di Cosimo Perrotta – 1 maggio 2023
Forse la presidente Meloni ha creduto di modernizzare la politica economica del vecchio Movimento Sociale abbracciando il neoliberismo, ma la zuppa è la stessa. È quella per cui nacque il fascismo un secolo fa: l’attacco ai lavoratori e ai loro diritti. L’unica differenza è che il neoliberismo, anziché esaltare lo stato e disprezzare la democrazia, oggi usa la forma democratica per attaccare lo stato e le sue regole. Non dimentichiamo che il periodo del welfare state (1950-80) trasformò lo stato da protettore dei privilegiati in protettore dei ceti più deboli. Da questa nuova politica nacquero la scolarizzazione obbligatoria, il sistema sanitario universale, l’obbligo della pensione, l’obbligo delle ferie, il riconoscimento dei sindacati, le normative sui diritti del lavoro. Quelle politiche crearono un potente avanzamento dei ceti bassi e medi, ma anche un grande aumento della produttività, dei salari e dei profitti, e un forte sviluppo economico.
Da decenni il neoliberismo attacca tutte quelle conquiste per ripristinare il dominio degli imprenditori (soprattutto dei meno produttivi). All’inizio, l’attacco al lavoro non fu diretto, ma fu indirizzato contro lo stato (Thatcher, Reagan, ecc.). Lo stato fu dichiarato oppressivo, perché dettava regole, e inefficiente perché non era retto dalla concorrenza. Venne per contro esaltato il mercato – quello senza regole e senza sindacati – che “non sbaglia mai” perché la concorrenza corregge sempre se stessa (naturalmente, non è vero).
In nome del mercato si tagliarono drasticamente le tasse ai ricchi, perché “così investono di più e creano più occupazione” – in realtà hanno solo intasato i paradisi fiscali, aumentando le rendite improduttive. Si abolirono le politiche per l’occupazione, creando così una massa di disoccupati, che permise di abbassare i salari ed eliminare gli scomodi controlli sui diritti dei lavoratori e sulla loro sicurezza. I sindacati furono emarginati, o si auto-emarginarono dedicandosi proteggere le categorie già protette.
La crescita enorme della disoccupazione (mascherata dai dati ufficiali, che presentano i lavoretti come occupazione stabile) costrinse i giovani mediamente istruiti ad emigrare o accettare lavori elementari e precari.
I risultati sono questi: una gran parte dei lavoratori si è talmente impoverita che non esprime più sul mercato una domanda di consumi sufficiente. Il calo della domanda di consumi ha indotto molte piccole imprese a non investire per mancanza di prospettive di vendita (infatti non è lo stato che ostacola gli investimenti è la scarsa domanda di consumi). La libertà di spostare le manifatture e molti servizi nei paesi con salari più bassi e con meno protezione dei lavoratori (anche per le imprese prima foraggiate dallo stato) ha ridotto ancor più le occasioni di lavoro.
Si è creato così un micidiale circolo vizioso che ha cronicizzato un’enorme disoccupazione (definita dal premio Nobel Stiglitz “il più grande fallimento del mercato”), che abbassa i salari e la sicurezza del lavoro (le crescenti morti sul lavoro derivano da qui), porta gli imprenditori ad accanirsi contro i lavoratori, i quali esprimono una domanda di consumo sempre più ridotta.
Si accorge di questo la Meloni? Sembra di no, visto che ripete di continuo che bisogna lasciare in pace gli imprenditori – cioè permettergli di pagare elemosine, evadere le tasse, e mettere a rischio i lavoratori – e insiste nel foraggiare con i soldi pubblici le imprese private, dalle cliniche ai servizi pubblici appaltati, alle scuole private, ecc.
La politica disastrosa del neoliberismo non attiverà mai lo sviluppo, come dicono di credere i nostri governanti, ma certamente raggiunge l’obbiettivo originario: quello di indebolire i lavoratori.
Se si ha a cuore il lavoro, che è quello che la ricchezza la produce davvero, bisogna fare una politica opposta. Innanzitutto dare regole al mercato, proprio per emarginare gli avventurieri e i parassiti e permettere alla concorrenza di far prevalere le imprese più innovative. Bisogna proteggere i salari col salario minimo, l’obbligo dei contratti collettivi, la sicurezza sul lavoro, i redditi di inclusione per i disoccupati. Solo così si ricostituisce la domanda di consumo e si dà alle imprese una prospettiva di vendita.
Infine bisogna fare una larga politica per l’occupazione che ricostituisca la ricchezza collettiva smantellata dal neoliberismo: scuole e ospedali migliori, infrastrutture estese o rinnovate, politica dell’acqua, ricerca per l’ambiente, ecc. L’occupazione creata dallo stato è anche l’elemento decisivo per far crescere i salari anche nel settore privato. Infatti essa mette in concorrenza gli investimenti pubblici con quelli privati.
Bisogna quindi capovolgere la politica attuale. Lo sviluppo di un’economia avanzata non si può basare sullo sfruttamento selvaggio del lavoro ma, al contrario, esige un lavoro sempre più qualificato, e quindi ben pagato e garantito.
(uscito anche sul Quotidiano 1-5–2023)