Decrescita: il rischio delle semplificazioni

27 Giu

di Benedetto Rocchi – Università di Firenze

L-architetto-della-decrescita  Spett.le Redazione,

un qualsiasi processo di sviluppo implica anche una crescita dimensionale. Per questo non vedo opposizione tra crescita economica e sviluppo della società. Mettere al centro il concetto di “crescita” (come fanno i sostenitori della decrescita) indica una certa semplificazione ideologica. Sul piano economico, Pasinetti ha messo in luce i limiti dei modelli di crescita omogenea, mostrando che,  con l’accumulazione delle conoscenze, l’aumento di ricchezza sociale implica la soddisfazione dei nuovi bisogni che l’aumento del reddito fa emergere.L’insistenza sulla diminuzione del PIL è solo la punta di un iceberg di semplificazioni. Ad esempio Serge Latouche sostiene, tra i punti del suo “decalogo decrescista”, la necessità di una moratoria nello sviluppo di nuove tecnologie, preconizzando allo stesso tempo la fine del lavoro attraverso una più ampia sua distribuzione (il vecchio “lavorare tutti, lavorare meno”) e l’orientamento verso l’autoconsumo. Ma l’esperienza storica mostra che nelle società rurali a tecnologia arretrata e basate sull’autoconsumo si lavora tutti (eccetto forse alcuni gruppi sociali privilegiati) ma, ahimè, si lavora molto! Basta farsi raccontare dai vecchi delle nostre campagne la vita che facevano per farsi un’idea di quanto la tecnologia sia stato uno strumento di “liberazione” dal lavoro.

Un’altra semplificazione collega la decrescita con la conservazione delle risorse naturali non rinnovabili, sulla base dell’ipotesi che più PIL significhi più consumi materiali e quindi crescente depauperamento delle riserve. Ma il PIL può crescere anche per incremento della qualità dei beni prodotti e non della loro quantità (come ha sottolineato Musu in questo dibattito). Inoltre lo stock di risorse naturali è un concetto sfuggente, la cui definizione (e misura) dipende dalla tecnologia a disposizione. Quelli che sono apparsi nel passato come problemi “globali”, oggi ci sembrano limiti ambientali “locali” e risolvibili con un’adeguata tecnologia. In assenza di possibili “misurazioni” (tutte le misure sperimentali sono stime soggette ad errore, figuriamoci la “misurazione” globale di risorse scarse) il concetto stesso di stock “globale” diventa essenzialmente politico. Ovviamente si devono considerare i limiti posti dall’ambiente all’azione umana, talvolta adottando comportamenti precauzionali; ma quanto più la scala si fa globale tanto più il confronto tra costi e benefici si fa incerto e la decisione si fa politica (vedi ad es. Lindzen http://www.euresisjournal.org/public/article/pdf/EJv2id9_SM2008_Lindzen.pdf). La contrapposizione tutta politica tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo sulle emissioni di gas clima-alteranti lo dimostra.

La questione si fa ancora più complessa quando si parla di sviluppo umano, cioè dell’uomo in tutte le sue dimensioni. I sostenitori della decrescita hanno uno sguardo pessimista sulle società umane. Forse per questo fanno affidamento sulla soluzione politica. Come ricordava Simona Pisanelli nel suo post dell’11 febbraio, Wolfgang Sachs afferma che “i cambiamenti sul larga scala non esistono senza politica”: infatti la ricetta proposta dal rapporto del Wuppertal Insitut sul “Futuro Sostenibile” (www.edizioniambiente.it/eda/catalogo/libri/609/) per passare da una “economia dell’efficienza” ad una “economia della sufficienza” consiste nel pianificare i consumi materiali con una regolamentazione dei comportamenti individuali. Sarebbe necessario che la “moderazione delle pretese” diventasse “una priorità nella politica” e “nella cultura di massa”. In sostanza, spostare il baricentro verso decisioni centralizzate, nonostante nello stesso rapporto la politica e lo Stato vengano descritti, non a torto, come asserviti troppo spesso all’economia e alle sue lobby.

Non esistono soluzioni semplici: neanche sulle diseguaglianze, che pure siamo molto più capaci di “misurare”. Il problema distributivo esiste anche nelle economie pianificate; e l’esperienza storica dovrebbe spingerci a grande prudenza su questo punto.

Lo sviluppo, quando è sviluppo umano, è per definizione sostenibile: da un punto di vista economico, sociale e ambientale. Una decrescita economica verso un (immaginario) stato stazionario mi sembra un progetto sostanzialmente conservatore (forse con residui di un certo imperialismo culturale ereditato dal positivismo).

Non c’è bisogno tanto di diminuire il PIL, quanto piuttosto, come afferma Luigino Bruni, di una decrescita delle transazioni economiche nella regolazione della vita civile. Un tipo di decrescita a favore dello sviluppo umano, che chiede però meno politica e più società: “i prossimi decenni dovranno essere necessariamente caratterizzati da una decrescita e ritirata della politica (non solo e non tanto una decrescita della economia) per far spazio al civile e alla sfera pubblica, poichè più un sistema è complesso meno pesante deve essere la mano che entra dall’esterno nelle sue dinamiche” (L. Bruni, Le nuove virtù del mercato nell’era dei beni comuni, Roma, Città Nuova, 2012: pp.10-11).

