I miti del Sud – febbraio 2018
Nella Prefazione alla celebre antologia Il Sud nella storia d’Italia (Laterza, 1961), da lui curata, R. Villari scrive: “Una delle immagini che la polemica meridionalistica ha creato e diffuso più largamente nell’opinione pubblica è quella del Mezzogiorno sfruttato, come riserva finanziaria e come ‘mercato coloniale’, ai fini della formazione di un moderno apparato industriale nel Nord: a questo fatto fondamentale sono stati ricollegati in gran parte gli imponenti fenomeni che hanno caratterizzato l’esistenza della questione meridionale, dall’emigrazione alla corruzione politica dei ceti dominanti”.
Poco dopo Villari aggiunge che quell’idea “non è facilmente conciliabile (…) con la constatazione dell’arretratezza, dell’immobilismo semifeudale e dell’estrema povertà del mercato nelle regioni meridionali”. Egli spiega che la protezione dell’industria ha pesato su tutta l’agricoltura nazionale e ha creato difficoltà nei rapporti tra agricoltura e industria, e aggiunge che “il problema non è più soltanto di sapere in che misura il Mezzogiorno ha contribuito, in modo subalterno e sussidiario, all’industrializzazione, ma di approfondire le ragioni storiche di questo ‘sacrificio’, le condizioni strutturali in cui esso è avvenuto e le conseguenze che ha avuto non solo nell’Italia meridionale ma in tutto il paese”.
Per l’autore inoltre: “piuttosto che un forzato contributo finanziario all’industrializzazione, che certo non è mancato e che ha ostacolato i nuclei di borghesia agraria moderna e attiva, il fatto centrale consiste in una più radicale ‘rinunzia’ ad utilizzare nel processo di ammodernamento del paese le potenziali risorse umane, economiche, politiche ed intellettuali del Mezzogiorno”. Il tema cruciale della formazione dei ceti medi nel Sud e delle loro caratteristiche verrà ripreso in un lucidissimo brano di Luigi Blanch che Villari riporta e commenta più avanti.
Per tornare alla Prefazione, Villari osserva che l’accento va messo sui programmi e “sui tentativi che concretamente sono stati fatti per superare il dislivello tra le due parti de paese e per creare le condizioni politiche di questo superamento”. C’è una contraddizione, nota l’autore fra “l’ampiezza degli obbiettivi che i meridionalisti (e, in determinati momenti, le forze di governo) si sono posti e l’inadeguatezza, politica e tecnica, dei rimedi indicati”. Egli aggiunge che la struttura liberale dello stato risorgimentale non consentiva un approccio adeguato alla questione meridionale. Solo lo stato democratico, frutto della liberazione nazionale del secondo dopoguerra, ha permesso di valutarla adeguatamente.
Nel presentare un interessantissimo brano de La scienza della legislazione di Gaetano Filangieri (1781-83), Villari scrive: “Lo sviluppo demografico e urbanistico di Napoli, che si verificò con crescente intensità dal XVI al XVIII secolo, fu avvertito dai riformatori napoletani come un fatto essenzialmente negativo. Centro di consumo e di concentrazione della grossa rendita fondiaria, Napoli vive a spese delle campagne e dell’economia agricola, ingrandita da masse di contadini che la miseria, dovuta al peso della rendita parassitaria ed alla prevalenza della grande proprietà terriera, spinge verso i centri urbani, dove perdono la loro funzione di ‘produttori’ per assumere quella di ‘servitori’ o ‘medicanti’; l’ingrandimento della capitale e la concentrazione della ricchezza in un solo punto della nazione (nati in gran parte dagli squilibri esistenti nelle campagne e specialmente dalla ‘riunione di molte proprietà nell’istesse mani’ [parole di Filangieri] soffocano e impoveriscono a loro volta le fonti stesse di quella ricchezza, le campagne, l’agricoltura. E’ questo il nucleo centrale dell’analisi che fa il Filangieri del rapporto tra Napoli e le province”.
Villari osserva poco dopo che l’importanza di quelle pagine di Filangieri sta “nel fatto che esse sottolineano il legame esistente tra il problema di Napoli e il problema generale dello sviluppo economico-sociale del Regno e mirano a colpire uno dei nodi essenziali della politica borbonica: la quale, puntando già allora sull’accentramento amministrativo e sulla concentrazione a Napoli della spesa pubblica, favoriva il permanere e l’aggravarsi dello squilibrio economico e sociale del Regno”.