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Necessità di investimenti pubblici

31 Ott


di Cosimo Perrotta – 31-X-2022

L’Italia ha una terribile fame di investimenti per i servizi pubblici (1). Ormai i pazienti di reddito medio-basso sono costretti a file e liste di attesa estenuanti per fare analisi che li potrebbero salvare. Invece di dare i soldi pubblici alle cliniche private convenzionate, si dovrebbero assumere nuovi medici e infermieri, fare nuovi ospedali, fare campagne di prevenzione, creare presidii su un territorio ormai sguarnito.
Ci vogliono investimenti per la scuola pubblica, per bloccare il disastro edilizio che mette a rischio gli studenti, per l’aggiornamento professionale e l’incentivazione del merito dei docenti, la riqualificazione degli istituti professionali e tecnici, la lotta alla crescente evasione scolastica. Queste spese dovrebbero sostituire i finanziamenti più o meno surrettizi alle scuole private (cattoliche o laiche, ma sempre per ricchi). In realtà solo la scuola pubblica assicura l’istruzione come promozione sociale e permette ai ragazzi di maturare in un ambiente non artificioso.
Inoltre bisogna investire nei trasporti del Sud e delle altre zone periferiche che sono tagliate fuori dai processi innovatori dell’economia. E’ necessario migliorare le carceri, accrescere il personale e rafforzare lo studio, la socializzazione e l’assistenza ai carcerati, in modo da attuare veramente il compito costituzionale di rieducare. Bisogna creare strutture, personale qualificato e reti organizzative per i migranti, da non lasciare allo sbando, come vuole Salvini.
L’elenco degli investimenti urgenti – anzi, urgentissimi – è ben lontano dal finire qui. Accenniamo solo a qualche altro. C’è da avviare seriamente il riassetto idrogeologico di un paese che è diventato, tutto, una “sfasciume pendulo”, come scriveva Giustino Fortunato della Calabria. Lo stesso vale per il riassetto antisismico degli edifici. Servono quindi tanti geologi, ingegneri, urbanisti e tecnici.
Bisogna iniziare l’uscita dal viluppo di inefficienze, abusi e privilegi indebiti che pesa su gran parte della nostra vita quotidiana. Va aumentato il numero dei magistrati, delle strutture fisiche e organizzative della giustizia, accresciuti gli addetti alla Pubblica Amministrazione, gli ispettori del lavoro, i sorveglianti del traffico e dell’ordine pubblico, gli addetti alla pulizia urbana. Senza questi investimenti non ci sarà mai ripresa economica né aumento dell’occupazione.
Infine bisogna avviare con la massima urgenza la transizione ecologica – cosa mai fatta – per evitare almeno i frutti peggiori dell’inquinamento ambientale e del surriscaldamento climatico. Questa doppia transizione richiede specialisti ed esecutori di ogni tipo. Occorre depurare dai vari fattori inquinanti fiumi e mari, l’agricoltura e i boschi, l’aria e gli insediamenti urbani. Occorre sostituire le fonti energetiche e costruire le reti di stoccaggio e diffusione dell’energia verde.
Nessuno può negare la necessità e l’urgenza di questi investimenti. Ma di fatto l’attuale governo le nega. Le sue priorità sembrano essere respingere i migranti, togliere il reddito di cittadinanza a chi non trova lavoro, premiare l’evasione fiscale togliendo l’obbligo del POS e il limite all’uso dei contanti.
Eppure queste spese sono l’unico modo per rilanciare lo sviluppo e il benessere. La via è la crescita del capitale umano, che allo stesso tempo aumenta la produttività del sistema e aumenta i consumi.
E’ per questo che queste spese sono investimenti. L’austerità ci ha ingannato per decenni dicendo che bisognava spendere poco per risanare il bilancio pubblico. Ma il debito è peggiorato nonostante l’avanzo primario degli ultimi decenni. Si è innescata una spirale discendente in cui l’abbassamento dei consumi ha ridotto la domanda e quindi le aspettative di vendita delle imprese; la conseguente diminuzione degli investimenti, privati ma anche pubblici, hanno depresso i redditi bassi, esteso la povertà, ridotto l’occupazione e abbassato ancor più la domanda.
Oggi gli investimenti privati non bastano a rilanciare da soli lo sviluppo; per questo intristiscono spesso nella produzione ripetitiva di beni il cui mercato è già saturo. E per questo i capitali vanno sempre più verso la speculazione finanziaria o immobiliare. Ma, oltre un certo livello, i guadagni di questo tipo, chiamati profitti, sono in realtà rendite parassitarie, che invece di creare ricchezza la distruggono.

Diranno che non ci sono i soldi per questi investimenti, ma non è vero. Basterebbe abbassare l’evasione fiscale al livello degli altri paesi sviluppati e tassare una tantum i redditi dell’10% più ricco per avere i soldi necessari ad avviare la ripresa. Il resto verrebbe dagli investimenti privati, incoraggiati e garantiti dall’impegno pubblico, e dall’aumento dei consumi indotto dall’occupazione che si crea.

Per avere buoni profitti non bisogna quindi comprimere i salari, ma alzarli (grazie a una vasta occupazione) come spiegava il dimenticato sig. Keynes.

(1) V. anche Francesco Cancellato, nel condurre Prima Pagina di Rai 3 del 30 ottobre scorso.

Il gigante dai piedi d’argilla e la democrazia

25 Lug


di Cosimo Perrotta

Con la caduta del governo Draghi, in poche ore l’Italia è tornata ad essere, agli occhi del mondo e di se stessa, il paese del berlusconiano bunga-bunga, della corruzione, delle corporazioni e della scarsa democrazia.

Draghi era un gigante dai piedi d’argilla. Putin lo ha capito e ha soffiato sul fuoco della crisi italiana per colpire l’intero Occidente. I piedi d’argilla sono il nostro paese; dove adesso gli opposti populismi che lo hanno fatto cadere fanno a gara a nascondersi e accusare Draghi di essersi defenestrato da solo. Spettacolo indecoroso.

