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Conversazioni sul Mezzogiorno Ep. 6

24 Apr

Oggi nuovo episodio https://open.spotify.com/episode/6Sa6baJTXh1cD0mk1BUIb1?si=gQsl8tleTFyT6DQf_jmbwQ

Buon 25 aprile a tutte/i!

11 Apr

La cattiva occupazione nel Sud e le sue conseguenze

2 Apr


di Cosimo Perrotta – 2-4-2024

Qualche anno fa Mario Draghi fece una distinzione, elementare ma fondamentale, fra spesa pubblica cattiva (quella che crea rendite e spreco) e spesa pubblica buona (gli investimenti, che creano occupazione produttiva). Una distinzione simile si può applicare all’occupazione (come ho fatto nel seminario di Humanfirst del 14 marzo scorso).
C’è infatti un’occupazione cattiva, basata sul lavoro precario, mal pagato e non protetto, e un’occupazione buona, che assicura contratti non a termine, salari decenti e garanzie sul lavoro. L’occupazione cattiva domina nei lavoretti (“gig economy”), nelle consegne a domicilio, i call center, i lavori stagionali dell’agricoltura e del turismo, la ristorazione, l’edilizia, il commercio al minuto. Ma essa è ormai largamente presente anche nelle fabbriche, soprattutto attraverso il meccanismo degli appalti a cascata, delle false cooperative e delle false partite IVA, tutti strumenti fraudolenti (anche se spesso legalizzati) per sfruttare maggiormente il lavoro dipendente.
Anche per l’occupazione la distinzione è elementare ma fondamentale. Innanzitutto per smentire le statistiche ingannevoli diffuse spesso dalle fonti ufficiali. Queste statistiche registrano come occupate anche le persone che hanno lavorato per poche ore in un mese. Dati di questo genere fanno pensare a chissà quale sviluppo economico sia in atto, quando in realtà l’economia italiana è ferma da 25 anni. Ma quella distinzione è importante soprattutto perché i due tipi di occupazione danno risultati economici e sociali opposti.
La buona occupazione fornisce una domanda robusta e una produzione in crescita, assicura benessere, aumento della produttività, innovazione e migliore qualità. Insomma, permette lo sviluppo. Questo complesso di fattori positivi, però, in Italia si va assottigliando sempre più, e nel Sud si riduce molto più rapidamente che nel Centro-Nord. La cattiva occupazione invece crea una domanda di beni finali insufficiente, si basa su lavoro dequalificato, non motiva i lavoratori, scoraggia l’innovazione e quindi deprime gli investimenti sia privati che pubblici.
L’attuale governo ripete all’infinito che non bisogna disturbare “chi produce ricchezza”, cioè le imprese private; come se queste fossero l’unica e certa fonte di ricchezza. Per questo motivo si lasciano correre, con mille marchingegni, l’evasione fiscale, gli appalti incontrollati, il caporalato, l’iper-sfruttamento dei lavoratori. Ma una tale politica impedisce proprio quella produzione di ricchezza che si vuole incoraggiare; perché fa calare allo stesso tempo la produttività e la domanda di consumi.
Per di più, il governo finanzia le imprese attraverso una parte crescente delle entrate pubbliche. Il risultato è che l’occupazione pubblica deperisce; i suoi servizi (trasporti pubblici, asili-nido, scuole, sanità, affitti), che sono la necessaria integrazione dei redditi più bassi, diventano inefficienti; e ciò deprime ulteriormente la domanda di beni finali. Perciò le imprese, non avendo prospettive sufficienti di vendita, riducono ancor più gli investimenti, e impiegano i lauti finanziamenti governativi in attività improduttive, come la speculazione finanziaria o immobiliare, quando non li imboscano nei paradisi fiscali. L’avvitamento verso il basso dell’economia è particolarmente forte al Sud, come sempre accade per le aree meno dinamiche e più povere. Se queste politiche non cambiano rapidamente, la crisi economica e quella culturale di gran parte del Sud diventeranno irreparabili. Le proiezioni dei demografi prevedono che nel 2080 il Nord avrà perso ca. il 10% della popolazione del 2022, il Centro poco più del 20%, ma il Sud perderà ben il 40%, creando uno spopolamento economicamente devastante.
Infatti, la disoccupazione ha creato un esodo massiccio verso il Nord, alla ricerca del lavoro. A ciò si aggiunge una carenza di servizi pubblici e di sostegno così grave che le famiglie rimandano sempre più la decisione di fare figli. Infine, i lavoratori poveri dell’economia precaria spesso non sono autosufficienti e non possono permettersi di fare figli. Ma non basta.
La povertà crescente del Sud non impedisce il diffondersi dei modelli culturali tipici delle aree più avanzate. Nel Sud è scomparsa la natalità non programmata della società contadina. Come nelle aree sviluppate, si è imposta la transizione demografica: le famiglie, una volta raggiunto un certo benessere, lo difendono facendo meno figli. La denatalità nel Sud, quindi, è in parte frutto del benessere, come per la Svezia o la Germania, ma per un’altra parte è frutto della carenza di garanzie lavorative e di servizi pubblici. È esattamente questa sovrapposizione che porta il Sud Italia a soffrire di un calo di natalità molto maggiore di quello dell’Europa ricca.
Questa doppia radice della denatalità del Sud ci porterà al collasso. A meno che non ci decidiamo ad accogliere gli immigrati e a favorire il loro inserimento produttivo.

