Il fiscal compact e l’equivoco di Luciano Gallino

17 Gen
Luciano Gallino

Luciano Gallino

di Paolo Pettenati

In un articolo su La Repubblica dell’8 genn. 2013, Luciano Gallino così commenta l’entrata in vigore, in Italia e in altri paesi europei, del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione Economica e Monetaria (il cosiddetto Fiscal Compact, approvato dal Parlamento italiano nel dicembre scorso): “Anche l’Italia ha il suo baratro fiscale, come quello Usa di natura politica prima che economica … Ridurre davvero il nostro debito pubblico nella misura e nei tempi richiesti dal Trattato in questione è un’operazione che così come si presenta oggi ha soltanto due sbocchi: una generazione o due di miseria per l’intero Paese; aspri conflitti sociali; discesa definitiva della nostra economia in serie D. Oppure la constatazione che il debito ha raggiunto un livello tale da essere semplicemente impagabile”.

Secondo Gallino le conseguenze catastrofiche del Trattato deriverebbero in particolare dall’art. 4 che prescrive: “Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di un paese contraente supera il valore di riferimento del 60% … , tale paese opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno”. Il Trattato è in vigore dal 1° gennaio di quest’anno, ma l’inizio della riduzione del rapporto debito-PIL verso la meta del 60% dovrà partire dal 2015.

L’equivoco

In realtà le preoccupazioni di Gallino sono infondate. Seguiamo infatti  il suo ragionamento: “Il PIL [in Italia] supera i 1650 miliardi di euro, per cui il 60 per cento di esso ne vale circa 1000. Mentre il debito accumulato ha superato i 2000 miliardi. Al fine di farlo scendere al 60 per cento del PIL come prescrive il Trattato, si dovrebbe quindi ridurre il debito di 50 miliardi l’anno per un ventennio [per un totale quindi di 1000 miliardi di euro]. La cifra è di per sé paurosa, tale da immiserire tre quarti della popolazione”.

Se questo fosse il percorso prescritto, Gallino avrebbe ragione, ma nel suo ragionamento ci sono due gravi malintesi: in primo luogo, l’art. 4 del Trattato non prevede  affatto che per raggiungere la meta del 60% nel rapporto fra debito e PIL, partendo da un livello di oltre 120%, si debba ridurre [dimezzare] il numeratore, ossia lo stock del debito, lasciando inalterato il denominatore (quindi con crescita zero del PIL nominale!). Lo spirito del Trattato prevede al contrario che si  lasci inalterato il numeratore, con una politica del bilancio pubblico in pareggio, e si aumenti il denominatore. In secondo luogo, non è vero che la meta del 60% debba essere raggiunta in venti anni: l’art. 4 del Trattato si accontenta di imporre una tendenza alla riduzione del rapporto debito/PIL, simile alla rincorsa di “Achille nei confronti della tartaruga”.

Possiamo  chiarire il problema con un esempio. Supponiamo che nel 2015, anno di partenza della rincorsa, il PIL sia salito a 1700 miliardi di euro e il debito pubblico a 2040 miliardi. Si avrà quindi b (rapporto debito/PIL)  = 2040: 1700 = 1,2 = 120%. Nell’anno successivo la distanza tra b e 60% dovrà essere ridotta di un ventesimo, ossia di 3 punti, e quindi b dovrà scendere a 117%. Per raggiungere tale risultato è sufficiente che il PIL nominale cresca del 2,5%  ossia diventi 1700×1,025 = 1742,5 miliardi, mentre, se il bilancio dello Stato è in pareggio, il debito rimarrà a 2040 miliardi. Nel 2016 si avrà pertanto  b = 2040/1742,5 = 117%. L’ obbiettivo sarà così raggiunto.  Nell’anno successivo la riduzione di b dovrà essere pari a (117 – 60): 20 = 2,85 punti e quindi il nuovo rapporto dovrà scendere a  b = 117 – 2,85 = 114,15 . Come si può facilmente verificare, se il PIL cresce di nuovo del 2,5% , anche questo obbiettivo sarà raggiunto.

Si noti che il tasso di crescita richiesto riguarda il PIL nominale; ad esempio, si potrebbe avere un tasso di crescita del PIL reale fra 0,5%  e 1%  e un tasso di inflazione tra il 2% e il 2,5% . Come si può osservare, si tratta di valori facilmente sostenibili,  più o meno in linea con la media europea dell’ultimo decennio e con il limite di tolleranza della BCE.  Per maggior sicurezza si potrebbe inoltre rinforzare il percorso di discesa di b con una politica di alienazione del patrimonio dello Stato volta a ridurre il valore assoluto del debito pubblico.