Per i populisti, Mattarella e Draghi sono colpevoli di credere nello stato e nella democrazia, cioè nell’interesse generale, contro la prevalenza degli interessi di gruppi e corporazioni. Ma la caduta del governo insegna che non basta difendere i principi della democrazia e della UE. Una difesa che non investa i contenuti sociali ormai non basta più.

È una situazione simile a quella di cento anni fa, quando il liberismo entrò in crisi perché i suoi principi, pur validi, valevano solo per ristrette élite. I regimi liberali lasciavano fuori le masse, che erano super-sfruttate e impoverite, proprio come oggi. Pur di difendere i propri privilegi, la borghesia liberale preferì rinunziare ai suoi principi e accettò la barbarie fascista.

Oggi rischiamo di tornare alla barbarie fascista se difendiamo stato e democrazia accettando che decine di milioni di persone vengano esclusi da un lavoro dignitoso e da paghe sufficienti a vivere, e lasciando campo libero al razzismo che, mentre sfrutta i migranti-schiavi, li incolpa della crisi e vuole che se ne lasci morire in mare il più possibile.

Le vittime di questa esclusione sono ormai la maggioranza della popolazione e vanno crescendo. I poveri assoluti sono triplicati in 15 anni, e superano i 5 milioni e mezzo. 4,3 milioni di lavoratori guadagnano meno di 9 euro l’ora (Istat). I braccianti-schiavi guadagnano in media 3 euro l’ora e vivono in condizioni disumane. I lavoratori in nero in Italia sono 3,2 milioni (AGI). I giovani che non studiano né lavorano (NEET) sono il 13,6% (quasi il doppio della media OCSE); hanno perso la speranza di trovare un lavoro dignitoso

Chi ha una salario troppo basso avrà una pensione che non supera i 750 euro. Il lavoro manuale è così poco tutelato che gli incidenti mortali sul lavoro sono in media tre al giorno. Non ci sono politiche per l’occupazione degne di questo nome. C’è solo assistenza (insufficiente) in varie forme.

Ma anche i lavori professionali stanno male. C’è un bisogno insoddisfatto di medici, infermieri, insegnanti, urbanisti, geologi, burocrati di vario tipo, poliziotti, ispettori del lavoro, ricercatori in ogni campo. E c’è d’altra parte una massa di giovani già abilitati a questi lavori che resta disoccupata o sfruttata in lavori precari perché lo stato non ha i fondi per assumerli stabilmente.

È noto a tutti lo stato pietoso – ma con forti disuguaglianze interne – di università, assistenza sanitaria, trasporti pubblici, case in cooperativa, infrastrutture fisiche e digitali, amministrazione pubblica. Questo disastro non è sanabile finché i soldi pubblici saranno assorbiti da cliniche, scuole, università e imprese private, che fanno profitti con i soldi dello stato. In tutti questi problemi l’Italia ha il record negativo tra i paesi OCSE.

A questo si aggiunge l’inerzia delle politiche ambientali, mentre i disastri climatici e l’avvelenamento ambientale peggiorano rapidamente. Persino il surriscaldamento del clima in Italia è molto maggiore della media mondiale. Persino gli incendi di questi giorni in Italia sono i più numerosi fra i paesi europei.

Tutto questo fa dell’Italia un caso da manuale per chi vuole aggredire la democrazia nel mondo. È un paese ricco e fedele a UE e NATO, ma con una forte fragilità democratica e di sviluppo e una instabilità cronica, dovuta al suo lontano passato. In Italia lo stato ha sempre sofferto di grande debolezza. Nel Centro-Nord, per la prevalenza di Comuni (che Gramsci chiamava “unità economico-corporative”) e Signorie, contro ogni tentativo di governo centrale; nel Sud, a causa del dominio millenario dei latifondisti.

Perché allora chi viene escluso dai diritti democratici, in primis il diritto al lavoro, dovrebbe difendere la democrazia riservata ai ceti più protetti? Su questo interrogativo deve basarsi la prossima campagna elettorale, non su un’immaginaria Agenda Draghi. Pur avendo ottimi contenuti, il programma di Draghi è insufficiente e lascia fuori troppi temi decisivi: salario minimo, jus scholae, investimenti pubblici per creare lavoro, uso dei soldi pubblici per i servizi pubblici (non per quelli privati), sostituzione delle fonti di energia, piano per l’acqua, lotta all’inquinamento ambientale, ricostituzione dell’apparato pubblico e dei servizi di sorveglianza, lotta frontale all’evasione fiscale, tasse sulle ricchezze esorbitanti, ecc.

È impossibile tornare all’energia fossile

18 Lug

di Éloi LaurentSocial Europe 14/7/2022

Un fantasma si aggira per l’Europa, quello dei gilet gialli. I loro disordini a Parigi nel 2018-19 hanno creato due malintesi presso molti politici.

Il primo è l’idea che la transizione energetica crei disuguaglianze e che sia questo ad adirare i cittadini. In realtà la transizione è appena cominciata. Le disuguaglianze derivano dall’attuale sistema economico non dalle politiche di transizione. L’esempio più chiaro è nel presente aumento dell’inflazione dovuto alla scarsità di gas e petrolio, per cui la volatilità dell’offerta si traduce in vulnerabilità sociale. Dire che la tragedia dell’Ucraina rafforza la nostra dipendenza significa preparare la strada per una prossima crisi da scarsità di energia.

Il secondo malinteso è che i gilet gialli hanno messo in evidenza una inevitabile incompatibilità tra come arrivare alla fine del mese e come evitare la fine del mondo. Infatti la povertà non aspetta la fine del mese, e d’altra parte non è in questione la fine del mondo ma la capacità del pianeta di ospitare bene l’umanità più povera e fragile. Ma soprattutto, le politiche di una transizione giusta sono possibili ed economiche, in Europa e altrove.