Conversazione sul Mezzogiorno n. 5

28 Mar

Conversazioni sul Mezzogiorno – 4° Episodio

14 Mar

Conversazioni sul Mezzogiorno – Episodio 2

22 Feb

Su Spotify puoi ascoltare in podcast, oltre al primo, anche il secondo Episodio di Conversazioni sul Mezzogiorno:

Episodio 1
https://open.spotify.com/episode/1DSP3eeom6pKjObiQiW6lu?si=n9rScr1-RYmcd2QJGsYbpA

Episodio 2
https://open.spotify.com/episode/5qBAtvuVYyLzEHmRlUXiOu?si=zTt46k9ZSsaWpuoRPIBxQQ

Le Conversazioni sono esposizioni sintetiche sulle cause storiche e strutturali dell’arretratezza del Sud d’Italia dal medioevo ai nostri giorni. Durano 15 minuti ciascuna, e sono preparate ed esposte da Cosimo Perrotta, alcune, e da Claudia Sunna, altre. L’idea e la direzione sono di Gianluca Palma.

Le Conversazioni sono un aggiornamento delle ricerche fatte dai due autori per il libro L’arretratezza del Mezzogiorno. Le idee, l’economia, la storia, di Autori Vari, a cura di C. Perrotta e C. Sunna, Milano: Bruno Mondadori, 2012.

G. Viesti: il PNRR per guardare di nuovo al futuro (II parte)

4 Lug


di Cosimo Perrotta

Il problema più grave che il PNRR non ha affrontato è la debolezza amministrativa del Sud e di altre aree arretrate, che è stata aggravata dalle politiche di austerità. E’ questo che rende così lenta la realizzazione di opere pubbliche nel Sud (cap. VI, p. 6). Il Sud ha bisogno degli investimenti del Piano più degli altri. Ma la mancanza di personale qualificato impedisce ai suoi Comuni di elaborare progetti appropriati per concorrere ai finanziamenti. Né il Piano prevede un aumento degli organici dei Comuni. E’ quindi prevedibile che i finanziamenti andranno a chi ne ha meno bisogno, cioè ai comuni delle aree più sviluppate.

La stessa logica perversa emerge nei territori: università, complessi scolastici, strutture idrauliche, trattamento dei rifiuti, ecc.

Detto tutto questo, il Piano prevede la creazione di una grande rete digitale che registri tutti i dati degli utenti dei servizi pubblici e delle strutture pubbliche, grandi reti elettriche, un forte potenziamento dell’alta velocità, dei collegamenti ferroviari da costa a costa e delle linee regionali. Al Sud dovrebbe andare il 61% dei finanziamenti per le ferrovie, per recuperare in parte il suo grave ritardo. Il rilancio nazionale delle ferrovie ripara la stortura attuata negli anni Sessanta che privilegia i trasporti su gomma.