Conclusione

Si può quindi concludere che la parte più impegnativa del fiscal compact  riguarda non tanto il sentiero di sviluppo del PIL, facilmente sostenibile a condizione  che siano attuate le necessarie politiche a favore della competitività e della crescita, quanto la condizione del bilancio pubblico in pareggio. Una volta iniziato il percorso di rientro la strada però diventerebbe via via più agevole grazie alla riduzione della spesa per interessi e quindi alla possibilità dello Stato di destinare  tale riduzione a sgravi fiscali e/o a maggiori investimenti pubblici.

Queste considerazioni naturalmente nulla tolgono alla necessità, giustamente sottolineata da Gallino, di una politica europea maggiormente orientata alla crescita, alla solidarietà, alla coesione sociale e all’integrazione non solo economica e monetaria, ma anche sociale e politica.

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7 Risposte to “Il fiscal compact e l’equivoco di Luciano Gallino”

  1. Roberto 21 gennaio 2013 a 19:21 #

    Non mi è chiaro come si otterrebbe un aumento del 2,5% del PIL allo stato attuale ed in presenza di obbligo di pareggio di bilancio in costituzione: Per raggiungere il pareggio, a tutt’oggi, dovremmo infatti tagliare spesa per diversi punti percentuali di PIL e lo stesso FMI ha recentemente ammesso che il demoltiplicatore sulla crescita per ogni punto percentuale di PIL di spesa tagliata oscilla tra l’1 e l’1,7%. Dunque, per l’effetto combinato di fiscal compact e pareggio di bilancio per crescere del 2,5% (o semplicemente per crescere) su base annua, nei prossimi anni dovrebbe accadere un miracolo o giù di lì. A prima vista, mi sembrerebbe dunque che Gallino abbia ragione, almeno sulla sostanza del suo ragionamento.

    • Paolo Pettenati 22 gennaio 2013 a 19:24 #

      La Banca d’Italia (Bollettino economico, gennaio 2013) prevede la ripresa dell’economia italiana per la seconda parte di quest’anno, trainata dalle esportazioni e in piccola parte dagli investimenti. Nel 2014 il PIL nominale dovrebbe quindi crescere fra 0,5 e 1 per cento in termini reali e del 2-2,5% per effetto dell’inflazione, quindi con un aumento complessivo di circa 3%. L’aumento del PIL farebbe a sua volta aumentare le entrate fiscali. Se pertanto lo Stato riuscisse a mantenere inalterata la spesa pubblica, il bilancio pubblico andrebbe in pareggio e lo stock del debito pubblico resterebbe così inalterato, anzi potrebbe diminuire se venissero effettuate le alienazioni programmate (16 miliardi all’anno) del patrimonio pubblico. In conclusione il rapporto debito-PIL diminuirebbe di 3-4 punti ed il fiscal compact sarebbe quindi più che rispettato. E’ un percorso difficile e pieno di incognite, ma del tutto fattibile, se il futuro governo non cederà alle lusinghe populiste dei falsi keynesiani o alle previsioni catastrofiche dei profeti di sciagura.

  2. Massimiliano Rubes 25 gennaio 2013 a 13:43 #

    Sia USA che GB stanno cercando di tagliare il debito con l’inflazione. hanno in effetti tassi reali sul debito negativi, ma sono paesi con sovranità monetaria. Non è il nostro caso, se si decide di pagare il debito con l’inflazione poi si perde competitività rispetto ai paesi competitori, Germania innanzitutto e questo significa bilancia commerciale passiva e quindi spread più alti. Comunque la si giri Gallino ha ragione, a meno che non si decida di riequilibrare in qualche modo le bilance commerciali dei vari paesi dell’area Euro, questo si che è il vero nodo, ma viene sempre solo accennato, perchè comporta inflazione e la Germania, grande paese creditore, non vuole moneta svalutata.

  3. Luca Salvi 26 gennaio 2013 a 12:38 #

    Ma che succede se le vostre (modeste) previsioni di crescita del PIL non si realizzassero? Allora sì che sarebbero guai seri… speriamo di non fare anche noi la fine della Grecia, dove il FMI ha sbagliato tutte ma proprio tutte le sue previsioni: http://www.huffingtonpost.it/teodoro-andreadis-synghellakis/la-grecia-e-a-terra-e-lfmi-scopre-di-aver-sbagliato-le-previsioni_b_2540263.html?utm_hp_ref=italy&utm_hp_ref=italy

    • Nicolò Addario 28 gennaio 2013 a 18:56 #

      La posizione di Paolo Pettenati mi sembra la più ragionata e la più ragionevole. Poichè uscire dall’Europa non si può (questa sì sarebbe una catastrofe), l’unica opzione realistica è mettere in ordine i nostri conti, rendere più competitivo il “sistema Italia” e concordare con i partners europei una politica più flessibile (ma solo per gli investimenti produttivi, altrimenti….). In questa discussione spesso si dimentica che la perdita di competitività dell’Italia è una conseguenza anche di una spesa pubblica clientelare, inefficiente e fonte di disuguaglianze e corruttele che sono andate a beneficio di rendite, incompetenze, aziende fuori mercato ecc. In questo senso i c.d. keynesiani, nella migliore delle ipotesi, mi sembrano ignorare che il modo di oggi non è più (da un bel pezzo) quello della prima metà del secolo scorso. In Italia ci sono troppe posizione di rendita e troppi intrecci perversi tra politica ed economia e, questo è il punto, la globalizzazione non fa sconti a nessuno. Come dicono gli anglosassoni, it’s economy, stupid. Potrà non piacere, ma questo è il modo reale.

