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Transizione ecologica: investire oggi per non spendere domani

4 Mar

di Guillaume Kerlero de Rosbo e Nicolas Desquinabo – IL DOCUMENTO – 4-3-2024

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I paesi UE si sono impegnati a decarbonizzare le loro economie fino al Net Zero entro il 2050, cioè con emissioni di gas serra non superiori a quelle che la natura è in grado di assorbire.
La UE ha responsabilità storiche su questo piano ed è il secondo mercato mondiale per la maggior parte dei prodotti manifatturieri, perciò il suo impegno è essenziale …
Ma alcuni contestano questi impegni come punitivi o incompatibili con altri impegni più urgenti …
Ma, come dimostra il rapporto “Road to Net Zero” dell’Institut Rousseau, che ha impegnato più di 150 ricercatori…, questo obbiettivo è raggiungibile.
Entro una generazione la UE è in grado di ridurre le emissioni dell’85%, ma non è una prospettiva nera. Tutt’altro. Tre quarti dei fondi necessari esistono già e possono essere collocati diversamente (ad es. dalle auto diesel al trasporto pubblico o a veicoli a bassa emissione di carbone). A questo si dovranno aggiungere ca. 360 miliardi l’anno, cioè il 2,3% del PIL europeo. Ma nel 2022 la UE ha speso il doppio per importare carburante fossile. Non è la transizione ecologica ad essere troppo costosa ma la mancata programmazione dell’uscita dai carburanti fossili.
Un rapporto della Commissione europea di febbraio prevede maggiori investimenti in trasporti su strada con la relativa energia, e quindi obbiettivi di decarbonificazione più modesti. Tuttavia, rispetto a quello dell’Institut Rousseau, il rapporto UE non prevede rilevanti finanziamenti dell’agricoltura e prevede impegni minori per il rinnovo degli edifici.
Il rapporto UE propone più di 70 misure pubbliche suggerite da esperienze regionali positive, come l’agricoltura organica dell’Italia centrale, i trasporti ferroviari austriaci, piste ciclabili danesi. Dei 360 miliardi annui addizionali che sono necessari, 260 saranno pubblici.
Questo livello di investimento pubblico è indispensabile per due ragioni. Innanzitutto il 25% di questo servirà a trasporti pubblici, rinnovo degli edifici pubblici, ecc. Il resto servirà a suscitare investimenti privati sostenendo vari operatori … Per il successo dello European Green Deal è essenziale il sostegno finanziario a categorie che saranno colpite, come quella degli agricoltori.
Queste spese sono del tutto giustificate se si pensa al costo che si avrebbe se non si modifica niente. Il mondo degli affari già capisce che la sfida climatica minaccia l’economia, se la compagnia di assicurazioni Swiss Re stima normale una perdita media annua di PIL europeo del 10,5% entro il 2050 (l’equivalente del costo di una guerra).
In secondo luogo, questo investimento è ben minore della spesa pubblica della UE per la ripresa dopo la pandemia di Covid (338 miliardi l’anno) o gli attuali sussidi ai carburanti fossili (359 miliardi l’anno, inclusi i limiti ai prezzi dell’energia). Quindi gli investimenti per la transizione semplicemente ricollocano gli attuali sussidi pubblici; e questa spesa diminuirà mano a mano che la decarbonizzazione procede.
Terzo, la spesa pubblica stimolerà l’attività economica, generando milioni di posti di lavoro aggiuntivi su base locale; incoraggiando la capacità competitiva e di resilienza e accrescendo il potere d’acquisto nel breve periodo. Come sottolinea Mariana Mazzucato, senza investimenti pubblici le economie vacillano.
Dopo un decennio di austerità controproducente, l’Europa ha perso l’occasione delle nuove tecnologie; la Cina è emersa come leader nelle batterie, nell’energia eolica e in quella solare e nei trasporti elettrici. Mentre la UE parla di rallentare la sua iniziativa per il clima, in USA la legge sulla Riduzione dell’Inflazione, del 2022, ha mobilitato ca. 400 miliardi per il sostegno alle industrie decarbonizzate. L’India ha avviato il programma di Incentivi per la Produzione e la Cina sta sovvenzionando le sue industrie a vari livelli amministrativi con incentivi fiscali e monetari.
Infine, questo investimento pubblico produrrà risparmio nel lungo periodo e alleggerirà la pressione sui bilanci pubblici.
Tutti questi vantaggi saranno ancora maggiori se si darà la priorità alla produzione locale e si ridurrà il consumo. L’elettrificazione dell’energia, senza una simultanea riduzione della domanda, innanzitutto alzerebbe i costi, con una spesa di ca. 200 miliardi l’anno per importare carburanti fossili, mentre i consumi si riducono. In secondo luogo creerebbe rischi maggiori per la sovranità energetica a causa della scarsità di risorse e della delocalizzazione delle industrie.
L’obiettivo Net Zero non è fatto per ideologie cieche che vogliono tagliare gli investimenti. … L’austerità … porta solo al collasso. Non finanziare il cambiamento ecologico sarebbe alla fine molto più costoso.
Attuare la transizione ecologica non è solo un imperativo per l’ambiente; è una scelta strategica razionale ed economicamente vantaggiosa per l’Europa.

(Social Europe 21-2-2024. Titolo orig.: “Getting to Net Zero: Europe’s investment challenge”)

Appello di Greenpeace contro i mega-allevamenti

5 Feb

pubblicato il 9 gennaio 2024 (5-2-2024)


