Roberto Romani e l’immigrazione: le antinomie dell’accoglienza – II parte

18 Mar


di Cosimo Perrotta – 18-3-2024

Romani osserva giustamente che gli opposti criteri di solidarietà, se portati all’estremo, portano entrambi ad esiti assurdi. Il criterio della prossimità può produrre discriminazione e xenofobia; quello universalistico diventa prima o poi irrealizzabile o distrugge le stesse fonti della ricchezza. Robert Putnam, riferisce l’autore, sostiene che il capitale sociale e la fiducia verso l’altro diminuiscono nelle società multietniche. Negli ultimi decenni i sociologi si sono divisi sugli effetti della vicinanza fra gruppi etnici diversi. Secondo alcuni, i rapporti più stretti fra gruppi etnici diversi accrescono la tolleranza, secondo altri invece accrescono la competizione per le risorse scarse.
Una divisione simile si è prodotta tra i filosofi. Alcuni – i “comunitari”, come Michael Walzer – chiedono di limitare i flussi di immigrati e non concedere loro la cittadinanza. Il patriottismo, dice Walzer ha un fondamento morale e il welfare sarebbe “tipicamente” un progetto nazionale. Invece altri autori, come John Rawls, affermano il diritto di tutti a godere delle libertà fondamentali e il dovere degli stati di favorire i più poveri. Ma anche Rawls, fa notare Romani, giustifica i controlli alle frontiere.
La divisione esiste tuttora. Per Joseph Carens, l’apertura delle frontiere ridurrebbe il divario fra paesi ricchi e poveri; ma egli ammette che la fuga dei cervelli può accrescerlo. I bisogni primari degli immigrati devono avere la precedenza sugli interessi meno urgenti dei cittadini dei paesi ricchi. Per Michael Blake e Oberman i paesi ricchi hanno il dovere di assistere quelli poveri per lo sviluppo.
Queste tesi, scrive Romani, ignorano gli effetti dei “grandi numeri”. Un gruppo etnico in un paese straniero è un fattore di attrazione per i suoi connazionali, tende quindi ad estendersi. E un flusso troppo grande di arrivi tende a compromettere la democrazia. D’altra parte, ammette l’autore, rifiutare l’accoglienza contraddice proprio la democrazia e i “valori universali sui quali si è fondato il progetto liberale dopo il 1945” (p. 86). Romani ci lascia con queste inconciliabili antinomie, auspicando giustamente un controllo dei flussi “unito a efficaci politiche di integrazione” (p. 90).
Si noti, tuttavia, che le antinomie sono irresolubili perché derivano dai principi e perché si riferiscono a realtà ritenute ineluttabili. Ma il flusso di migranti che cerca lavoro non deriva da un principio e non è ineluttabile. Lo abbiamo creato noi. Non mi riferisco al colonialismo e al neocolonialismo, che pure c’entrano, ma al rifiuto degli stati occidentali di programmare un numero annuo di ingressi in base alla domanda di lavoro espressa dalle proprie aziende e dalle proprie famiglie. Solo per l’Italia, la Banca d’Italia, gli economisti OCSE, l’ISMU ecc. valutano il fabbisogno economico di nuovi lavoratori in 4 o 500mila l’anno. Ma gli arrivi del 2023 sono stati meno di 150mila.
C’è una politica dei governi occidentali di non concedere i visti d’ingresso, con vari pretesti. Se si programmassero gli ingressi (come hanno fatto gli USA per tanti decenni) gli aspiranti immigrati potrebbero arrivare legalmente, senza i rischi mortali di adesso. Invece di sprecare inutilmente miliardi (che finiscono alla criminalità organizzata di mezzo mondo) per bloccare i flussi di migranti, si potrebbe con quei soldi organizzare un’accoglienza produttiva, dare una residenza decente ai nuovi arrivati, insegnare loro la nostra lingua (unica via, insieme alla scolarizzazione, per non far svanire la tanto invocata identità nazionale), insegnare l’informatica, l’inglese e un mestiere. Questo hanno fatto per decenni Svezia e Germania, e prima ancora, parzialmente, Gran Bretagna, Francia e altri. Ciò ha giovato sia alle loro economie che al benessere dei locali.
Il welfare che va agli immigrati in realtà non viene tolto ai locali. Esso non è una spesa assistenziale ma un investimento. Il welfare state postbellico fu il più grande investimento in capitale umano mai avvenuto nella storia del capitalismo. Esso fece schizzare in alto la produzione di ricchezza; fece crescere contemporaneamente profitti e salari; portò per la prima volta il benessere anche ai ceti più poveri, fino allora esclusi; accrebbe la produttività economica e sociale degli stati. Su questo pilastro è nata la democrazia europea.
Non si dimentichi che il flusso di migranti viene causato dalla domanda di lavoro di imprese e famiglie occidentali. Oggi l’ossessione di respingerli (peraltro irrealizzabile) porta a lasciare i migranti in miseria, super-sfruttati e fuori di ogni controllo sociale e culturale.
È vero che oggi anche Gran Bretagna, Svezia e Germania hanno smesso di accogliere senza limiti e devono ridurre gli afflussi. Ma intanto si sono arricchite e hanno integrato nella civiltà occidentale decine di milioni di persone, giovando – con le rimesse – anche ai paesi d’origine degli immigrati. L’Italia invece è un’economia che ristagna da 25 anni.

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