Una particolare attenzione è riservata alle città, i cui investimenti sono anch’essi diminuiti negli ultimi decenni. Ci sono grandi progetti per l’attività culturale, l’edilizia residenziale, quella scolastica e giudiziaria, la mobilità ciclistica. Lo stesso vale per la rigenerazione urbana di aree degradate, con maggiore attenzione alle città e regioni più deboli.

Ma anche per questo aspetto, si sente la mancanza di un progetto coerente. Non viene contrastata l’emarginazione delle aree più deboli, come quelle montane. Lo stesso si può dire sugli asili-nido, le cui allocazioni sono state decise in base al dato presunto della popolazione del 2035, il che dà esiti incerti. Per i nidi, 1.700 Comuni (alcuni anche al Nord) non hanno partecipato ai bandi di gara (cap. IX, p. 6); il che contraddice l’obbiettivo del Piano di offrire un nido a tutti i bambini italiani.

Ci sono inoltre 6 miliardi per palestre, mense e ristrutturazione delle scuole (cap. IX, p. 7); e 2,1 miliardi per nuove tecnologie, ma col 60% vincolato ai computer, di cui molte scuole sono già ben fornite.

Per le università, un settore che soffre da decenni di gravi tagli, è prevista una tale massa di finanziamenti da far pensare, dice l’autore, a un diluvio su un terreno ormai inaridito. Inoltre i finanziamenti previsti sono una tantum e non riguardano le risorse correnti, di cui invece c’è urgente bisogno. Il risultato sarà che la gran quantità di personale assunto pro tempore per attuare i progetti previsti dal Piano produrrà fra pochi anni degli spostati in cerca di collocazione. Analogamente, gli oltre 47mila posti-letto per studenti universitari saranno ottenuti finanziando i locatari privati per tre anni. Dopo di che, come è facile prevedere, si avrà un forte aumento degli affitti.

Le imprese riceveranno ben 38 miliardi (in aggiunta, notiamo, ai già cospicui finanziamenti che già ricevono e che variano fra i 20 e i 30 miliardi l’anno) per la digitalizzazione, la decarbonizzazione, ecc. Ma, di nuovo, manca – a differenza della Germania – una strategia industriale del paese. Inoltre l’aver privilegiato la manifattura rischia di polarizzare ancor più l’industria nelle regioni più industrializzate: Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Per la sanità, il Piano punta molto alla prevenzione, ai servizi territoriali, a Ospedali di comunità.

In conclusione il Piano, dice l’autore, sembra avere gli stessi difetti delle altre politiche di coesione in Italia: moltissimi interventi previsti ma le amministrazioni che dovrebbero attuarli, centrali e locali, sono troppo deboli e troppo lente. Questi difetti si estendono a tutto il paese. Il Piano “non riuscirà a cambiare l’Italia” in così pochi anni (cap. XIV, p. 1). Tuttavia esso è frutto di una svolta culturale importantissima dell’Europa, che supera l’austerità.

Il Piano sarà tanto più efficace quanto più si darà importanza al riequilibrio territoriale e si fisseranno finalmente i livelli essenziali di prestazione (Lep), voluti dalla Costituzione. Questo permetterà di garantire a tutti i servizi pubblici essenziali (scuola, salute, trasporti pubblici e P.A.). Permetterà anche di contrastare l’ideologia, ancora dominante, che vede il mercato come supremo regolatore della società; un’ideologia che fa comodo ai privilegiati e agli evasori fiscali. Soprattutto il PNRR è importante perché ci permette di guardare di nuovo al futuro e di programmare le nostre iniziative in questa prospettiva.

Trovo convincente questo libro su tutto, le critiche, ben documentate, i meriti attribuiti al Piano, i timori su come verrà attuato e la grande speranza per lo sviluppo futuro. Il PNRR può diventare il grimaldello per scardinare l’austerità e i suoi interessi oscuri, e per rispettare un po’ di più i bisogni della gente e i suoi diritti.

G. Viesti: il PNRR per guardare di nuovo al futuro (I parte)

3 Lug


di Cosimo Perrotta

Gianfranco Viesti ha da poco pubblicato un libro sul PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (1). Sono pagine dense, fitte di dati e di giudizi puntuali sui vari punti del Piano e i suoi limiti. L’esposizione è chiara e dettagliata, utile anche per i non addetti ai lavori (come me).