Sembra incredibile ma i Paesi dell’Unione Europea hanno concesso ai più grandi allevamenti intensivi l’esenzione dalle norme UE sulle emissioni industriali.
Cosa significa? Le lobby dell’industria della carne sono riuscite a garantirsi il diritto di continuare a inquinare, sostenendo inoltre che queste modifiche avrebbero colpito negativamente i piccoli e medi allevamenti bovini europei.
 La realtà è un’altra ed è uno schiaffo alla verità che fa male agli animali, alle persone e all’ambiente. Le dichiarazioni delle lobby della carne sono false, per nulla supportate dai dati, dal momento che le proposte di modifica riguardavano appena l’1% di tutti gli allevamenti di bovini in Europa e solo quelli più grandi e più inquinanti.
 Gli allevamenti intensivi sono luoghi di sofferenza per miliardi di animali destinati al macello – circa 75 miliardi ogni anno in tutto il mondo -. È un sistema che divora risorse preziose del Pianeta (acqua e foreste in primis) e che contribuisce pesantemente al riscaldamento globale e all’inquinamento. Ma perché, allora, dovremmo continuare a sostenerlo? 
Hai mai pensato a quanto possa essere inefficiente oltre che distruttivo, questo sistema su scala mondiale? Ecco qualche dato: il modello di produzione intensiva degli allevamenti e della produzione di mangimi impiega circa l’80% della superficie agricola mondiale per ottenere solo il 18% del fabbisogno calorico. In più, a livello globale, generano il 60% delle emissioni di gas serra dell’intero settore agricolo, aggravando così la crisi climatica che sta trasformando in peggio la vita sulla Terra.
 Solo in Europa il settore zootecnico è responsabile di quasi il 90% delle emissioni di ammoniaca che l’agricoltura immette nell’atmosfera e dell’80% della dispersione di azoto. 
 Sono dati che ci preoccupano molto perché hanno conseguenze concrete sulle nostre vite. Ad esempio, gli allevamenti intensivi contribuiscono all’inquinamento di polveri sottili (i pericolosi PM 2,5) che causa migliaia di morti premature ogni anno solo in Italia! 
Il nostro obiettivo è spingere il Governo Italiano a bloccare la costruzione di nuovi allevamenti intensivi e di frenare le conseguenze disastrose di quelli esistenti.
 Bisogna combattere quelle istituzioni e aziende che ancora credono che questo modello economico, basato sullo sfruttamento incondizionato degli animali e dell’ambiente, produca ricchezza.
 La verità è che dietro i loro margini di profitto si nascondono costi ambientali e sociali enormi, pagati da tutti noi e che danneggiano economicamente tutte quelle piccole e medie aziende agricole che avrebbero tratto un vantaggio competitivo dall’imposizione di limiti più stringenti agli allevamenti intensivi più grandi e industrializzati.
 

Verso lo sviluppo umano e sostenibile; il faro e le onde

8 Gen


di Gianni Vaggi
Nel 1967 Papa Paolo VI scrive: “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Per l’inizio del terzo millennio, l’ONU vara i diciassette Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, OSS, raggruppati in cinque aree: Persone, Pianeta, Prosperità, Pace, Partenariato globale per lo sviluppo, le cinque P. Le ultime due aree comprendono un unico obiettivo, sedici e diciassette rispettivamente, ma con molti targets e indicatori. La sostenibilità ambientale entra compiutamente nell’idea di sviluppo nel 1987 con il Rapporto Brundtland, che ci fa ragionare in termini di rapporti fra le generazioni. Nel 1990 abbiamo il primo rapporto sullo sviluppo umano dell’ONU, con l’Indice di Sviluppo Umano, ISU, che allarga l’idea della qualità della vita degli esseri umani al di là degli indicatori economici ed in particolare si focalizza sul diritto alla salute ed all’istruzione.
La pace sembra sempre più lontana, lo sviluppo arranca. Con Marco Missaglia abbiamo provato a delineare un percorso verso lo Sviluppo Umano e Sostenibile, SUS: Introduzione all’economia dello sviluppo, Carocci 2022. Uso la metafora del faro, che nella sua cella luminosa include gli OSS, ma anche diritti umani, ecologia integrale, transizione ecologica, beni comuni e tutto quello che noi possiamo pensare essere in SUS.
Nella luce del faro ci sono soprattutto Persone e Pianeta: gli esseri umani e le risorse naturali. SUS non è una situazione di equilibrio, ma un processo che possiamo misurare con il trascorrere delle generazioni. Gli esseri umani della generazione successiva, Persone 2, dovrebbero avere più opportunità della generazione precedente: essere più istruiti, potersi muovere ed incontrare con maggio facilità e libertà. Stesso discorso per Pianeta 2: minor inquinamento, acqua più pulita disponibile per più esseri umani.
Il faro indica la direzione e avvisa dove c’è terra, ma la navigazione è condizionata dalle onde a dai venti, che sono le condizioni storiche, economiche e sociali in cui SUS si deve svolgere.
Queste strutture, sono anche vincoli, sono le sfide incluse nell’area Prosperità, quattro obiettivi che definisco ‘strutturali’. N. 8, crescita inclusiva piena occupazione lavoro decente; n. 9, infrastrutture resilienti e industrializzazione sostenibile; n.10 ridurre le diseguaglianze all’interno e fra le nazioni; n. 12 modelli di consumo e produzione sostenibili.
Anche gli altri obiettivi implicano un cambiamento delle strutture economiche, ma questi quattro le affrontano direttamente. Negli ultimi decenni, e forse soprattutto nell’ultimo, le acque sono state molto agitate e spesso i venti non hanno soffiato nella direzione indicata dal faro. Siamo a metà della navigazione verso il 2030 e il Global Sustainable Development Report 2023 dell’ONU è molto pessimista sul fatto che la nostra nave abbia la velocità giusta per conseguire gli OSS; quasi tutti gli obiettivi dovranno essere spostati più in là o forse modificati.
Nel 1662 Sir William Petty scrive: “Il Lavoro è il Padre e principio attivo della Ricchezza, come le Terre sono la Madre”: Persone e Pianeta. Certo lui si occupava di ricchezza e non di sostenibilità, ma sottolineo l’espressione principio attivo, cioè la responsabilità che è degli esseri umani di organizzare se stessi e utilizzare le risorse naturali. Questo ci porta agli ultimi due OSS, che di fatto si riferiscono a chi conduce la nave e come la conduce. Chi decide la rotta e la velocità? Il partenariato globale per lo sviluppo è l’ultimo obiettivo, il 17, che comprende aree quali Finanza, Tecnologia, Commercio. Tre elementi che condizionano non solo la navigazione verso il faro, ma la società futura: come saranno Persone 2 e Pianeta 2? Chi decide quanto e come investire? Quali settori e aspetti dell’economia favorire e quali scoraggiare? Questo ci porta ad una sesta P, quella di Potere, che non compare direttamente negli OSS 16 e 17, ma che è inevitabile affrontare. Ci sono enormi squilibri nel potere economico e politico fra paesi e all’interno dei paesi. Un modesto criterio per valutare la nostra navigazione è quello del ribilanciamento di questi poteri così diversi. Tutti gli stakeholders hanno ‘voce in capitolo’? Partecipano davvero alle decisioni sulla tecnologia? Sul come scoraggiare o incoraggiare stili di consumo e produzione sostenibili? Sul come e quanto dedicare alla navigazione verso SUS dei trilioni di dollari di fondi che si muovono nella finanza internazionale? Le sfide di Partenariato e Pace saranno con noi ancora a lungo ben oltre il 2030. Forse sono utopie, ma le alternative sono terribili. Vale la pena continuare a cercare di orientare la nave verso il faro.