6 Risposte to “Decrescita: il rischio delle semplificazioni”

  1. cosimoperrotta 27 giugno 2013 a 17:38 #

    Dissentire dalla decrescita non significa negare i gravissimi problemi ambientali prodotti dall’attuale sviluppo economico, incontrollato e non organizzato. E’ ormai evidente, anche al livello scientifico, che i problemi della distruzione ambientale sono globali, e che non bastano “adeguate tecnologie” per risolverli. Oltre a queste, essi richiedono cambiamenti profondi nella struttura produttiva e anche nelle abitudini di consumo. L’autore trascura, ad es., le conseguenze devastanti dell’effetto serra o della deforestazione o della distruzione della bio-diversità, e – a monte – dell’uso senza limiti degli idrocarburi. Questi non sono fenomeni politici, ma processi che comportano, fra l’altro, l’estinzione di molte specie animali, la diffusione del cancro e di altre malattie, lo scioglimento dei ghiacci, la desertificazione, l’impoverimento dei corsi d’acqua, ecc. Inoltre è noto che i paesi poveri, a pagamento, devastano il proprio ambiente ospitando i rifiuti tossici dell’Occidente, vendendo la terra fertile a Cina e Arabia Saudita, vendendo diritti minerari che distruggono l’habitat di uomini e animali, ecc. L’autore afferma che “lo sviluppo, quando è sviluppo umano, è per definizione sostenibile”. Ma qui, per ‘umano’, o si intende un’ideale di perfezione, e allora l’affermazione è un truismo inutile; oppure si intende lo sviluppo reale, e allora non è assolutamente vera.

    • Benedetto Rocchi 1 luglio 2013 a 18:06 #

      Caro Perrotta,
      la ringrazio per l’appassionato commento al mio articolo. Provo a rispondere sinteticamente su un paio di punti.
      1. Comincio dalla fine del suo commento. Lei molto generosamente mi attribuisce l’intenzione di teorizzare uno sviluppo perseguito secondo un “ideale di perfezione”. Molto più modestamente, usando il termine “sviluppo umano” intendevo riferirmi al concetto che, inizialmente proposto da Amartya Sen per allargare lo sguardo oltre la semplice produzione e consumo di merci (PIL), è finito per diventare oggetto di un rapporto annuale dell’ONU (http://hdr.undp.org/en/) e del calcolo di svariati indici proposti per la sua misurazione. Una delle componenti dello sviluppo che viene chiamato umano in letteratura è la sostenibilità ambientale. Di qui la mia osservazione che “Lo sviluppo, quando è sviluppo umano, è per definizione sostenibile: da un punto di vista economico, sociale e ambientale.” Si tratta di vedere se e in che misura è possibile far sviluppare la sfera economica dell’attività umana senza rinunciare alla salvaguardia dell’ambiente, alla giustizia sociale, alla libertà delle persone, alla qualità dei rapporti umani… non è forse questo lo sviluppo felice?
      2. Probabilmente la sinteticità richiesta dai limiti di lunghezza ha reso oscura la mia discussione. Ho riletto tuttavia il mio pezzo e non capisco come possa affermare che io neghi “i gravissimi problemi ambientali prodotti dall’attuale sviluppo economico”. Io mi sono limitato a citare le risorse non rinnovabili semplicemente per sottolineare come la relazione che lega lo sviluppo dell’attività economica con il consumo degli stock non sia affatto lineare. Un’affermazione che non mi ha impedito di richiamare la necessità di adottare anche scelte ispirate al principio di precauzione. Ciò che mi premeva sottolineare, piuttosto, è che quando si parla di scarsità assolute globali, dal momento che la misurazione degli stock diviene inevitabilmente oggetto di discussione scientifica (come ad esempio quella sul ruolo e portata delle forzanti antropiche nella dinamica delle temperature globali medie), la valutazione di costi e benefici si fa incerta (e come potrebbe del resto non esserlo quando si parla di scenari secolari?) e le decisioni si spostano dall’ambito del discorso economico a quello della decisione politica. E’ necessario che questo “spostamento” sia trasparente e chiaro, per evitare di esporre la ricerca scientifica al rischio della strumentalizzazione a fini politici dei suoi delicati processi: le decisioni di politica ambientale globale, infatti, impattano (e notevolmente) anche sugli incentivi economici!
      3. Mi permetta di dirle infine (facendo un po’ di garbata polemica) che lei, elencando i problemi ambientali, fa un po’ di ogni erba un fascio, mettendo insieme gli impatti globali sul clima (effetto serra con conseguente scioglimento dei ghiacci), possibili cause di tali impatti (deforestazioni, combustione idrocarburi) e problemi ambientali che potrebbero avere anche cause locali e non globali (incidenza del cancro, desertificazione). Forse un piccolo esempio di quelle semplificazioni che pavento nel mio pezzo.