Il Piano è frutto di una lunga trattativa tra i governi italiani Conte 2 e Draghi con la Commissione Europea, e applica all’Italia il Progetto “Next Generation EU”. Con questo progetto la UE ha cercato di rimediare alla grave crisi del 2008, causata dalle politiche di austerità, abbandonando quest’ultima, almeno in parte. Promuove invece – grazie ai prestiti a basso tasso e all’indebitamento comune – politiche per lo sviluppo, fondate sul benessere e la partecipazione, sul rilancio dei servizi pubblici e degli investimenti statali, il riassetto del tessuto urbano (i Comuni sono i maggiori beneficiari del piano), la transizione ambientale e quella digitale.

I piani nazionali della Next Generation EU devono prevedere che almeno il 37% delle risorse vada alla transizione verde (e che nessuna misura danneggi l’ambiente) e il 20% vada alla transizione digitale; che si combattano le disuguaglianze territoriali (il che contrasta col progetto leghista dell’autonomia differenziata) e si renda più efficiente tutto il settore pubblico.

Nei primi due decenni del secolo, nota Viesti, le politiche di austerità hanno reso caro il denaro e strozzato gli investimenti. E hanno creato, aggiungiamo, un circolo vizioso che riduce tuttora la domanda finale e scoraggia gli investimenti. La svolta si è avuta grazie a Francia e Germania, le quali hanno capito che la rovina di Spagna e Italia, i propri grandi partner commerciali, avrebbe rovinato anche loro (cap. I, p. 3).

L’Italia, dice l’autore, è arrivata molto impreparata al Piano, sia per l’aggravarsi della crisi dei partiti sia per le politiche dell’austerità, che puntano a ridurre la spesa pubblica. Così il paese “ha smesso di pensare al proprio futuro” (cap. II, p. 2-3). Il PNRR prevede contributi europei all’Italia di ca. 69 miliardi e prestiti di ca. 122 miliardi e mezzo; una cifra di gran lunga superiore a quella degli altri paesi UE. Aggiungendo i fondi di altra provenienza, si arriva a 235,6 miliardi, ca. il 13% del PIL italiano (cap. III, p. 2).

Questo enorme piano finanziario in realtà non è stato mai discusso pubblicamente. Il governo Draghi lo ha portato avanti senza alcun apporto del Parlamento, delle parti sociali e dell’opinione pubblica. I ministeri coinvolti hanno gestito quantità enormi di denaro senza controlli esterni, nemmeno, di fatto, il controllo collegiale del governo. Sembra che il governo Draghi pensasse che “in un’Italia resa più semplice ed efficiente” le forze di mercato avrebbero promosse da sole lo sviluppo (cap. II, p. 6). L’unico organo consultivo previsto, il Tavolo permanente tra le parti economiche e sociali, è stato abolito da Meloni (cap. III, p. 10); la quale ha anche chiuso l’Agenzia per la coesione territoriale, trasferendo il personale alla Presidenza del Consiglio (cap. XIV, p. 5). “Un pugno di persone – scrive Viesti – ha compiuto scelte che plasmeranno a lungo l’Italia” (cap. III, p. 12).

Questa impostazione tecnocratica ha portato a trascurare la politica industriale, le disuguaglianze sociali, di generazione e di genere, la povertà, la disoccupazione per aree, la crisi demografica. Inoltre quasi tutte le azioni del Piano prevedono assunzioni a tempo limitato di esperti per portare avanti i progetti. Ma questi esperti, quando ci sono, preferiscono vendere i loro servizi allo stato anziché essere assunti come precari. Per di più, i progetti che verrano realizzati avranno bisogno di nuovo personale, sia specializzato che comune, che li faccia funzionare. Ma il Piano non prevede questa spesa che si prolungherà nel tempo.

Il Piano inoltre definisce gli interventi per settori, che non comunicano fra loro, e non prevede che il governo concordi gli interventi con i territori (cap. IV). Ad esempio per la creazione di asili-nido (a cui l’UE tiene molto, tanto da stanziare 4,6 miliardi), l’assegnazione dei finanziamenti, fatta in base a progetti locali, è risultata eccessiva in qualche zona e carente in molte altre, a causa della mancata consultazione preventiva sui bisogni dei territori. Il Piano rischia quindi di aggravare le già fortissime disparità territoriali dell’Italia.