La ministra Calderone e il lavoro che non c’è

7 Ago


di Cosimo Perrotta

La ministra Calderone ha affermato il 3 agosto che la povertà si può superare stabilmente solo col lavoro e che il Reddito di cittadinanza non è riuscito a dare lavoro. Sono affermazioni esatte, e anche ovvie. Ma il loro sottinteso è che il lavoro c’è, e chissà perché i disoccupati non lo trovano (o non lo cercano).
Ecco, questo non è vero. Il lavoro sul mercato non c’è. C’è invece una spessa cortina fumogena che nasconde questo fatto. I dati sull’aumento dell’occupazione includono anche i voucher per lavori di poche ore. I dati sulla disoccupazione escludono la maggior parte dei disoccupati reali, cioè coloro che non cercano lavoro attraverso i canali ufficiali.
L’idea diffusa che la disoccupazione sia dovuta alla difficoltà di incontro fra domanda e offerta di lavoro (“mismatch”) è infondata. Ciò avverrebbe per carenze nella formazione scolastica; ma l’istruzione strettamente professionale è la meno adatta per trovare lavoro in un’economia che cambia rapidamente. Però, se le imprese cercano lavoratori in nero, stagionali, a 3-4 euro l’ora, non si tratta di mismatch, ma di sfruttamento, a cui chi può si sottrae.
L’establishment inganna (o si inganna) quando dà per scontato che il lavoro c’è. Il lavoro invece manca, perché il mercato dei beni tradizionali è saturo; è sovraffollato di investimenti a basso rendimento (e di capitali che fuggono verso le rendite o la speculazione). Gli investimenti tradizionali producono beni ripetitivi di scarsa utilità, e affrontano una concorrenza accanita, non basata sull’innovazione o la qualità, ma su costi di produzione sempre più bassi.
Si noti che i costi si abbassano per due motivi molto diversi: o col progresso tecnico (come nella robotica, l’informatica,, l’intelligenza artificiale, le biotecnologie, ecc.) oppure riducendo il costo del lavoro (salari sotto il limite di sussistenza, condizioni di lavoro peggiori, ritmi e orari aumentati, lavoro nero). Nel primo caso la ricchezza sociale aumenta, ma nel secondo no: aumentano solo i profitti di rapina.
Queste due cause della riduzione dei costi sono opposte ma collegate fra loro. La grande rivoluzione produttiva iniziata con la diffusione dell’informatica ha causato una disoccupazione crescente che ha indebolito enormemente la capacità di contrattazione dei lavoratori (questo spiega, fra l’altro, la lunghezza del dominio neoliberista). Quindi, se da una parte la domanda di beni viene sostenuta dall’abbassamento dei prezzi, al netto dell’inflazione e delle speculazioni di ogni tipo, dall’altra la disoccupazione e la riduzione dei salari abbassano la domanda di beni sul mercato e quindi riducono la convenienza ad investire.
Ovviamente è impossibile frenare il progresso tecnico. È possibile invece aumentare l’occupazione investendo in nuovi beni, di qualità più alta. Ma questi investimenti innovativi richiedono un nuovo capitale umano, quindi maggiore ricerca, migliore istruzione e cure sanitarie accessibili a tutti.
Naturalmente i nuovi beni devono soddisfare dei bisogni che il mercato attuale non riesce a soddisfare. Ad esempio, la forte riduzione del riscaldamento climatico, dell’inquinamento ambientale, della deforestazione e dell’agricoltura chimica; trasporti pubblici efficienti e non inquinanti; un sistema sanitario efficace per tutti; riduzione dell’evasione scolastica; crescita dell’economia circolare; risanamento idro-geologico; ecc.
Tutto questo consentirebbe alla concorrenza di non basarsi più sull’abbassamento selvaggio dei salari e sulla violazione dei diritti dei lavoratori, ma di basarsi sulla loro riqualificazione come produttori e come consumatori, allargando così la domanda sul mercato, che attualmente è asfittica.
Politiche di questo genere gioverebbero a tutti, incluse le imprese. Sono politiche che allargano l’occupazione mentre promuovono il progresso tecnico; sostituiscono i profitti veri alle rendite di ogni tipo; e si basano sul benessere dei lavoratori anziché sulla loro miseria.
Lo stato, che rappresenta l’interesse generale, deve promuovere queste politiche. Durante il capitalismo, ogni volta che lo sviluppo si è bloccato per la difficoltà di aprire nuovi mercati, lo stato ha sempre svolto questa funzione: ha aperto nuovi settori di produzione e di consumo facendo propri investimenti o guidando gli investimenti privati verso un impiego produttivo. Questa è in fondo la filosofia del PNRR, poco compresa e male attuata.
Oggi i governanti occidentali fanno il contrario: consentono per mille vie la rapina sistematica delle risorse pubbliche a favore di imprese private sempre meno produttive e sempre più parassitarie.

(uscito oggi anche su Il Quotidiano di Puglia, 6 agosto 2023)

LE PUBBLICAZIONI RIPRENDERANNO IL 18 SETTEMBRE

Mazzucato e altri: come affrontare la crisi dell’acqua

15 Mag


15-5-2023

Mariana Mazzucato e gli altri co-presidenti della Commissione globale per l’economia dell’acqua (Ngozi Okonjo-Iweala, Johan Rockström e Tharman Shanmugaratnam) propongono una strategia globale per la crisi dell’acqua (1). Per superare la crisi, affermano, bisogna affrontare il cambiamento climatico e attuare molti degli obiettivi dell’ONU per lo Sviluppo sostenibile.
I disastri dell’ultimo anno (inondazioni, siccità, cicloni, ondate di caldo) hanno attirato l’attenzione, ma la crisi dell’acqua no, anche se è causa di insicurezza cronica per il cibo e la salute in intere regioni del mondo. Ogni 80 secondi un bambino al di sotto dei 5 anni muore per malattie causate da acqua inquinata e centinaia di milioni crescono rachitici.