La distribuzione ineguale
Recentemente ho esaminato diversi tipi di disuguaglianza ambientale, comprese quelle della vulnerabilità (esposizione e reattività di individuai e gruppi al degrado ambientale) e della responsabilità (il loro impatto su tale degrado). Questi due tipi di disuguaglianza non derivano da politiche per l’ambiente incuranti delle conseguenze sociali, bensì dalla mancanza di una risposta forte a molti aspetti della crisi ecologica (catastrofe climatica, inquinamento dell’aria, ecc.).

Sappiamo che non agire sul clima aumenterà la vulnerabilità di milioni di europei anziani e socialmente isolati di fronte a ondate di caldo devastanti, del tipo visto in Spagna e Francia questa estate (con temperature notturne a Parigi di 30 gradi a metà giugno). Costruire una transizione giusta in questo caso significa sviluppare politiche di transizione per mitigare le crisi ecologiche e abbassare le ingiustizie che esse creano.

Gli antichi romani stabilirono un principio giuridico: nessuno può giustificarsi adducendo la propria immoralità (nemo auditur propriam suam turpitudinem allegans). Questo principio va applicato alle politiche di non-transizione dell’Europa.

Cooperazione sociale
Dobbiamo proseguire lungo due percorsi. Innanzitutto dobbiamo mostrare che la necessaria riduzione delle disuguaglianze può attenuare le crisi ecologiche (viaggi aerei a lunga distanza, veicoli sportivi ecc. sono responsabili del grosso delle impronte ecologiche (produzione di CO2) eccessive. D’altra parte le politiche di transizione ecologica possono ridurre le disuguaglianze sociali e aumentare il benessere dei più poveri. Ad esempio una tassazione progressiva ed ecologica sul carbone in Francia può redistribuire reddito a favore dei gilet gialli invece di penalizzare le emissioni residue senza alcun compenso sociale (fu quest’ultima la politica di Macron, che scatenò la ribellione).

Martin Luther King disse che il capitalismo è “un sistema che prende il necessario alle masse per dare il lusso alle classi”. Le politiche di giusta transizione dovrebbero fare il contrario: ristrutturare i consumi sulla base del consumo sufficiente e promuovere la cooperazione sociale come tecnologia innovativa del sec. XXI.

Il secondo percorso è ancora più ambizioso. Esso delinea una politica socio-ecologica, oggi e nel lungo periodo, che allo stesso tempo riduca le disuguaglianze sociali e il degrado ambientale. C’è già una quantità di cose da fare, ad es. nelle aree della mobilità e delle abitazioni, come dimostra un recente notevole rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), 3° gruppo di lavoro) sulla riduzione e l’attenuazione delle emissioni.

“Piena salute”
Questo sforzo si dovrebbe accompagnare ad una ridefinizione della ricchezza che proponga nuovi orizzonti, alternativi alla crescita economica distruttiva, come la “piena salute”. Questa è uno stato di benessere persistente – fisico e psicologico, personale e sociale, umano ed ecologico – che accentui la natura olistica della salute, collegando quella mentale a quella fisiologica, quella individuale alla collettiva e l’umanità al pianeta.

Nella sua prima versione, del dicembre 2019, il Green Deal non menzionò la parola disuguaglianza. Oggi l’ingiustizia sociale, spinta dall’inflazione, sta minacciando le ambizioni ambientali dell’Unione Europea. Il rischio di deragliare dev’essere preso sul serio, il che significa raddoppiare questa ambizione, non tirarsi indietro.

Sono proprio le politiche di non transizione che minacciano le politiche di transizione. Ma non possiamo passare dagli shock al capovolgimento delle politiche e poi di nuovo agli shock, ammesso che questa sia una strategia. La transizione ecologica europea non è stata concepita come una postura reversibile, è invece una necessità vitale.

Éloi Laurent è stato uno dei relatori al convegno di giugno dei sindacati europei su ‘A Blueprint for Equality’ (Un programma per l’uguaglianza).

La strage di migranti e l’autolesionismo dell’Occidente

4 Lug


di Cosimo Perrotta

Nello spazio di pochi giorni si sono accumulati così tanti massacri di emigranti che, nell’opinione pubblica occidentale, la pietà ha lasciato il posto all’assuefazione. Certo, l’assuefazione alle tragedie e ai crimini è la grande medicina che ci permette di sopravvivere ma è anche un insidioso veleno che porta alla connivenza.

Il 23 giugno 2022 la polizia marocchina massacra 37 migranti dello stesso Marocco, che premevano per entrare a Melilla, colonia spagnola in territorio marocchino. I feriti vengono lasciati ad agonizzare sotto il sole, mentre il leader spagnolo, il socialista Pedro Sánchez, si complimenta col Marocco per “la straordinaria cooperazione” dimostrata. Sánchez aggiunge che le vittime erano criminali trafficanti di droga (cosa falsa).

Il 27 giugno a San Antonio (Texas) oltre 50 migranti sono morti per il caldo e la disidratazione, a causa dei respingimenti del governo Repubblicano. Il 29 giugno sono stati scoperti nel deserto libico 20 migranti morti di sete intorno alla metà di giugno. Anche in questo caso, le efferatezze dei trafficanti libici di esseri umani – spesso finanziati dal governo italiano – sono la vera causa di queste stragi periodiche.

Nelle stesse ore morivano annegati cinque migranti nel mare della Tunisia; anche qui con la complicità delle politiche di respingimento promosse dall’Italia e da altri paesi europei. Il 2 luglio è stato salvato un gommone di maliani dopo 10 giorni che era alla deriva; 22 di loro erano già morti. Gli annegamenti nel Mediterraneo ormai sono tanti che non fanno più notizia. Nel 2022, secondo l’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), sono stati finora 800.