  4. Daniele Martino 11 febbraio 2013 a 18:17 #

    Mi sembra che si facciano i conti senza l’oste! Si parte infatti dal presupposto che il debito non aumenterà. Al contrario va osservato che GL’INTERESSI SUL DEBITO PUBBLICO NON SARANNO A ZERO MA SARANNO PARI A 80/100 MILIARDI e questi, a differenza della crescita SONO CERTI.
    Partendo IPOTETICAMENTE da una crescita zero (ricordiamo che siamo in recessione e quindi è più facile che sia negativa come confermato dagli stessi dati sulla produzione!), il rapporto debito pubblico/Pil aumenta (al debito si aggiungono gli interessi), per lasciare invariata la situazione, DEBITO PUBBLICO STABILE (e non rapporto Debito pubblico/PIL), bisognerebbe che l’AVANZO PRIMARIO sia tale da coprire interamente gl’interessi e quel 3% di debito pubblico da tagliare che è di circa 50 miliardi di €.
    Complessivamente, tolte le spese, tra gli attivi dello stato dovrebbero rimanere non meno di 130/150 miliardi di € per coprire, appunto, gl’interessi e la quota di debito pubblico da tagliare, ossia l’6/7% dell’intero debito pubblico.
    Il problema è che RIMANENDO A DEBITO PUBBLICO INVARIATO, a quel punto, con 1 anno in meno (perché gli anni entro cui rientrare saranno 19), la percentuale di DEBITO DA TAGLIARE AUMENTERA’ (divisore più basso a “capitale” invariato) con la conseguenza che aumenterà anche la cifra da recuperare (non sarà più 50 miliardi la somma da pagare ma si andrà verso i 55/60 a cui aggiungere gl’interessi che saranno più o meno sempre gli stessi).
    Concludendo, è il buon senso che lo dice, nei prossimi anni sarà impensabile aspettarsi crescite dell’ordine del 3% sia perché non ci sono mai state negli ultimi vent’anni, sia perché siamo in recessione e, per chi non lo sapesse, in recessione ci sta entrando pure la Germania.
    Nonostante tutto e nonostante tutti, nei prossimi anni, è la matematica che lo dice, IL DEBITO PUBBLICO AUMENTERA’ perché è impensabile che ogni anno si possano fare manovre da più di 150 miliardi (perché se si vuole tagliare il debito pubblico è almeno questa la somma che si deve aggiungere al fine di aver un attivo di bilancio).
    Ergo , il FISCAL COMPACT, è solo macelleria sociale che non risolverà il problema!
    Fra parentesi, è una bufala colossale che il problema sia il debito pubblico ed è malafede, da parte dei BOCCONIANS o dei GIANNIZZERI( Giannini, Boldrin e tutti quei liberisti di turno che propagandano che la soluzione della crisi si trova nelle ricette liberiste neoclassiche di “Milton Friedman”).
    Questo è il momento che lo STATO SPENDA A DEFICIT COME IN QUESTI GIORNI HA DICHIARATO DI VOLER FARE ANCHE IL GIAPPONE (non mi sembra che i mercati l’abbiano punito eppure ha un rapporto debito pubblico/PIL al 240%) ed è vergognoso (oppure in MALAFEDE) che uno come MONTI TRATTI KEYNES come un “appestato” andando in giro a dichiarare che bisogna smetterla di fare crescita con le vecchie politiche Keynesiane – http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=164514)

    • Nicolò Addario 13 febbraio 2013 a 19:58 #

      Mi limito a osservare che quest’ultimo intervento non discute minimamente gli argomenti esposti dai vari contributi precedenti. Diamo che sembra, per come è esposta, una tesi precostituita. Ci vorrebbe ben altro e la matematica bisognerebbe farla sul serio se si volesse partecipare veramente a una discussione pacata. Ci sono ragioni assai serie per ritenere che le “tradizionali politiche keynesiane” non siano più efficaci come un tempo (alcune si possono leggere anche su questo sito) e non si tratta affatto né di un problema di bieco liberismo né tantomeno di voler fare “macelleria sociale”. Vorrei infine far notare che il debito del Giappone è quasi tutto in mano ai giapponesi, perciò la finanza internazionale se ne infischia.

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