Si è formato un circolo vizioso fra crisi dell’acqua, riscaldamento globale, calo della biodiversità e perdita del “capitale naturale”. L’erosione dei terreni umidi sta trasformando i grandi serbatoi di carbonio in nuove fonti di emissione ad effetto-serra. Nessun paese, dice il documento, può controllare da solo metà delle piogge che riceve. L’acqua potabile deriva in ultima istanza dalle piogge, che a loro volta dipendono dalla stabilità degli oceani, la presenza di foreste ed ecosistemi di altri paesi.

Gli autori propongono quindi 7 punti che sono necessari per una strategia globale dell’acqua. Innanzitutto, riconoscere l’acqua come bene comune e trattarla come tale. Tutti siamo connessi attraverso l’acqua, perciò dobbiamo unirci per battere quel circolo vizioso rispettando il senso di giustizia e di equità.

Secondo punto, dobbiamo adottare un approccio che abbracci tutte le funzioni chiave dell’acqua: riconoscere che avere acqua potabile per usi domestici è un diritto umano, stabilizzare il ciclo idrogeologico e governare insieme l’uso industriale dell’acqua. Per mobilitare le persone interessate, dobbiamo adottare politiche innovative: accrescere gli investimenti per l’acqua attraverso compartecipazioni pubblico-privato di livelli simili a quelli che usammo 50 anni fa per andare sulla luna. Quell’impresa generò innovazioni anche nella nutrizione, l’elettronica, le comunicazioni, i materiali, il software.

Terzo, dobbiamo smettere di sottopagare l’acqua, alzare il prezzo e aiutare i più poveri a pagarla. Ma dobbiamo anche tener conto del valore non economico dell’acqua, per proteggere davvero l’ecosistema da cui dipendono il ciclo dell’acqua e le società umane.

Quarto punto. Dobbiamo eliminare gradualmente i 700 miliardi di dollari che spendiamo ogni anno per sussidi all’agricoltura e all’acqua – che spesso incoraggiano il consumo eccessivo di acqua – e ridurne la dispersione nei sistemi di distribuzione.

Quinto. Bisogna stabilire una Compartecipazione equa per l’acqua, per far sì che i paesi a basso-medio reddito possano investire nell’accesso sostenibile ad essa. Questa Partnership deve unificare i flussi di finanziamento attuali, riorganizzare i sussidi locali inefficienti, facendo in modo che le banche e le istituzioni per lo sviluppo sostengano la finanza pubblica e attirino gli investimenti privati. I guadagni prodotti da questi investimenti saranno largamente eccedenti rispetto ai costi, specialmente se le iniziative affrontano il problema del cambiamento climatico e di uno sviluppo più inclusivo.

Sesto. Bisogna sostenere innovazioni più dinamiche per raggiungere nuove risorse acquifere. Anche qui gli investimenti daranno alti guadagni e permetteranno avanzamenti in settori collaterali. Ad esempio, se si migliora il sistema di conservazione dell’acqua potabile dovremo ripensare il governo delle terre umide e delle risorse acquifere presenti nel terreno, che finora sono state sprecate. Per sviluppare un’economia urbana circolare dell’acqua, basata sul riciclo, dovremo creare una nuova logica del modo di trattare lo spreco industriale e urbano di acqua. L’irrigazione di precisione, la coltivazione resiliente alla siccità o alimentata dalla pioggia e a minore intensità di acqua ci porteranno ad avere sistemi alimentari più sostenibili e redditi migliori per chi coltiva. L’impronta ecologica dell’acqua nella manifattura può essere migliorata, compreso il riuso di acqua nella produzione di materiali strategici come il litio.

Infine, dobbiamo dare nuove forme al governo dell’acqua. L’attuale sistema è troppo frammentato e inadeguato. Una via da praticare è la politica commerciale. Se includiamo negli accordi commerciali misure standard per la conservazione dell’acqua, potremo evitare i sussidi che incoraggiano lo spreco di acqua e potremo incoraggiare pratiche più sostenibili. Dobbiamo usare l’approccio multilaterale anche per sviluppare specializzazioni a capacità nuove, proteggere i coltivatori, le donne, i popoli nativi e i consumatori.

Oggi, concludono gli autori, abbiamo l’occasione di convertire la crisi dell’acqua in una opportunità per un progresso globale, creando un nuovo contratto sociale basato su giustizia ed equità.

(1) “Confronting the global water crisis”, Social Europe 23rd March 2023.