Negli stessi giorni Human Rights Watch denuncia gli eccidi sistematici dei migranti nel mare greco-turco o al confine fra i due paesi. Il governo greco, di destra, tiene praticamente nascosti questi ripetuti eccidi e il fatto che molti poliziotti riducono in schiavitù i sopravvissuti con minacce e ricatti e con la complicità dei vertici della polizia.

Si faccia attenzione: tutti questi crimini, e tantissimi altri, sono perpetrati o consentiti dalle istituzioni occidentali, le stesse che si impegnano – con molte parole e pochi sacrifici – nell’appoggiare l’Ucraina contro il tiranno Putin (il quale, per imporre i suoi deliranti sogni di grandezza panrussa, pratica da sempre l’assassinio dei suoi avversari e le stragi di civili inermi).

Questo NON significa che siamo tutti uguali e che la lotta ai dittatori come Putin sia inutile. Al contrario. Questa lotta però perde parte della sua efficacia se l’Occidente esercita sui migranti la stessa ferocia che i vari Putin esercitano contro nazioni e popoli inermi.

Non è vero che la libertà è una sola; che “o c’è o non c’è”. Nei paesi democratici c’è una certa limitata libertà che va difesa con accanimento, ma che tende ormai sempre più a diventare la libertà dei benestanti contro gli sfruttati, i poveri e i disoccupati interni ed esterni.

Questa esiziale tendenza sta rischiando di uccidere la stessa democrazia. Secondo il World Democracy Index, l’indice mondiale di democrazia si sta abbassando: da 5,37 nel 2020, è adesso 5,28. I paesi “pienamente” democratici sono solo 21. In testa si trovano la Norvegia (9,75 punti su 10) con gli altri paesi scandinavi. L’Italia, con 7,4 punti, è al 31mo posto, fra i paesi a “democrazia imperfetta”. Ma si consideri che prima dell’Italia ci sono in graduatoria la Spagna di Sánchez, che ha scaricato il Fronte Polisario; il Cile, con l’economia che è ancora quella forgiata dai golpisti di Pinochet; Israele, che opprime ogni giorno i palestinesi; la Francia, che impone alla UE di accettare il nucleare come energia verde e mantiene i suoi ghetti di immigrati; e, naturalmente, gli USA, sì, quelli della licenza pratica di fare stragi nelle scuole, e dell’uccisione di giovani neri da parte della polizia. Poco sotto l’Italia si trova la Grecia, dove si perseguitano gli immigrati nel modo che abbiamo visto.

L’Europa paga 6 miliardi a Erdohan perché tenga reclusi i profughi siriani e afghani; e gli consente di perseguitare i curdi, gli unici che hanno sconfitto l’Isis. L’Europa inoltre spende per i campi profughi in Grecia soldi che in gran parte spariscono; mentre l’Italia vende enormi quantità di armi ad Al Sisi, l’assassino di Giulio Regeni.

Si consideri infine l’ottusità di questa oppressione dei migranti. L’Europa ha un fortissimo e urgente bisogno di mano d’opera giovane, a tutti i livelli di qualificazione, per rimediare all’invecchiamento, sempre più rapido. Ma, invece di accogliere e inserire i migranti, con una opportuna politica economica e culturale, li perseguita. Fa danno a se stessa e restringe sempre più la sua democrazia.

Il trattamento degli immigrati è ormai un crocevia fra democrazia e mancanza di libertà, fra sviluppo e depressione economica, che va a vantaggio delle rendite.

Carlo Rovelli: il pensiero critico motore della libertà

13 Giu


di Cosimo Perrotta

Carlo Rovelli, illustre fisico teorico e grande divulgatore, otto anni fa scrisse un piccolo libro, molto denso, che merita ancora una attenta lettura, tanto più in questi tempi di rampante irrazionalismo (1). Egli individua nel pensiero greco e nella scuola di Mileto (VI secolo a.C.) la radice del pensiero critico e scientifico su cui poggia la nostra civiltà. Mileto era una delle tante colonie greche, sulla costa anatolica, che impararono a gestirsi da sole e che rifiutarono il comando di un re.

Perché, si chiede Rovelli, la scienza non è nata in Egitto o in Cina o in Persia o in India, civiltà che erano all’epoca ben più fiorenti e regni ben più vasti e ricchi, delle piccole città greche? Perché in quei regni, e in tutti gli altri, il sapere, anche se coltivato con cura, era – possiamo dire – di tipo sapienziale; si riduceva cioè a una precettistica morale che attingeva la sua autorità a fonti esterne: la divinità, l’imperatore, la casta sacerdotale. Ognuno di questi saperi basati sulla tradizione aveva le sue mitologie, le sue interpretazioni astronomiche e astrologiche, ma non era mai sottoposto a indagine critica, mai messo in discussione. Era quindi un sapere legato al potere, e alla casta degli scribi, mandarini o sacerdoti, che lo conservava come un privilegio esclusivo.

Perché, invece, uomini di nessun potere, come Talete, Anassimandro, Assimene, rimasti tuttora abbastanza oscuri, sono gli iniziatori del sapere scientifico, a cui tutto deve la civiltà moderna? Perché essi cominciano a cercare risposte sulla realtà in base a quello che vedono e ai propri ragionamenti, non in base a quello che diceva la mitologia. E sono mossi dalla curiosità, cioè indagano. Anassimandro è il primo a pensare che i tuoni sono provocati dallo scontro fra le nuvole e non dall’ira degli dei; è il primo a capire che l’acqua evapora a causa del calore del sole e ricade in forma di pioggia. Soprattutto, è il primo a capire che la terra è un corpo finito che non poggia su niente e si muove nello spazio.