Il Piano prevede – ma con diverse limitazioni – che ogni stanziamento vada per almeno il 40% al Sud. L’impatto del Piano sul Sud “è significativo, ma non enorme”, dice il libro: il Sud passerebbe solo dal 22% al 23% del PIL nazionale (cap. IV, p. 4). Nel piano manca una visione complessiva dell’arretratezza del Sud e di come uscirne.

(1) G. Viesti, Riuscirà il PNRR a rilanciare l’Italia?, Roma: Donzelli, Saggine, 2023, ebook online.

(la seconda e ultima parte uscirà domani)

L’autonomia differenziata ignora il flusso di ricchezza dal Sud al Nord

5 Giu


di Cosimo Perrotta

Abbiamo visto in un altro articolo che il progetto governativo di autonomia differenziata renderebbe le regioni più ricche di fatto indipendenti dallo stato, anzi capaci di imporre i loro interessi locali come politiche nazionali; e condannerebbe il Sud all’eterna arretratezza. Così i leghisti sognano di liberarsi del presunto parassitismo del Sud.
Ma non è vero che il Sud consumi improduttivamente le ricchezze del Nord; al contrario, cede le sue risorse al Nord. È quello che sempre avviene quando un’economia sviluppata entra in rapporto stabile con una arretrata. Si crea una dipendenza e un flusso continuo di risorse dell’area arretrata verso quella avanzata.
Sono risorse minerarie (nel nostro caso, zolfo, stagno, carbone, petrolio), agricole (grano, vino, olio, tabacco, ortaggi e frutta di ogni genere), prodotti artigianali (ricami, tessuti, abbigliamento, scarpe), depositi bancari e soprattutto lavoro. L’area più avanzata paga a poco prezzo queste risorse, impedendo all’area arretrata di usarle per il proprio sviluppo e impoverendola.
Questo flusso dal Sud al Nord d’Italia è iniziato nel sec. XI e dura tuttora. Fatevi una passeggiata nel centro storico di Lecce, nelle vie o nei palazzi troverete i nomi dei grandi mercanti del Nord (Mocenigo e Morosini di Venezia, Fieschi, Vernazza e Adorno di Genova, Peruzzi di Firenze, ecc.); i quali acquistavano per poco i prodotti grezzi e vendevano a caro prezzo i propri manufatti; presero in appalto le tasse, fondarono banche e gestirono le finanze dello stato del Sud.
Il drenaggio di risorse richiede quasi sempre l’alleanza con l’élite dell’area arretrata. Nel caso del Sud fu addirittura l’élite a promuovere il flusso verso il Nord. I sovrani del Sud unificato, sin dall’inizio, stroncarono l’autonomia delle città marinare meridionali (Amalfi, ma non solo), ma in tal modo dovettero indebitarsi con i mercanti del Nord, e diventare ostaggio dei propri feudatari. Questi ultimi, che non pagavano le tasse, impedirono tutte le innovazioni: strade, acquedotti, trasporti, scuole, ospedali, imprese, manifatture, leggi, diritti; appaltavano ai mercanti del Nord il commercio dei loro prodotti agricoli e l’impiego dei loro capitali monetari; si circondavano di contadini affamati e di una piccola borghesia famelica, alla perenne ricerca di prebende. Dopo nove secoli, il Sud si presentò all’Italia unita con una miseria e un’arretratezza abissali, incolmabili in poco tempo (1).
Lo stato introdusse alcune infrastrutture e servizi essenziali ma la maggiore spesa pubblica pro-capite andò al Nord; ed è ancora così (2). Il salasso di risorse verso il Nord si accentuò grazie all’abolizione dei dazi interni. In Parlamento, gli agrari del Sud sostennero qualsiasi governo purché non toccasse i latifondi non ecclesiastici e proteggesse il grano con i dazi. Ci fu un tacito patto fra industriali del Nord e agrari del Sud per proteggere i rispettivi prodotti e tacere sul feroce sfruttamento dei contadini (è la rivoluzione borghese incompiuta denunciata da Gramsci).
L’Italia repubblicana, finalmente, prese a cuore le sorti del Sud, avviò l’industrializzazione (i poli di sviluppo), incoraggiò un’emigrazione massiccia al Nord e nel mondo, impiantò il welfare state in tutto il paese. Ma durò poco. Il Sud mise un piede nella modernità, ma uno solo. Mancò una politica per incentivare l’imprenditoria privata dal basso. Negli anni 90 il prodotto totale del Sud tornò ai livelli degli anni 50 (3).
Il flusso di risorse verso il Nord continuò e, riguardo al lavoro, si rafforzò. I lavoratori meridionali invasero fabbriche e cantieri del Nord, scuole università ospedali, la pubblica amministrazione, il commercio. Oppure continuarono a farsi sfruttare a casa loro per poche lire, per arricchire i grandi marchi del Nord.
Oggi la dipendenza è rimasta ma l’integrazione economica tra Sud e Nord è diventata così profonda e articolata che smantellarla sarebbe esiziale per entrambi. Inoltre, ci sono differenze interne fra le aree (aree del Nord arretrate; aree del Sud sviluppate). Ci sono anche grandi differenze nelle particolari specializzazioni.
Una vera politica di sviluppo nazionale deve ridurre i dislivelli e moderare i flussi in uscita delle risorse. Deve differenziare aiuti e incentivi, secondo le esigenze delle aree, e promuovere l’imprenditorialità al Sud. Ma questo può avvenire solo con un progetto complessivo (4), senza la pretesa di annullare d’un colpo l’arretratezza millenaria del Sud.
Invece, il progetto leghista farebbe deperire lo stato e prevalere tante piccole sovranità anguste e incapaci di crescere. Tutti gli studiosi dicono che il maggior problema italiano è, da sempre, la debolezza dello stato. È vero, ed è ora di rafforzarlo attraverso lo sviluppo di tutti.