Una urgente azione sul clima può dare un futuro vivibile a tutti

3 Apr


di IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change)
Gli scienziati del IPCC, riuniti a Interlaken (Svizzera), hanno rilasciato il 20 marzo l’ultimo appello sul clima. Il presidente del IPCC Hoesung Lee afferma: “… Il “Rapporto in sintesi” sottolinea l’urgenza di intraprendere azioni più ambiziose e mostra che se agiamo adesso possiamo ancora ottenere un futuro vivibile e sostenibile per tutti”.
Nel 2018 l’IPCC ha mostrato la grandezza senza precedenti dell’impegno necessario per mantenere il riscaldamento climatico a 1,5 gradi. Dopo cinque anni la sfida è diventata più grande per il continuo aumento delle emissioni di gas-serra. …
Più di un secolo di combustibili fossili, di uso disuguale e insostenibile di energia e di consumo di terra hanno portato il riscaldamento globale a più di 1,1 gradi al di sopra dei livelli pre-industriali. Questo ha prodotto fenomeni meteorologici sempre più frequenti e sempre più estremi …
Ogni incremento del riscaldamento risulta in un rischio sempre più accelerato. Ondate di calore più intense, piogge più forti e altri fenomeni estremi del tempo aumentano ulteriormente i rischi per la salute umana e gli ecosistemi. In ogni regione c’è gente che muore che il caldo estremo. … Si prevede che aumenteranno il condizionamento climatico del cibo e la scarsità di acqua. Quando i rischi si combinano con altri eventi avversi, come le pandemie e i conflitti, diventano ancor più difficili da affrontare.
… Le perdite e i danni … colpiscono in modo più grave le persone e gli ecosistemi più vulnerabili. …
Aditi Mukherji, una dei 93 autori del Rapporto in sintesi, cioè del capitolo conclusivo del sesto incontro del Panel, afferma: “La giustizia climatica è cruciale perché coloro che sono meno responsabili del cambiamento climatico sono anche quelli che ne sono più colpiti. Quasi la metà della popolazione mondiale vive in regioni altamente vulnerabili per il cambiamento climatico. Negli ultimi decenni nelle aree molto vulnerabili le morti per inondazioni, siccità e uragani sono aumentati di 15 volte”.
… Conservare il riscaldamento a un 1,5 gradi sopra il livello pre-industriale in tutti i settori esige una riduzione profonda e rapida delle emissioni di gas-serra. … Le emissioni devono iniziare da subito a ridursi e devono diminuire almeno della metà entro il 2030.
La soluzione sta in uno sviluppo resiliente al clima. … Per esempio: l’accesso all’energia pulita e alle sue tecnologie migliora la salute, specialmente di donne e bambini; l’uso di elettricità a basso tasso di anidride carbonica o andare a piedi o in bicicletta e usare i trasporti pubblici migliora la qualità dell’aria e la salute, accresce le occasioni di lavoro e aumenta l’equità. I vantaggi nella salute dei cittadini per il solo miglioramento dell’aria sarebbero più o meno uguali o forse maggiori dei costi per la riduzione delle emissioni.
Uno sviluppo resiliente al clima diventa sempre più difficile con l’aumento del riscaldamento climatico. Per questo le scelte dei prossimi (pochi) anni avranno un ruolo cruciale … Esse, per essere efficaci, devono radicarsi nei nostri valori, visioni del mondo e conoscenze, incluse le conoscenze scientifiche, quelle dei nativi e quelle locali. Questo approccio faciliterà uno sviluppo resiliente al clima e permetterà soluzioni socialmente accettabili e adatte ai contesti locali.
Christopher Trisos, uno degli autori del Rapporto afferma: “I maggiori miglioramenti nel benessere – per le comunità a basso reddito e emarginate, comprese quelle che vivono in insediamenti informali – possono venire dallo stabilire una priorità fra le riduzioni del rischio climatico. L’accelerazione della azioni per il clima si può avere soltanto se c’è un aumento dei finanziamenti da diverse parti. Un finanziamento insufficiente e disorganico comporta un arretramento”.
C’è il capitale globale sufficiente a ridurre le emissioni di gas-serra se si abbassano le attuali barriere. … I governi sono decisivi per ridurre queste barriere attraverso finanziamenti pubblici e chiari segnali agli investitori. Investitori, banche centrali e regolatori finanziari possono avere un ruolo.
Ci sono misure politiche già sperimentate che possono contribuire a profonde riduzioni delle emissioni se vengono rafforzate ed estese. Impegno politico, politiche coordinate, cooperazione internazionale, sorveglianza degli ecosistemi e gestioni inclusive sono tutte cose importanti per ottenere un’azione climatica efficace ed equa.
Se la tecnologia, il sapere pratico e misure politiche adatte vengono condivisi e si provvede a finanziamenti adeguati, ogni comunità può ridurre o evitare un consumo ad alta intensità di carbone. …
Il clima, gli ecosistemi e la società sono interconnessi. Una conservazione efficace ed equa di circa il 30-50% della superficie terrestre, dell’acqua dolce e degli oceani aiuterà a avere un pianeta sano. Le aree urbane offrono un’occasione su scala globale per un’ambiziosa azione climatica che contribuisca allo sviluppo sostenibile. I cambiamenti per cibo, elettricità, trasporti, industria, edilizia e uso del suolo possono ridurre le emissioni di gas-serra. Al contempo possono facilitare uno stile di vita a basso consumo di carbone… Una migliore comprensione delle conseguenze del sovra-consumo può aiutare la gente a fare scelte più informate.
Lee ha detto: “Le trasformazioni sono più probabili dove c’è fiducia, dove ognuno collabora per dare priorità alla riduzione dei rischi e dove i vantaggi e i costi sono ripartiti in modo equo. Noi viviamo in un mondo vario, in cui ognuno ha diverse responsabilità e diverse occasioni di favorire il cambiamento. Alcuni possono fare molto mentre altri avranno bisogno di aiuto nel gestire il cambiamento”.

Il gioco furtivo in Kenya. Esproprio di terre travestito da iniziativa umanitaria