Questi primi filosofi non si vestono di autorità, non si aspettano che i loro allievi ripetano obbedienti quello che apprendono. Come loro argomentano e spiegano le loro tesi, così accettano che gli allievi argomentino e spieghino, e arrivino quindi a conclusioni diverse. Da questo nasce la scienza, dalla negazione dell’autorità nell’indagine sulla realtà. Questo è avvenuto anche nei grandi esempi, di Copernico che apprende da Tolomeo e poi lo contraddice, di Einstein che fa lo stesso con Newton, ecc.

Rovelli ricostruisce con grande efficacia e buona documentazione questo processo. Ad esempio nell’invenzione dell’alfabeto e la decisiva introduzionw fatta dai greci delle vocali, che essi inseriscono nell’alfabeto fenicio, creando così una scrittura universale, non legata ad un singolo linguaggio parlato. Oppure nel mescolarsi di varie culture (che è cosa ben diversa dal “relativismo culturale” che mette sullo stesso piano verità scientificamente provate e pregiudizi ideologici). O ancora nel legame tra costume critico e diritto di criticare il potere, che prevale nelle città-stato greche.

L’autore osserva che la grande avventura scientifica venne stroncata dall’avvento dei cristiani al potere nell’impero romano, quando gli ultimi scienziati – come Ipazia – vennero massacrati ad Alessandria e fu bruciata la grande biblioteca della città, che era fonte di ricerca per tutti i sapienti del Mediterraneo. Fu un’istanza del potere che spense la volontà di ricerca.

Egli riesamina poi la faticosa e timida ricostruzione del pensiero critico attraverso la scolastica medievale. Nel mondo moderno ci si è abituati a convivere con la fede, delimitando ambiti diversi fra questa e la scienza. Ma resta l’incompatibilità, dice Rovelli, tra la fede nelle verità assolute delle religioni monoteistiche e l’indagine critica. “Anassimandro – scrive – non ha convinto la maggioranza di noi umani” (p. 153).

Le tesi di Rovelli sono ineccepibili. Tuttavia l’autore trascura il fatto che anche la cultura non scientifica e l’atteggiamento emotivo o fideistico hanno dato talvolta notevoli contributi al progresso umano.

Infine Rovelli esamina alcuni studi recenti che spiegano la prevalenza dei miti sul piano antropologico. Egli contesta l’idea, che si ripresenta tenacemente nell’ambito della fede, che senza dio l’uomo si abbandona al proprio egoismo e non ha una guida morale. Ha ragione. La moralità non nasce dalla fede ma dal graduale consolidarsi del costume nell’ambito del gruppo sociale.

In definitiva, afferma Rovelli, l’indagine critica è “la scoperta che è possibile compiere rivoluzioni scientifiche”. Per questo la conoscenza “nasce da un atto di ribellione … contro il sapere del presente”. E ancora: “Il lato temibile ma affascinante” dell’avventura iniziata da Anassimandro è di “riconoscere e assumere la nostra ignoranza” e “accettare la nostra incertezza” (pp. 176-77).

(1) Carlo Rovelli, Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro, Mondadori 2014.

M. Mazzucato per un nuovo patto sociale

15 Nov

Mariana Mazzucato su Social Europe del 14 ott. 2021 lancia un manifesto per un nuovo patto sociale. Lo riassumiamo, sottoscrivendolo dalla prima all’ultima parola.

Sta per sparire il Washington Consensus, che ha dominato per almeno 50 anni e che teorizza il neoliberismo. Il Comitato per la resilienza economica dei G7 (dove l’autrice rappresenta l’Italia) chiede un rapporto radicalmente diverso fra settore pubblico e privato.

I postulati responsabili dell’attuale disastro, sono stati teorizzati dal Washington Consensus, praticati da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale e hanno guidato le istituzioni. Essi hanno esacerbato le disuguaglianze e perpetuato la subordinazione del sud del mondo. Nel 2020 abbiamo evitato per poco un collasso economico a causa del Covid, e oggi dobbiamo affrontare rischi senza precedenti, incertezza, moti sociali e catastrofi climatiche. I leader mondiali devono scegliere fra sostenere ancora un sistema economico fallimentare o buttare a mare il Washington Consensus e sostituirlo con un nuovo contratto sociale.

L’alternativa è il “Cornwall Consensus” (Consenso di Cornovaglia), emerso dall’incontro dei G7 del giugno scorso. Mentre il Washington Consensus riduceva al minimo il ruolo economico dello stato e promuoveva un’aggressiva politica di deregulation, privatizzazione e iper-liberismo, il nuovo Consenso rafforzerebbe l’economia pubblica, permettendoci di perseguire fini sociali, costruire una solidarietà internazionale e riformare il governo mondiale nell’interesse del bene comune.

Garanzie e investimenti dello stato e degli organismi multilaterali verrebbero concessi a condizione di una rapida decarbonizzazione, invece della liberalizzazione del mercato che il FMI esige per gli aiuti strutturali. I governi passerebbero dal riparare (cioè intervenire solo a danno compiuto) al preparare (anticipare le misure per proteggersi da danni futuri), dalla riparazione reattiva dei fallimenti del mercato al plasmare in modo pro-attivo i tipi di mercato che ci servono per un’economia verde. Questo permetterebbe di sostituire la redistribuzione con la pre-distribuzione, mediante progetti guidati pubblico-privati che creerebbero un’economia equa, sostenibile e resiliente.

Tutto ciò, spiega la Mazzucato, è necessario perché il vecchio modello non produce più vantaggi per la maggioranza, se mai lo ha fatto. Esso si dimostra incapace di reagire agli shock economici, ecologici ed epidemiologici. Con gli accordi voluti dal quel modello, è stato sempre difficile raggiungere gli obbiettivi del Programma ONU di sviluppo sostenibile del 2015. Ma durante l’epidemia è stato addirittura impossibile.

Siamo sull’orlo di un cambio di paradigma, atteso a lungo ma reversibile. Molte istituzioni economiche sono ancora governate dalle vecchie regole, che impediscono di dare le risposte necessarie per metter fine alla pandemia. Per non parlare dell’obiettivo, fissato dall’Accordo di Parigi sul clima, di non superare il surriscaldamento di 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali.