V. Cosimo Perrotta, Claudia Sunna e altri, L’arretratezza del Mezzogiorno, Bruno Mondadori, 2012.
V. Gianfranco Viesti, “Il Sud vive sulle spalle dell’Italia che produce” (Falso!), Laterza, 2013, p. 25.
V. ancora Perrotta/Sunna, cit.
(4) V. L’integrazione economica tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord, Banca d’Italia, dic. 2011; soprattutto la tavola rotonda finale di R. Padovani, G. Pellegrini e L. Celi.

“Le colpe del Sud”. Commento a Scamardella

9 Dic

di Cosimo Perrotta

Il recente libro di Claudio Scamardella, Le colpe del Sud, Manni editore, è interessante perché si contrappone con forza all’eterno assistenzialismo del Sud ma non concede nulla ai luoghi comuni secondo cui il Sud peserebbe parassitariamente sul Nord. Il libro, pur non essendo un lavoro di ricerca, va al fondo dei problemi.

L’autore rifiuta le autoassoluzioni, denunzia il fallimento delle politiche pubbliche per il Sud ma anche la menzogna sulla ripartizione pro-capite delle risorse (che in effetti sono fortemente sbilanciate a vantaggio del Nord), infine addossa la colpa principale del sottosviluppo alle classi dirigenti e intellettuali del Sud.

Queste élite – dice – non hanno capito la svolta radicale avvenuta con il crollo del mondo comunista trent’anni fa. Il Sud d’Italia, nella strategia atlantica, riceveva un fiume di provvidenze per evitare che si collegasse con il Centro Italia dominato dalle sinistre. Queste élite hanno continuato a piatire assistenza mentre la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica dovevano portare a una radicale ricollocazione. Infatti, l’economia post-guerra fredda ha intensificato fortemente i traffici tra l’Europa e l’Estremo Oriente e fra l’Europa e l’Africa.

Il Sud d’Italia è la piattaforma naturale in cui questi traffici si incontrano. E’ questa la grande occasione che stiamo perdendo: ristrutturare la nostra economia in funzione di questi collegamenti, per esportare in quelle grandi aree e per essere lo snodo dei loro traffici.