20 Mar


di The Oakland Institute

Il Kenya, la principale destinazione dei safari, con i suoi grandi spazi e la diversità della fauna selvatica, attrae oltre due milioni di visitatori l’anno. Ma lo sviluppo del turismo dei safari e la conservazione dell’ambiente selvatico – un’importante risorsa economica per il paese – sono avvenuti a spese delle comunità, che sono state private della loro terra ancestrale. Le comunità indigene sono state strappate ai loro territori ed escluse dal flusso di denaro del turismo che va verso gli alberghi di lusso e le ditte dei safari. Le aree protette dell’ambiente selvatico sono sorvegliate da guarda-parco anti-bracconaggio, e sono accessibili solo ai turisti che possono pagare alloggi di lusso.
Questo modello di “conservazione della fortezza”, che militarizza e privatizza i beni comuni, è stato duramente criticato per il carattere esclusivo e per essere meno efficace dei modelli in cui le comunità locali guidano e governano le attività di conservazione.
Un modello controverso … è la Northern Rangelands Trust (NRT). … il suo obbiettivo dichiarato è di … aiutare le comunità a governare le loro terre organizzando riserve comunitarie. Fu creata da Ian Craig, la cui famiglia apparteneva all’élite bianca durante il controllo coloniale britannico, … quando la fattoria di bovini … di 62mila acri fu trasformata nella Lewa Wildlife Conservancy.
Dalla sua fondazione la NRT ha creato 39 riserve (conservancies) su 42mila km quadrati (oltre 10 milioni di acri) nel nord e sulla costa del Kenya (circa l’8% della terra del paese). Le comunità che vivono su queste terre sono dedite per lo più alla pastorizia, allevano mandrie per la loro sopravvivenza e hanno sofferto decenni di emarginazione da parte dei governi kenioti che si sono succeduti.
La NRT afferma che il suo scopo è di “trasformare la vita della gente” … Ma le comunità locali affermano che essa li ha privati della loro terra e ha organizzato unità armate di sicurezza che hanno commesso seri abusi violando i diritti umani.
La NRT impiega circa 870 uomini in uniforme, le squadre mobili anti-bracconaggio … ora è accusata di uccisioni e sparizioni illegali … Questi guardiani hanno armi militari, ricevono un addestramento paramilitare nella Kenyan Wildlife Service Law Enforcement Academy, … e presso altre ditte private di sicurezza….
Secondo testimoni locali, la NRT è coinvolta in conflitti fra gruppi etnici connessi al controllo del territorio o alle razzie di bestiame. Molte fonti della comunità, inclusi membri dei consigli degli anziani, hanno informato l’Oakland Institute che 76 persone sono state uccise nella riserva Biliqo Bulesa durante scontri inter-etnici con l’appoggio della NRT.
Inchieste fatte da l’Oakland Institute hanno accertato che 11 persone sono state uccise in circostanze in cui era coinvolto il corpo dei guardiani NRT. Altre dozzine sembra siano stati uccisi dal Kenya Wildlife Services e altre agenzie governative, che sono accusate di rapimenti, sparizioni e torture fatti a nome della Conservancy.
Negli anni, i conflitti per la terra e per le risorse in Kenya sono stati esacerbati dalla presenza di grandi fattorie e delle conservancies. Per esempio il 40% della terra della Contea di Laikipia è occupato da grandi fattorie controllate da solo 48 individui, molti dei quali proprietari di decine di migliaia di acri. Queste fattorie attraggono il flusso turistico e le sovvenzioni internazionali per la conservazione dell’ambiente selvatico.
Diverse riserve occupano un milione di acri nella vicina Contea Isiolo. La pressione per il controllo delle terre fu particolarmente evidente nel 2017 quando ci furono scontri fra i proprietari di fattorie, quasi sempre bianchi, e gli allevatori Samburu e Pokot per i pascoli durante un periodo di siccità. Ma come si dimostra nel Rapporto, gli eventi del 2017 evidenziarono un disagio durato molti anni.
… I locali affermano che la NRT costringe le comunità a rinunziare alle loro terre migliori per conservare l’ambiente selvatico ma poi le dedicano ai turisti. … Secondo diverse testimonianze, essa ottiene l’appoggio delle comunità con la corruzione e la cooptazione dei capi locali … ci sono intimidazioni, compresi arresti e interrogatori … Queste sono tattiche abituali nella NRT.
Questa è impegnata anche nella gestione dei pascoli e nel mercato del bestiame, sicché il suo controllo della regione supera quello dello stesso governo keniota.
….
La NRT e la Kenya Wildlife Services ricevono fondi cospicui da USAID, UE e altre agenzie occidentali … per la conservazione e sono partner di alcune grandi Ong ambientali, fra cui The Nature Conservancy (TNC) che ha tra gli associati alcuni tra i maggiori inquinatori e violatori di diritti umani, come Shell, Ford, British Petroleum e Monsanto … La NRT ha anche partecipato allo sfruttamento delle fonti fossili di energia in Kenya.

(Prima parte dell’Executive Summary di Stealth Game. ‘Community’ Conservancies devastate land and lives in Northern Kenya, The Oakland Institute, USA, 2021. Nelle note c’è una fitta documentazione di questi fatti).

È impossibile tornare all’energia fossile

18 Lug

di Éloi LaurentSocial Europe 14/7/2022

Un fantasma si aggira per l’Europa, quello dei gilet gialli. I loro disordini a Parigi nel 2018-19 hanno creato due malintesi presso molti politici.

Il primo è l’idea che la transizione energetica crei disuguaglianze e che sia questo ad adirare i cittadini. In realtà la transizione è appena cominciata. Le disuguaglianze derivano dall’attuale sistema economico non dalle politiche di transizione. L’esempio più chiaro è nel presente aumento dell’inflazione dovuto alla scarsità di gas e petrolio, per cui la volatilità dell’offerta si traduce in vulnerabilità sociale. Dire che la tragedia dell’Ucraina rafforza la nostra dipendenza significa preparare la strada per una prossima crisi da scarsità di energia.

Il secondo malinteso è che i gilet gialli hanno messo in evidenza una inevitabile incompatibilità tra come arrivare alla fine del mese e come evitare la fine del mondo. Infatti la povertà non aspetta la fine del mese, e d’altra parte non è in questione la fine del mondo ma la capacità del pianeta di ospitare bene l’umanità più povera e fragile. Ma soprattutto, le politiche di una transizione giusta sono possibili ed economiche, in Europa e altrove.

La distribuzione ineguale
Recentemente ho esaminato diversi tipi di disuguaglianza ambientale, comprese quelle della vulnerabilità (esposizione e reattività di individuai e gruppi al degrado ambientale) e della responsabilità (il loro impatto su tale degrado). Questi due tipi di disuguaglianza non derivano da politiche per l’ambiente incuranti delle conseguenze sociali, bensì dalla mancanza di una risposta forte a molti aspetti della crisi ecologica (catastrofe climatica, inquinamento dell’aria, ecc.).

Sappiamo che non agire sul clima aumenterà la vulnerabilità di milioni di europei anziani e socialmente isolati di fronte a ondate di caldo devastanti, del tipo visto in Spagna e Francia questa estate (con temperature notturne a Parigi di 30 gradi a metà giugno). Costruire una transizione giusta in questo caso significa sviluppare politiche di transizione per mitigare le crisi ecologiche e abbassare le ingiustizie che esse creano.

Gli antichi romani stabilirono un principio giuridico: nessuno può giustificarsi adducendo la propria immoralità (nemo auditur propriam suam turpitudinem allegans). Questo principio va applicato alle politiche di non-transizione dell’Europa.