Il rapporto dei G7 sottolinea innanzitutto l’urgenza di rafforzare la resilienza mondiale contro rischi e shock futuri, sia acuti (la pandemia) che cronici (disuguaglianze estreme e polarizzazione dei redditi). Chiede un radicale cambiamento di parametri nel misurare lo sviluppo economico, passando da crescita di PIL, valore aggiunto lordo o profitti finanziari al raggiungimento di obbiettivi comuni.

Chiediamo equità nella distribuzione dei vaccini, nel finanziamento dei programmi sanitari e nell’accesso alle innovazioni che aiutano la popolazione e che sono state finanziate dallo stato. Questo esige un approccio nuovo sui diritti di proprietà intellettuale. Anche il Consiglio per l’economia della salute pubblica (dell’Organizzazione Mondiale della Sanità), presieduto dalla stessa Mazzucato, afferma che la politica della proprietà intellettuale va riformata perché la conoscenza è frutto di un processo collettivo di creazione di valore.

Inoltre nella Commissione del G7 si chiedono maggiori investimenti pubblici per il recupero post-pandemico e si appoggia la proposta di Nicholas Stern di aumentare questa spesa del 2% del PIL l’anno, arrivando a mille miliardi annui fino al 2030. Ma non basta aver i soldi, è importante come si spendono. L’investimento pubblico va regolato con nuovi meccanismi contrattuali e istituzionali che incentivino la creazione di valore di lungo periodo anziché il profitto privato di breve periodo.

Infine, per rispondere alla sfida più grande, la crisi climatica, chiediamo di creare un CERN per la tecnologia climatica (come fu fatto il CERN per la ricerca sull’atomo) per ricerche su come decarbonizzare l’economia, convogliando investimenti pubblici e privati in progetti ambiziosi, come l’eliminazione della CO2 dall’atmosfera o soluzioni a carbone zero per le industrie inquinanti che non si possono chiudere, come navi, aerei, settori del siderurgico e del cemento. Questa istituzione multilaterale e interdisciplinare agirebbe da catalizzatore per dar forma a nuovi mercati di energia rinnovabile e di produzione circolare.

Solo una nuova cooperazione fra stati, conclude Mazzucato, cioè un nuovo contratto sociale, può impedire che le crisi future crescano e si incastrino l’una con l’altra.

A new global economic consensus

“Quei soldi all’energia sporca”

19 Ott

Dopo un allarme lanciato dal ministro Cingolani e ben reclamizzato sul rincaro delle bollette del gas e dell’elettricità del 40%, il governo decise il 23 settembre scorso di dare sussidi ai consumatori per affrontare il rincaro. Ma questo provvedimento ha suscitato le giuste proteste degli ambientalisti, perché i sussidi riguarderanno anche l’energia da idrocarburi, ed ha creato perplessità fra molti ricercatori, perché si estende anche alle famiglie benestanti (vedi ad esempio Massimo Lombardini, in ISPI, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, online, 8 ott.).

Su questo problema l’articolo di Carlo Cottarelli, su Repubblica del 24 settembre, “Quei soldi all’energia sporca” è una decisa critica alle politiche ambientali del governo. Scrive l’autore: il governo ha stanziato un sussidio di 1,2 miliardi per il terzo trimestre di quest’anno e di 3-3,5 miliardi per il quarto trimestre. Il sussidio pesa quindi in termini annuali dai 12 ai 14 miliardi, che è ben più dei 7 miliardi spesi nel 2020 per il Reddito di cittadinanza.

Questo nuovo macigno sui conti pubblici, già abbastanza disastrati, è in parte inevitabile perché evita il collasso economico delle famiglie indigenti. Ma, nota l’articolo, il sussidio va molto oltre questa necessità. Esso andrà a beneficio di ben 29 milioni di utenze domestiche, comprendendo quindi anche quelle a reddito più alto. Perché, si chiede l’autore, dare soldi ai benestanti sul cui reddito l’aumento dell’elettricità e del gas certamente non pesa molto e che, per di più, consumano energia molto più degli altri? Eppure “la Commissione Europea ha raccomandato di limitare i sussidi solo a chi ne ha davvero bisogno”.

Non solo questo. L’aumento delle bollette è per l’80% dovuto all’aumento del prezzo internazionale del prodotti energetici (notiamo che questo aumento è dovuto essenzialmente – oltre che ad alcuni fatti contingenti citati dall’autore – alla ripresa post-Covid, la quale sta esprimendo un forte e subitaneo aumento della domanda. L’aumento di domanda sta generando scompensi nell’offerta di molti beni, anche perché il lungo digiuno di vendite durante il Covid ha spinto le imprese a consumare le scorte). Ma il 20% dell’aumento delle bollette deriva dall’aumento di prezzo dei permessi di emissione di CO2 rilasciati dalla UE. Questo aumento è dovuto alla politica UE di scoraggiare progressivamente la produzione di CO2.

Quindi, osserva Cottarelli, oltre a sussidiare i consumi dei ricchi, si sussidiano le imprese incoraggiandole a proseguire come prima nelle quantità di emissioni. Qual è la coerenza di questa politica che dovrebbe avviare la transizione ecologica? Qui non ci sono soltanto le conseguenze negative dei “sussidi generalizzati”, che tutti – istituzioni internazionali ed esperti dell’ambiente – ritengono nocivi, ma c’è anche il fatto che “si sussidia l’energia sporca”. L’autore osserva: “Si dirà che altri Paesi europei fanno la stessa cosa. Ma come è compatibile una politica di sussidio all’energia sporca con gli obiettivi della transizione energetica che, a parole, i Paesi europei considerano come fondamentale?”