  2. adepadova 28 giugno 2013 a 11:15 #

    Chissà perchè si additano sempre le esemplificazioni (ovviamente semplificanti in quanto esemplificazioni) di chi propone riflessioni decrescenti e non si notano le semplificazioni sistemiche contenute nel pensiero domninante. In questo articolo, già nelle prime righe noto la frase: “l’accumulazione delle conoscenze, l’aumento di ricchezza sociale implica la soddisfazione dei nuovi bisogni che l’aumento del reddito fa emergere.” dando per scontato che i bisogni siano soddisfacibili solo attraverso il danaro e che addirittura è l’aumento del reddito che fa nascere nuovi bisogni. Non può essere che qualcuno desideri intensamente di godere dei frutti del suo orto (non per soddisfare tutte le proprie esigenze alimentari ma comunque tante) ed utilizzi tutte le conoscenze disponibili per migliorare la resa di tale orto senza l’ausilio di costose soluzioni propinate dal sistema economico mercantile? Se l’intelligenza, la conoscenza e la innovazione tecnologica e sociale venisse messa a servizio dello sviluppo umano e non dello sviluppo economico si potrebbe lavorare meno, guadagnare meno, vivere con meno ed essere più ricchi. Non si tratta di tornare a zappare la terra con le mani o ararla con l’ausilio dei buoi, ma di migliorare la capacità della terra di soddisfare i nostri bisogni con meno energie e lavoro. Potrei continuare ma temo che esista nell’autore dell’articolo una, probabilmente inconscia, repulsione ad affrontare in questo modo la questione

    • Benedetto Rocchi 1 luglio 2013 a 18:28 #

      Caro Adepadova,
      mi scuserà se sarò un po’ didattico nel rispondere al suo commento, anche se le garantisco che non mi ripugna affatto affrontare la questione che lei pone. Il fatto che l’aumento del reddito faccia emergere nuovi bisogni significa semplicemente che i bisogni umani sono gerarchicamente ordinati: alcuni (come i bisogni fisiologici di alimentazione e protezione dalle intemperie) sono più urgenti di altri. Non stupisce perciò che le persone che vivono con un dollaro al giorno desiderino in genere produrre quanto più possibile dal loro orto senza preoccuparsi troppo degli effetti sull’ambiente. Una delle poche leggi economiche che riscuotono un unanime consenso è quella che dice che al crescere del reddito pro-capite diminuisce la quota di spesa alimentare. Questo ovviamente non implica affatto che “i bisogni siano soddisfacibili (?) solo con il denaro”: implica semplicemente che le persone desiderano soddisfare certi bisogni prima degli altri. L’esperienza insegna che i bisogni che possono essere soddisfatti senza denaro, ad esempio quelli soddisfatti curando hobbysticamente un orto biodinamico che non richieda alcun input acquistato sul mercato, sorgono quando la società ha raggiunto un certo grado di soddisfacimento dei bisogni fondamentali.
      Sono totalmente d’accordo con lei che l’intelligenza, la conoscenza e l’innovazione tecnologica e sociale debbano essere al servizio dello sviluppo umano. E che non necessariamente diventare più ricchi faccia diventare più felici (anzi spesso accade il contrario). Ma, come dice Amartya Sen nel suo Development as Freedom “… digiunare ed essere costretti a soffrire la fame non sono la stessa cosa. E’ il fatto di avere l’opzione di mangiare a rendere il digiunare quello che è: scegliere di non alimentarsi là dove alimentarsi si poteva”.

      • Elio Tompetrini 11 luglio 2013 a 17:53 #

        Sviluppo felice, decrescita, bioeconomia. L’importante è la consapevolezza che è necessario un cambiamento radicale dei modelli culturali generali e dei singoli, con conseguente cambiamento della Politica e dell’economia, prima che sia troppo tardi e il pianeta terra non ce la faccia più a soddisfare i bisogni, almeno primari, di tutti gli esseri umani. Felicità. Dipende dal contesto culturale e da dove si parte. Per una donna di molte aree africane, la felicità potrebbe essere non fare più tre chilometri al giorno per riempire un secchio d’acqua, o, addirittura, avere un vero bagno in casa. Per un giovane occidentale potrebbe essere la sostituzione del telefono cellulare con un modello sempre più aggiornato. “la circumdrome del rasoio”, di Roegen, ( radersi più in fretta per aver più tempo per lavorare a una macchina che rada più in fretta per poi aver più tempo per lavorare a una macchina che rada ancora più in fretta, e cosi via, ad infinitum). Naturalmente non vuol dire “decrescere”, ma usare bene la tecnologia per vivere meglio, ma tutti, con maggior valore alla solidarietà e l’uguaglianza. Sulla terminologia. Sviluppo, è un concetto ben spiegato dal sig. Ronchi, nel significato che gli attribuisce. Purtroppo, nell’interpretazione generale, nel nome dello “sviluppo”, e anche dello “sviluppo sostenibile”, si compiono nefandezze di grande impatto ambientale. E l’ambiente, con le sue risorse, è il solo che ci ha permesso finora la vita sul pianeta. Ma le sue risorse, come ben sappiamo, non sono affatto, in gran parte, rinnovabili.

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