Cooperazione sociale
Dobbiamo proseguire lungo due percorsi. Innanzitutto dobbiamo mostrare che la necessaria riduzione delle disuguaglianze può attenuare le crisi ecologiche (viaggi aerei a lunga distanza, veicoli sportivi ecc. sono responsabili del grosso delle impronte ecologiche (produzione di CO2) eccessive. D’altra parte le politiche di transizione ecologica possono ridurre le disuguaglianze sociali e aumentare il benessere dei più poveri. Ad esempio una tassazione progressiva ed ecologica sul carbone in Francia può redistribuire reddito a favore dei gilet gialli invece di penalizzare le emissioni residue senza alcun compenso sociale (fu quest’ultima la politica di Macron, che scatenò la ribellione).

Martin Luther King disse che il capitalismo è “un sistema che prende il necessario alle masse per dare il lusso alle classi”. Le politiche di giusta transizione dovrebbero fare il contrario: ristrutturare i consumi sulla base del consumo sufficiente e promuovere la cooperazione sociale come tecnologia innovativa del sec. XXI.

Il secondo percorso è ancora più ambizioso. Esso delinea una politica socio-ecologica, oggi e nel lungo periodo, che allo stesso tempo riduca le disuguaglianze sociali e il degrado ambientale. C’è già una quantità di cose da fare, ad es. nelle aree della mobilità e delle abitazioni, come dimostra un recente notevole rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), 3° gruppo di lavoro) sulla riduzione e l’attenuazione delle emissioni.

“Piena salute”
Questo sforzo si dovrebbe accompagnare ad una ridefinizione della ricchezza che proponga nuovi orizzonti, alternativi alla crescita economica distruttiva, come la “piena salute”. Questa è uno stato di benessere persistente – fisico e psicologico, personale e sociale, umano ed ecologico – che accentui la natura olistica della salute, collegando quella mentale a quella fisiologica, quella individuale alla collettiva e l’umanità al pianeta.

Nella sua prima versione, del dicembre 2019, il Green Deal non menzionò la parola disuguaglianza. Oggi l’ingiustizia sociale, spinta dall’inflazione, sta minacciando le ambizioni ambientali dell’Unione Europea. Il rischio di deragliare dev’essere preso sul serio, il che significa raddoppiare questa ambizione, non tirarsi indietro.

Sono proprio le politiche di non transizione che minacciano le politiche di transizione. Ma non possiamo passare dagli shock al capovolgimento delle politiche e poi di nuovo agli shock, ammesso che questa sia una strategia. La transizione ecologica europea non è stata concepita come una postura reversibile, è invece una necessità vitale.

Éloi Laurent è stato uno dei relatori al convegno di giugno dei sindacati europei su ‘A Blueprint for Equality’ (Un programma per l’uguaglianza).

Dalla gestione pubblico-privato a quella pubblico-comunità

10 Gen


di Satoko Kishimoto e Louisa Valentin

Nel luglio 2021 la Commissione Europea ha presentato il Piano Verde (Green Deal), che dovrebbe trasformare la UE in una economia competitiva che gestisce in modo efficiente le risorse. Entro il 2050 le emissioni di gas-serra dovrebbero essere azzerate e “nessuno verrà lasciato indietro”.

Il Piano Verde si affida molto al finanziamento privato per creare grandi investimenti per il clima. Esso quindi si basa su un modello fallito: il partenariato pubblico-privato, che socializza i rischi e privatizza i guadagni. Allo stesso tempo, il piano trascura il ruolo che stanno avendo le comunità nel gestire la transizione ecologica, dalla riduzione delle emissioni al riadattamento delle abitazioni.

Dopo 40 anni, l’esperimento neo-liberista e le politiche di austerità si dimostrano più costosi e anche meno trasparenti. Essi hanno atrofizzato la capacità del settore pubblico di coordinare le politiche pubbliche, dal clima all’esclusione sociale.

I dati del Transnational Institute mostrano che la de-privatizzazione dei servizi pubblici è lo scopo per cui gli enti locali stanno abbandonando le collaborazioni pubblico-privato e stanno riportando i servizi all’interno (in-house). Attualmente le de-privatizzazioni sono 1.556.

Collaborazione pubblico-comunità
Dobbiamo ripensare radicalmente il nostro approccio e avviare un nuovo paradigma per salvare il clima e la sicurezza sociale. I punti di partenza sono l’impegno pubblico e il finanziamento. I Comuni devono accordarsi con i residenti e le organizzazioni locali, invece di cercare consulenti globali e investitori privati.

La collaborazione pubblico-comunità è un approccio innovativo che produce idee nuove per fornire beni e servizi pubblici. Essa permette di esplorare nuove forme di prestazioni pubbliche attraverso il rafforzamento delle comunità nell’affrontare le sfide odierne. Un recente rapporto del Transnational Institute esamina 43 collaborazioni pubblico-comunità per capire come funzionano la proprietà, la gestione e il finanziamento, analizzando più da vicino 10 casi.

Si sono trovati un gran numero e una grande diversità di collaborazioni sperimentali per ridurre la povertà e lavorare contro la crisi climatica. I Comuni sono più attrezzati dei monopoli privati per individuare i problemi locali, e possono trovare soluzioni lavorando sul terreno insieme con le comunità.

Comproprietà a Wolfhagen (Germania)
La collaborazione tra cooperative di cittadini e Comune per produrre energia rinnovabile, dopo la de-privatizzazione, è un eccellente esempio di comproprietà, co-finanziamento e decisioni prese insieme. Nel 2005 la cooperativa BEG Wolfhagen acquistò il 25% della compagnia municipale di energia. I cittadini, grazie alla comproprietà, poterono partecipare alle decisioni sulla produzione e fornitura di energia. Essi collaborano attivamente anche alla transizione verso il 100% di energia rinnovabile, un impegno preso nel 2008. La comproprietà delle energie rinnovabili è parte essenziale di una transizione basata sui cittadini.

Coinvolgimento dei cittadini a Cadice
Coinvolgere i cittadini per produrre insieme politiche per una corretta transizione può aiutare i Comuni a capire quali sono i loro bisogni e dar voce alle comunità. A Cadice (Spagna) il Comune ha risposto positivamente all’enorme richiesta di una transizione al 100% di energia rinnovabile.

La città ha costituito un gruppo di lavoro sulla transizione energetica e uno sulla povertà energetica. Il primo ha il compito di aiutare l’azienda a maggioranza comunale Eléctrica de Cádiz a trasformarsi in un fornitore al 100% di rinnovabili con la collaborazione di cooperative e organizzazioni ambientaliste e dell’Università.