Cottarelli ha ragione da vendere (a prezzo non sussidiato!). Del resto, non si dimentichi che il ministro Cingolani, appena nominato, firmò tutti i permessi lasciati in sospeso per l’esplorazione dei giacimenti di idrocarburi e che sostiene ancora il progetto ENI di sotterrare la CO2 al di sotto del mare. Sempre Cingolani ha affermato – con brillante sillogismo – che per avviare la produzione dell’energia verde bisogna intanto potenziare l’uso dell’energia “sporca”; e si è fieramente opposto all’applicazione della normativa UE sul divieto delle plastiche monouso, ottenendone – insieme con Bonomi – un ennesimo rinvio. Ricordiamo ancora – a proposito di energia sporca – che solo in Italia gli incentivi per acquistare un’automobile non valgono solo per le auto elettriche ma anche per quelle diesel e a benzina. Il risultato è che da noi ci sono 100mila auto totalmente elettriche mentre in Germania sono un milione.

Il Fondo Monetario Internazionale e Legambiente stimano che l’Italia ha erogato intorno ai 35 miliardi di euro per sussidi “espliciti e impliciti” ai combustibili fossili (GreenReport.it, art. di Umberto Mazzantini del 7-X-2021). Detto questo, però, l’Italia è in “buona compagnia”: lo stesso articolo ci informa che – sempre secondo il FMI – quasi 6mila miliardi di dollari (5,9 esattamente) sono stati spesi nel 2020 nel mondo per sussidi ai combustibili fossili (il 6,8% del Pil mondiale).
Di questo passo non ridurremo mai veramente l’uso di carbone, petrolio, metano e gas.

“Pubblico è meglio”

12 Lug


di Antonio Giuseppe Pasanisi

Da diversi mesi è tornata al centro di convegni e pubblicazioni la discussione intorno all’intervento pubblico nelle dinamiche economiche, per lungo tempo osteggiato dalla narrazione neoliberista in quanto sinonimo di intralcio al libero dispiegarsi del mercato e della modernizzazione. Con il proposito di capovolgere la vulgata anti-statalista, ancora tenacemente radicata, il libro Pubblico è meglio, la via maestra per ricostruire l’Italia – recentemente edito da Donzelli e curato dai giornalisti Altero Frigerio e Roberta Lisi – raccoglie interviste a noti personaggi che si interrogano sul ruolo che, alla luce dei significativi provvedimenti pubblici di sostegno a lavoratori e imprese nei mesi più duri della pandemia, dovrà assumere lo Stato nella costruzione dell’Italia futura, con particolare riferimento alla gestione delle ingenti risorse del PNRR.
Il docente di Economia politica Andrea Roventini, ad esempio, ritiene che lo Stato, attraverso rilevanti investimenti pubblici nella ricerca, possa recitare un ruolo strategico di stimolo alla crescita economica (pp. 63-67). Egli auspica uno Stato innovatore che, nel fissare gli obiettivi strategici di lungo periodo, stabilisca feconde sinergie tra il settore pubblico, le grandi imprese partecipate dallo Stato e l’ambito privato, al fine di sviluppare quelle tecnologie adeguate ad affrontare le sfide incombenti (cambiamento climatico, mobilità sostenibile, qualità della vita nelle città, ecc.).
Anche Gianna Fracassi, vicesegretaria generale della CGIL, esorta ad abbandonare un paradigma economico basato solo sulla crescita del PIL, e a costruire uno scenario in cui, lungi dal sostituirsi all’impresa privata, il pubblico ha funzione di coordinamento e di indirizzo verso un nuovo modello industriale; un modello caratterizzato dalla ripresa delle filiere produttive (in particolare quelle manifatturiere, abbandonate dopo decenni di esternalizzazioni), dalla riconversione ecologica (attraverso la decarbonizzazione e l’economia circolare) e dalla digitalizzazione (pp. 79-82).
Sulla salute pubblica, l’ex ministro della Sanità Rosy Bindi suggerisce un nuovo modello, governato dalla programmazione e da regole chiare per la salvaguardia del bene salute, che armonizzi interessi pubblici e privati. Bindi, inoltre, avverte l’urgenza di investire notevoli risorse pubbliche nella ricerca di base, di rafforzare il ruolo delle università nella formazione di professioni sanitarie, di individuare una nuova classe politica che abbandoni le logiche clientelari e partitiche nelle nomine di direttori Asl e primari, e restituisca centralità ai diritti fondamentali delle persone e all’interesse della comunità (pp. 114-117).
Inoltre l’ex ministro per i Beni Culturali Massimo Bray individua nella scuola pubblica il motore della ripresa, non solo economica ma anche civile e sociale, del nostro Paese (1). Per questo occorrono, però, cospicui investimenti nell’edilizia scolastica, nell’aggiornamento professionale degli insegnanti, per stabilire un rapporto più equilibrato tra docenti e studenti (mai più classi pollaio!), nella lotta alla dispersione scolastica (rinsaldando la presenza dello Stato nei territori più svantaggiati attraverso i legami con i servizi di welfare e assistenza sociale), nel ripristino di alcune eccellenze del passato (come la scuola a tempo pieno), nel recupero del nostro patrimonio storico-artistico e ambientale (pp. 125-135). Quest’ultimo proposito, mirante a potenziare il senso critico dei cittadini, è al centro della riflessione dello storico dell’arte Salvatore Settis, il quale ritiene improrogabili gli investimenti pubblici nella tutela dei beni culturali attraverso il rafforzamento delle Soprintendenze, da troppo tempo a corto di personale adeguato, per sorvegliare i territori (pp. 142-147).
Per quanto concerne la qualità della vita nei centri urbani, nel denunciarne gli attuali disservizi, l’urbanista Paolo Berdini ritiene indispensabile una guida pubblica nel ricostruire un senso di comunità nelle città perseguendo due obiettivi fondamentali: colmare le divaricazioni sociali sempre più accentuate tra centro e periferie e recuperare le aree interne del Paese, sottoposte a un progressivo spopolamento negli ultimi anni (pp. 155-158).
In conclusione, la giornalista M. Di Sisto ci invita a non considerare l’auspicata centralità dello Stato nell’ottica riduttiva di soluzioni di corto respiro (bonus e sussidi in prossimità delle elezioni, misure una tantum finalizzate ad effimere crescite di PIL, ecc.), ma ad attribuirle una funzione di salvaguardia dell’interesse pubblico attraverso la promozione dei diritti, la protezione dei beni comuni, la garanzia dei diritti essenziali per un’esistenza dignitosa, al fine di evitare che questi aspetti siano piegati alle logiche dell’interesse particolare (pp.201-202).

