Per un nuovo keynesismo: commento a “Human Capital”, di Perrotta, Rizzello e Sunna – II parte

24 Mag


di Giorgio Barberis e Francesco Tomaso Scaiola – 24-5-2024

Il welfare state
Va richiamato il paradigma keynesiano cioè il welfare state: quell’insieme di politiche che ha invertito la tradizionale accumulazione, basata sulla compressione dei salari a favore dei profitti. Il welfare state si basava appunto sulla crescita del capitale umano e sul conseguente aumento della produttività.
Alcuni autori parlano di «rivoluzione welfaristica» per evidenziare come esso abbia, stravolto la logica capitalista, fino allora egemone, e aumentato la produttività del lavoro a tutti i livelli di specializzazione. La crescita in quel periodo storico si basava sull’aumento dell’occupazione e gli alti salari, dunque sul capitale umano. Ciò ha permesso una sostanziale diffusione di massa del benessere: dalla sanità gratuita all’istruzione, dalle case alle pensioni obbligatorie, ecc. A ribadire questo, Perrotta e Sunna sostengono che la tesi secondo cui una spesa sociale rilevante rappresenti un ostacolo alla crescita economica non trova supporto empirico nell’analisi. Anzi l’accumulazione capitalistica ha superato le sue crisi strutturali proprio in virtù delle politiche di welfare. Con efficace sintesi, il welfare state «è stato in realtà il più grande investimento mai realizzato dall’accumulazione capitalista».
Tuttavia la tesi smentita dagli autori è ancora un argomento usato per comprimere il ruolo del governo nell’economia. Del resto, anche durante il welfare state, come fiume carsico, non sono mancate le critiche: le spese sociali erano considerate «improduttive» dalle principali correnti economiche, in quanto sottraevano risorse agli investimenti a scopo di lucro. Se l’approccio classico – e neoclassico – escludeva il benessere dei lavoratori, in virtù del postulato del salario di sussistenza, anche buona parte dei marxisti considerava improduttiva la spesa sociale.
Con l’affermarsi negli ultimi quarant’anni delle politiche e delle narrazioni neoliberiste, la capacità dello Stato di agire come strumento di giustizia distributiva è stata progressivamente ostacolata. Questo ha influito negativamente sulla formazione del capitale umano, come sottolineato da Rizzello, perché ciò ha deteriorato la capacità delle consuetudini di costruire solidarietà sociale e altruismo.

Quali soluzioni?
Gli autori, nella loro serrata critica, disseminano diversi spunti di riflessione ed ipotesi di soluzione, avendo come sfondo la considerazione che «la grande disoccupazione che opprime la nostra società è in realtà la conseguenza di un grande progresso». Tuttavia, solo un ruolo guida affidato allo Stato può conciliare tendenze così conflittuali e consentire un nuovo sviluppo del welfare. Ciò significa ripristinare la prevalenza dell’interesse generale e la responsabilità dello Stato. Due perni che dovrebbero tornare a guidare l’economia, col difficile compito di mediare tra interessi contrapposti e risolvere i fallimenti del mercato.
Lo sforzo degli autori, ampiamente riuscito, è di dimostrare che sussistono i presupposti – sia teorici che pratici – per riproporre, con le dovute correzioni, lo sviluppo sperimentato durante il welfare state.
Un posto cruciale nell’agenda di governo dovrà avere l’espansione dell’occupazione, privilegiando lavori che sviluppino la creatività degli individui e rafforzando la domanda effettiva mediante l’aumento degli investimenti pubblici, che stimoleranno gli investimenti privati.
In estrema sintesi, la politica keynesiana, oggi, si può riassumere nella diade «più occupazione e più capitale umano». L’unica condizione è superare il postulato ideologico per cui la presenza dello Stato nell’economia è sempre un danno.

Chi raccoglierà la sfida politica?
In conclusione questo libro, proprio per la sua profondità e lungimiranza, ci pone un interrogativo prettamente politico: su quale offerta/domanda politica potranno aggregarsi le fratture sociali, o cleavages, che il libro indica?
Ciò è di cruciale importanza perché, in vista di una riedizione delle politiche keynesiane, va ricordato che le diverse declinazioni del pensiero politico che hanno implementato la prima edizione erano variamente connesse ad una visione socialdemocratica. Se consideriamo la terra del rapporto Beveridge, la Gran Bretagna, troviamo intrecciate le politiche keynesiane ed il laburismo inglese del secondo dopoguerra – poi radicalmente trasformato dal New Labour di Blair. Il raccordo tra paradigma keynesiano e un’idea di socialdemocrazia ha impresso per lungo tempo i suoi correttivi ad un sistema, quello capitalistico, che faceva della concorrenza e del profitto l’unico orizzonte possibile.
Concludendo, quella che alcuni autori, non a torto, definirono «rivoluzione welfaristica», non era disgiunta da una proposta politica capace di una visione generale e di lungo respiro. È proprio ciò di cui oggi si avverte un gran bisogno.

N.B. Le pubblicazioni di Sviluppo Felice riprenderanno il 10 giugno

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