L’altro gruppo di lavoro ha il compito di progettare un sussidio del Comune alle famiglie in difficoltà finanziarie. Il programma creato offre sostegno finanziario e alfabetizzazione energetica.

I due gruppi di lavoro hanno avviato un processo di coproduzione partecipata e hanno fatto convergere sulla sfida climatica diversi gruppi locali: la comunità, l’accademia, e altri con competenza tecnica.

Soluzioni innovative
Le collaborazioni pubblico-comunità hanno il potere di lanciare soluzioni innovative per le odierne sfide sociali ed ecologiche. Esse sono la prova che il denaro pubblico investito nelle comunità crea il cambiamento di cui abbiamo bisogno.

Il Piano Verde europeo rappresenta un’opportunità storica. Non c’è più tempo per ripetere gli errori del passato affidandoci troppo ai finanziamenti privati o a predizioni troppo ottimistiche su tecnologie non sperimentate, come la cattura della CO2.

Invece il denaro pubblico si può investire direttamente nelle comunità locali, facilitando subito la riduzione reale delle emissioni e una giusta transizione. Quindi, affrontare la crisi climatica può diventare un programma per ricostruire il benessere della comunità mettendo al centro i valori di solidarietà, giustizia e democrazia.

(testo originario: “European Green Deal: can it tackle the climate crisis?”, Social Europe, 4th January 2022)

I 12 progetti fossili che distruggono il pianeta

19 Apr


di Luca Manes (da Nigrizia del 10 dic. 2020) – 19-4-2021

Alla vigilia del quinto anniversario dell’Accordo di Parigi sul clima, 18 ong internazionali denunciano le 12 opere che rischiano di dare il colpo di grazia alla Terra


Siamo ormai giunti al quinto anniversario dell’Accordo di Parigi sul clima, che se applicato in tutte le sue parti si spera possa salvare il pianeta. Ma proprio in questi giorni, 18 ong internazionali, tra cui l’italiana Re:Common, lanciano un rapporto che denuncia le 12 opere che il pianeta rischiano invece di distruggerlo. 
Sì, perché i 12 mega-progetti fossili attualmente in fase di sviluppo, se venissero realizzati, causerebbero il rilascio di atmosfera di 175 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Un volume di CO2 sufficiente a esaurire metà del budget di carbonio rimanente per restare al di sotto della fatidica soglia di 1,5 gradi Celsius.
Oltre alle conseguenze per il clima, gli effetti negativi si sprecano sia in termini di inquinamento ambientale che di impatto sulle comunità, comprese pesanti violazioni sui diritti umani.
A guidare l’espansione fossile ci sono società come l’italiana Eni, la francese Total, l’anglo-olandese Shell e le altre major dell’oil&gas, ma anche la finanza gioca un ruolo da protagonista. Dalla firma dell’Accordo di Parigi a oggi, le principali banche e i fondi di investimento mondiali hanno finanziato le società attive in questi 12 progetti con circa 3mila miliardi di dollari.
Un fiume di denaro che dimostra come, nonostante gli impegni e le politiche di disinvestimento adottate in questi anni da molti istituti, per il clima la finanza non stia ancora facendo la propria parte.
Tra i casi più rilevanti inclusi nel rapporto c’è l’espansione dell’industria del gas in Mozambico, guidata da Eni e la francese Total, che sta causando devastazione e violenze nella regione di Capo Delgado, nel nord del paese e davanti allo specchio di mare dove fra il 2010 e il 2013 sono state scoperte enormi quantità di gas: oltre 5mila miliardi di metri cubi, la nona riserva più grande al mondo.
Cabo Delgado è il cuore dell’attività terroristica che dall’ottobre 2017 ha aumentato gli attacchi contro le popolazioni civili e le forze militari. Fino ad ora il conflitto ha ucciso oltre 1.100 persone e ne ha sfollate più di 100mila. 
“In Mozambico la scoperta di enormi riserve di gas si è trasformata in una maledizione per le comunità locali”, ha dichiarato Alessandro Runci di Re:Common, tra gli autori del rapporto. “Oltre 600 famiglie costrette a lasciare la propria casa per far spazio alle infrastrutture dell’industria, mentre il conflitto si fa sempre più violento. È inaccettabile che il governo italiano stia finanziando questo disastro climatico e sociale”, ha aggiunto Runci.
Anche gli altri casi sono tra i più controversi e spesso oggetto di campagne condotte da organizzazioni della società civile internazionale. Nel Mediterraneo orientale, un’altra società italiana, Edison, è tra le proponenti del mega gasdotto EastMed, che dovrebbe collegare i giacimenti di gas della regione, molti dei quali controllati da Eni, con i mercati europei.
In Suriname, la scoperta di un enorme giacimento di petrolio ha innescato una corsa all’accaparramento delle risorse che mette a rischio il delicato ecosistema del paese sudamericano. Nel nord della Patagonia, Total e Shell sono tra le più attive nelle attività di fracking in quel territorio, nonostante persino le Nazioni Unite abbiano sollevato delle critiche, sia per gli impatti ambientali e climatici, che per quelli sulle comunità e i popoli indigeni che abitano la regione.
Il carbone è invece il protagonista dei progetti in Cina, India e Bangladesh, dove l’industria si sta continuando a espandere, ignorando gli appelli della comunità scientifica ad abbandonare il carbone entro il 2040.
Per quanto riguarda la finanza, i giganti americani Blackrock, Vanguard e Citigroup guidano la classifica dei maggiori finanziatori delle società coinvolte in questi progetti, seguiti dalle inglesi Barclays e HSBC e dalla francese BNP Paribas.
Ad alimentare l’espansione fossile ci sono anche le italiane Intesa Sanpaolo e Unicredit, che complessivamente, dal 2016 ad oggi, hanno finanziato con la cifra astronomica di 30 miliardi le società fossili che guidano i 12 progetti, con Eni in cima alla lista dei beneficiari.
Va specificato però che mentre Unicredit ha recentemente adottato delle politiche sui combustibili fossili che vanno nella giusta direzione, Intesa Sanpaolo rimane il fanalino di coda tra le banche mondiali, e uno dei pochi istituti di credito europei a non aver ancora indicato una data per il phase-out del carbone.