Secondo un diffuso stereotipo il calo delle nascite è dovuto al desiderio delle donne di lavorare. Ma per Maurizio Ferrera (Il fattore D. Perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia, Mondadori, 2008), al contrario, più le donne lavorano e più fanno figli. Ciò, almeno nel Nord Europa, dove il tasso di fecondità oscilla tra 2 e 1,8 figli per donna. In Italia, invece, aumenta la disoccupazione femminile e diminuiscono le nascite, con punte più alte nel Mezzogiorno (dove il tasso di fecondità è tra l’1,4 e lo 0,6 figli per donna, contro il 2,7 degli anni ’60).[1] Questo accade nonostante il manifesto desiderio del 60% delle italiane di avere almeno due figli, senza rinunciare a lavorare.
Il child gap, il divario tra figli desiderati e figli avuti, è dovuto a difficoltà economiche e alla difficoltà di conciliare lavoro e famiglia. Il primo ostacolo si risolve proprio con l’occupazione femminile, che alza il reddito familiare. Il secondo è connesso con la scarsa attenzione – dello Stato e delle aziende in Italia – per il work-life balance (conciliazione vita/lavoro). Soprattutto emergono: 1) l’esclusione dal mondo del lavoro dopo la prima maternità (molte aziende fanno firmare alle donne le dimissioni in bianco, da utilizzare nel caso la donna rimanga incinta); 2) la difficoltà di fare carriera per la donna che ha figli.
In Italia sono scarse o assenti le politiche (aziendali e statali) a favore del tempo flessibile, suggerite dall’Unione europea; dal part-time (anche temporaneo),[2] alle banche del tempo, al telelavoro. Si è legiferato essenzialmente a favore dei congedi di maternità e parentali. Ma la formula italiana è meno vantaggiosa che altrove, sia per il tempo utilizzabile – 5 mesi contro i 18 dei paesi scandinavi – sia per la copertura salariale – 80% dello stipendio contro il 100% in Francia, Germania e Spagna. Ed è, comunque, uno strumento ancora sottoutilizzato.
Al contempo sono inadeguati i servizi offerti alla prima infanzia. Se l’Italia ha da sempre una buona copertura degli asili pubblici dai 3 anni in su (tra i più alti in Europa pari al 90%), è molto carente per la fascia da 0 a 3 anni (15% al Centro- Nord e 2% al Sud). E non ha mai adeguato gli orari degli asili alle esigenze professionali delle donne. Negli altri paesi europei ci sono: asili aperti 24 ore al giorno; pubblici o privati con sostegni statali; una maggiore diffusione di asili aziendali e negli enti pubblici. In Italia l’ammortizzatore sociale che sopperisce a questa inefficienza del welfare è rappresentato dalle nonne (che si occupano a tempo pieno del 20% dei bambini), se le madri lavorano, o dalle stesse madri se non lavorano. In Emilia Romagna – dove si ha il maggior numero di occupate in Italia (62%), il numero dei nidi è cresciuto (i Comuni attrezzati sono l’80%) e ha raggiunto gli obiettivi suggeriti dall’UE; e dove orari e tipologia sono diversificati – il tasso di natalità è aumentato. A differenza di quanto avviene al Sud, dove sono molto bassi entrambi gli indici: occupazione e natalità[3].
Secondo uno studio del 2006 della Fondazione Agnelli e del «Corriere Economia», l’invecchiamento italiano è entrato in una fase di “avvitamento”. Si va verso un calo della popolazione in età da lavoro (senza la quale non è sostenibile alcun welfare) e un calo delle donne in età fertile. L’occupazione precaria sta colpendo in particolare i giovani, le donne e il Sud. Considerato l’innalzamento della soglia di giovinezza a 35 anni, la precarietà sta ostacolando la formazione di nuove famiglie e sta condizionando la fecondità. Senza buone politiche di welfare e a favore dell’occupazione femminile non ci può essere sviluppo, né ripresa economica. È su questo aspetto che occorre concentrarsi. L’effettiva parità di genere, anche nel senso di possibilità di accesso al mercato del lavoro, al credito e ai servizi di cura per le famiglie, costituisce un investimento per la crescita del paese al pari degli investimenti in infrastrutture. È significativo il fatto che, per la prima volta nella sua storia, la Banca d’Italia abbia dedicato un intero capitolo del Rapporto Economico del 2011, al “Ruolo delle donne nell’economia italiana”[4] spiegando che l’incremento della partecipazione femminile al mercato del lavoro favorirebbe l’incremento del PIL e la riduzione della povertà.
Per non rischiare “l’estinzione degli italiani” occorre riflettere con serietà su questi dati.
[1] Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, riportate da Ferrera, nel 2020 saremo il paese più anziano d’Europa: 18 giovani e 30 anziani ogni 100 italiani.
[2] In Italia la percentuale di donne con lavoro part-time è del 16%, contro il 90% dell’Olanda.
[3] Del Boca D., Rosina A., Figli e lavoro: due regioni, due storie diverse, in http://www.lavoce.info, 19 febbraio 2010.
[4] www.bancaditalia.it, Rapporto Economico 2011, pp. 118-127.
L’occupazione femminile favorisce la natalità (e lo sviluppo) di Rossella Bufano
Mah…non sono molto d’accordo. Se mi guardo intorno vedo solo discriminazione per ciò che riguarda la donna. Sicuro che se si tratta di fare pulizie o stirare sono certamente le donne che anche in tempo di crisi si “reinventano” e fanno qualsiasi cosa.
Date un’occhiata a questo interessante blog di attualità, parla di occupazione femminile, di economia, di diritti dei cittadini e di molto altro.
https://dirittideicittadini.wordpress.com/page/2/