Eppure, scrive l’autore, la storia ce lo diceva che il Mediterraneo è il cuore del nostro problema. Secondo Pirenne il Sud d’Italia divenne periferia quando gli arabi conquistarono il Nord Africa e divisero per sempre il Mediterraneo. Fu allora che il centro dell’Europa si spostò verso il centro-nord. Scamardella è consapevole delle riserve degli altri storici su questa tesi di Pirenne, ma la perifericità del Mediterraneo venne confermata e rafforzata dalla circumnavigazione dell’Africa e dalla scoperta dell’America. Oggi però la globalizzazione ha ristabilito la centralità del nostro mare e il Sud dovrebbe approfittarne per rilanciare il suo sviluppo.

L’autore avverte – con notevole efficacia – che non basta lo stato né l’industrialismo a promuovere lo sviluppo. Pur con i suoi grandi meriti le politiche di Nitti (e poi di Fanfani) non sono bastate ad eliminare l’assistenzialismo. Questo affonda le radici (come ricordano Banfield, Putnam e poi Aldo Masullo) nella carenza di civismo dei meridionali. Il civismo moderno è riconoscimento dei diritti del cittadino, senso del dovere e delle regole. Il Sud non ha compiuto il passaggio dalla comunità, basata sul rapporto personale di consanguinei ed amici, alla società, fatta di regole, di rapporti impersonali e di solidarietà (pp. 29-32).

Un altro passaggio importante parla del blocco sociale della borghesia (di professionisti e intellettuali), che – invece di guidare la società – è sempre attento ai suoi interessi corporativi e di potere. Dunque la società civile è complice dello sfascio e non vittima della politica (pp. 34-5). E’ questa complicità che ha fatto fallire l’esperienza delle regioni come centri di decisione politica (p. 86).

Il terzo punto di forza dell’analisi di Scamardella è che “l’idea che lo sviluppo economico possa essere generato dal solo intervento dello Stato, senza una contemporanea rivoluzione culturale” si è rivelata fallace (p. 40). Molto ben detto. Siamo arrivati al nodo centrale, messo in evidenza dalle migliori analisi del meridionalismo (quelle di Genovesi, Galanti, Fortunato, Salvemini, Nitti, Gramsci). Ma si tratta di un nodo complesso come quello di Gordio, che però non si può sciogliere con la spada del manicheismo.

Lo stato post-unitario, da una parte, impose nel Sud strade e ferrovie, ospedali e farmacie, scuole elementari, carabinieri; tutte cose che erano state sempre impedite dai grandi proprietari terrieri (che da sette secoli dominavano il Sud) e dai loro clienti (la borghesia amministrativa, sempre a caccia di stipendi pubblici). D’altra parte, i governi nazionali subirono il ricatto dei grandi agrari del Sud (il partito governativo per antonomasia) e stroncarono, con le politiche sui dazi, i primi germogli di imprenditoria dal basso. Avviarono l’industrializzazione, ma poi sparavano sui contadini che chiedevano terre su cui lavorare per diventare appunto piccoli imprenditori.

Persino il grande sviluppo del welfare state non sfuggì a questa logica ambigua. L’unica differenza è che – decaduti i grandi agrari – la guida della società passò direttamente alla “borghesia di stato”, il blocco di tecnici compiacenti, amministratori, imprenditori-clienti e politici che tuttora gestisce il fiume di denaro pubblico che arriva al Sud.

L’autore propone una macro-regione del Sud con base comunale per responsabilizzare i nostri amministratori e avviare la rivoluzione culturale necessaria. Forse è una soluzione. Ma di una cosa sono certo: non c’è un eccesso di stato nel Sud, c’è carenza. E non per continuare con l’assistenzialismo, ma per esercitare un vero controllo, come fanno in tutti i paesi sviluppati, che sanzioni chi viola il proprio impegno con le istituzioni; un controllo sugli appalti e la loro gestione, sull’utilizzo dei fondi, la correttezza dei bilanci, la produttività del settore pubblico, l’efficienza della pubblica amministrazione, la scuola e la sua efficacia, l’evasione fiscale dai mille volti, l’assenteismo, il traffico … Un controllo vero non può che basarsi sul principio che il superiore è responsabile di ciò che fa il subalterno. Finché i responsabili – politici, amministrativi, imprenditori, tecnici – non pagheranno per le loro distrazioni, complicità, connivenze sulle violazioni dei subalterni o appaltanti, non ci sarà nessuna rivoluzione culturale.