(1) Dello stesso avviso sono i promotori del Manifesto per la nuova scuola, pubblicato su change.org e sottoscritto da numerosi intellettuali.

Per una tassa europea sulla ricchezza

14 Giu


di Foundation for European Progressive Studies e Renner Institut – marzo 2021

Questo studio propone una tassa europea per “un rilancio giusto e verde” dell’economia. Pubblichiamo qui, in traduzione, il testo quasi completo delle conclusioni.

Conclusioni
….
Primo. [Secondo la BCE] nei paesi dell’euro la ricchezza delle famiglie è molto concentrata: l’1% più ricco possiede il 32% del totale della ricchezza netta, mentre il 50% più povero delle famiglie ne possiede solo il 4,5%. Ciò significa che le famiglie più ricche hanno la possibilità di pagare i costi del Covid-19 e della crisi climatica molto di più di quanto si prevedesse. Tassare l’1 o il 3% più ricco … può essere giustificato [anche] dal fatto che i più ricchi lasciano un’impronta CO2 maggiore. … Molti europei percepiscono come giuste le tasse sulla ricchezza perché rendono possibile ridurre o addirittura invertire la tendenza verso un crescente concentrazione della ricchezza. Quindi queste tasse possono essere uno strumento decisivo per ottenere il sostegno pubblico per una transizione verso un’economia a bassa intensità di risorse e carbon neutral … che si allontani dall’energia fossile. Infatti tassare la ricchezza danneggia meno la ripresa post-Covid delle tasse sul consumo.

Secondo. Questo studio dimostra che una tassa sulla ricchezza netta può dare introiti sostanziali anche in presenza dell’evasione fiscale. [Il potenziale di questa tassa è sottostimato nei nostri calcoli]. … La sola altra tassa discussa in questo studio che mostra un potenziale di entrate pubbliche simile è una tassa complessiva sul reddito delle imprese, armonizzata con una percentuale minima del 35% su tutti i paesi UE. [Questa] insieme con la ricchezza netta possono rendere fra 301 e 1.027 miliardi di entrate. Questo sarebbe un grande passo verso la mobilitazione degli 855 miliardi di euro l’anno che sono necessari per la trasformazione carbon neutral dell’economia (Wildauer et al. 2020).

Terzo. Una combinazione fra scelte oculate, più risorse e migliori infrastrutture nell’organizzazione dell’esazione delle tasse renderebbe possibile la tassa sulla ricchezza netta. Per le scelte oculate, una soglia di esenzione fra 1 e 2 milioni, non solo renderebbe esente fra il 97 e il 99% delle famiglie ma, combinato con una larga base imponibile e con una tassazione progressiva, eliminerebbe molti dei problemi della tassazione che in passato l’hanno resa incerta, come la mancanza di liquidità dei soggetti tassati e le scappatoie create dalle regole per l’esenzione.

[Bisognerebbe] attrezzare l’apparato fiscale di infrastrutture appropriate, come database per la valutazione degli immobili. Esistono esempi pratici, come la valutazione in Svizzera o l’esame di terze parti in Norvegia che si possono usare come punti di riferimento. …

E’ opportuno che questa tassa sia istituita a livello europeo perché ciò riduce lo spazio per l’evasione e l’elusione fiscale e rafforza il potere delle autorità fiscali. Questa tassa non solo fornirebbe le risorse necessarie per trasformare l’Europa in una società sostenibile ma sarebbe uno strumento molto efficace per ridurre la concentrazione della ricchezza nelle mani dell’1% più ricco (circa 1,9 milioni di famiglie nell’area euro) che adesso detiene il 32% della ricchezza totale.

Infine, usare questa tassa per collegare e potenziare le autorità fiscali in Europa e le loro infrastrutture, soprattutto beneficiando di registri di proprietà, fornirebbe un dividendo di equità nella forma di un’accresciuta capacità dell’Europa di combattere efficacemente l’evasione e il crimine organizzato in generale.

La “scuola per restare” fra Pisticci e San Mauro Forte (MT)

17 Feb

“del mio paese mi piace lo stare abbandonatamente nelle cose” – Alfonso Guida

Nelle giornate del 22 e 23 Febbraio, “Daìmon, A scuola per restare restare” attraversa la Basilicata in una serie di incontri nei paesi di Pisticci e San Mauro Forte in provincia di Matera.

“Daìmon: A scuola per restare”è una scuola itinerante che nasce in Salento, è multidisciplinare, inclusiva, gratuita e accessibile a grandi e piccini; senza porte e finestre, senza pagelle e attestati, senza compiti e calendari da rispettare; con luoghi di apprendimento disseminati nei campi, nelle cantine e nelle botteghe, diffusa nei paesi e nei paesaggi d’Italia. Una scuola adatta a chi vorrà abitare poeticamente e civicamente i propri territori e a chi vorrà conferire pienezza al proprio re-stare.

Gli appuntamenti lucani coordinati da Gianluca Palma ( ideatore della scuola) e Luigi Vitelli ( cultural project designer) saranno declinati sul tema dello spopolamento dei territori fragili del Sud Italia e soprattutto sulle opportunità che tali luoghi esprimono a partire dal contributo delle comunità creative che li abitano. Continua a leggere