sugli altri i loro enormi passivi.

I sostenitori del capitalismo verde sperano di continuare questo gioco. Per questo premono sui governi perché finanzino la sostituzione delle attività “marrone” con quelle verdi, in modo che i prezzi delle prime si abbassino e i prezzi delle seconde crescano per compensare gli azionisti. I governi e le istituzioni si sono sottomessi ancora una volta alle sirene dei meccanismi del mercato amico. “Il nuovo consenso insiste sulla delega alla finanza dell’iniziativa per il clima perché questa via promette un cambiamento senza essere costretti a farlo davvero” (e genera lavoro per uno stuolo di imprese contabili, di avvocati e consulenti di affari).

Il risultato è stato un’ondata di “greenwashing” [apparire verdi senza esserlo]. L’industria finanziaria ha versato migliaia di miliardi di dollari nelle attività chiamate verdi, che poi si è visto non essere tali. Secondo un recente studio (Influence Map, agosto 2021) il 71% dei fondi che ufficialmente rispettano i criteri ufficiali ambientali non sono in linea con gli obbiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima. La Pistor conclude che “se l’obbiettivo fosse davvero un’economia verde la prima cosa da fare sarebbe eliminare tutti i sussidi, diretti o attraverso sgravi fiscali, al capitalismo “marrone” e vietare la proliferazione di quest’ultimo.

Concludendo, la Pistor denunzia gli imbrogli del capitalismo verde, che seguono i 50 anni persi per le menzogne del negazionismo. I danni provocati dagli anti-ambientalisti sono enormi e in parte irreparabili, ma possono essere superati da un’opinione pubblica agguerrita.