Per un nuovo keynesismo: commento a “Human Capital”, di Perrotta, Rizzello e Sunna – I parte

20 Mag


di Giorgio Barberis e Francesco Tomaso Scaiola

Il libro di Cosimo Perrotta, Salvatore Rizzello e Claudia Sunna, Human Capital. The Driving Force for Economic Development, Palgrave-Macmillan, New York-London, coniuga la profondità di ragionamento, analisi e proposta, con una manegevolezza che rilancia, ampliandole, alcune riflessioni del precedente testo di Perrotta Il capitalismo è ancora progressivo? Se quest’ultimo invitava alla riflessione tipica del dubbio, quello attuale propone una ragionata certezza.
Punto nevralgico è la ricongiunzione dell’interesse privato a quello generale, da intendersi, non in qualche forma «neocorporativa» di armonia degli interessi, ma in un nuovo «pactum» (termine del contrattualismo) che dia spazio al «capitale umano», il vero motore dello sviluppo economico. È interessante la scelta del concetto capitale (umano), anziché il termine risorsa. Quest’ultimo spesso viene associato a sfruttamento, mentre capitale richiama investimento, dunque un aspetto dinamico e multiforme, non basato, a livello teorico, sul depauperamento, spesso di breve periodo, bensì sull’interazione nel lungo periodo.
Per spiegare tale prospettiva, gli autori pongono il lettore subito di fronte alla cruda realtà: «L’attuale crisi economica mondiale è profonda e duratura. Inoltre è strutturale, poiché deriva dalla rottura dell’equilibrio tra produzione e consumo». Tale rottura avviene dopo la rapida crescita di un trentennio – i ben noti Les Trente Glorieuses, ou la révolution invisible de 1946 à 1975 di Fourastié.
Il testo, oltre a confutare i capisaldi «ideologici» di una visione egemone del capitalismo – opera di demistificazione già intrapresa da Perrotta nell’altro libro – ripercorre il periodo che inizia con la disoccupazione negli anni Settanta del XX secolo, non dovuta ad una bassa domanda di consumo dei lavoratori, come negli anni Trenta, ma alla saturazione del mercato per carenza di nuove opportunità. In quel momento storico si consuma la vera frattura, la mancata opportunità di orientarsi verso un’economia post-industriale, con trasformazioni strutturali di lungo periodo.
È proprio questa rottura il crocevia che, a tutt’oggi, ci influenza. Con gli anni Ottanta si affermò una nuova rivoluzione tecnologica che consentì un notevole incremento della produttività, ma questo si trasformò in profitti mentre i salari vennero erosi. Quella che, secondo gli autori, poteva essere una semplice crisi di transizione si trasformò in un disastro totale. Le grandi realtà economiche sfruttarono la disoccupazione per comprimere i salari ed inasprire la critica allo Stato e all’interesse pubblico. E quando la saturazione del mercato giunse al suo zenit, i sostenitori del Welfare state non trovarono argomenti per contrastare lo storytelling neoliberista che, de facto, orientò i governi verso la liberalizzazione dei movimenti di capitale: la globalizzazione.
Tuttavia, anche se la crisi del 2007/08 ha parzialmente modificato le politiche liberali – ancora una volta rivelatesi inefficaci nel contrasto alla recessione – esse si sono camuffate da austerità, avendo come scopo la riduzione della spesa pubblica, specialmente quella riferita all’istruzione e ai servizi sociali. Perciò il pubblico è stato ridotto al minimo, si è dato corso a privatizzazioni finanziate con denaro pubblico gravando sui bilanci e compromettendo i servizi che rappresentano una parte rilevante del salario-reale delle classi medio-basse. Tali politiche hanno peggiorato le condizioni dei lavoratori, intrappolati tra aumenti delle tasse e riduzione del reddito. Tutto ciò ha incrementato le disuguaglianze economiche e ha dato avvio ad una vera e propria lotta ideologica contro il sistema del welfare state.
La contrapposizione costruita tra Stato, descritto come assistenziale ed inefficiente, e l’iniziativa privata, raccontata come unica forza trainante della produzione di ricchezza, ha causato uno squilibrio deleterio tra i due elementi indispensabili per lo sviluppo economico: il privato, da un lato, e regolamentazione e sostegno del pubblico, dall’altro. Ancora oggi è radicata una fiducia nei mercati come gli unici capaci di coordinare gli attori economici e le informazioni per allocare le risorse. Il testo sottolinea che queste narrazioni infondate, dal postulato individualistico alla rational choice, crearono una egemonia culturale rilevante per la stessa democrazia. In fin dei conti non c’è nulla di originale nella Storia. La ripresa del potere dei pochi contro i molti richiama l’eco degli oligarchi ateniesi verso i sostenitori della democrazia. L’élite che prima trascurava l’interesse generale ha delegittimato i suoi rappresentanti, ovvero lo Stato e le istituzioni, d’altra parte l’aumento degli esclusi dal lavoro sicuro fa percepire la democrazia come un qualcosa per pochi, aumentando l’ostilità verso l’assetto democratico.
Il rischio è che l’aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze sociali produca una crisi sociale che spinge gli esclusi dal welfare – e i losers of globalisation – in rifugi identitari che rispolverano «vecchi fanatismi», con il loro carico di tragedie, come la superiorità religiosa, culturale o razziale.
Per scongiurare tutto questo gli autori sono lapidari nel sostenere che, nell’immediato, servono nuove politiche keynesiane che completino quelle già attuate. Infatti le recenti crisi economiche hanno evidenziato che la dicotomia tra Stato e Mercato è del tutto illogica.

N.B. La seconda parte verrà pubblicata il 24 p.v.

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