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L’eterno attacco della destra al lavoro

1 Mag


di Cosimo Perrotta – 1 maggio 2023

Forse la presidente Meloni ha creduto di modernizzare la politica economica del vecchio Movimento Sociale abbracciando il neoliberismo, ma la zuppa è la stessa. È quella per cui nacque il fascismo un secolo fa: l’attacco ai lavoratori e ai loro diritti. L’unica differenza è che il neoliberismo, anziché esaltare lo stato e disprezzare la democrazia, oggi usa la forma democratica per attaccare lo stato e le sue regole. Non dimentichiamo che il periodo del welfare state (1950-80) trasformò lo stato da protettore dei privilegiati in protettore dei ceti più deboli. Da questa nuova politica nacquero la scolarizzazione obbligatoria, il sistema sanitario universale, l’obbligo della pensione, l’obbligo delle ferie, il riconoscimento dei sindacati, le normative sui diritti del lavoro. Quelle politiche crearono un potente avanzamento dei ceti bassi e medi, ma anche un grande aumento della produttività, dei salari e dei profitti, e un forte sviluppo economico.
Da decenni il neoliberismo attacca tutte quelle conquiste per ripristinare il dominio degli imprenditori (soprattutto dei meno produttivi). All’inizio, l’attacco al lavoro non fu diretto, ma fu indirizzato contro lo stato (Thatcher, Reagan, ecc.). Lo stato fu dichiarato oppressivo, perché dettava regole, e inefficiente perché non era retto dalla concorrenza. Venne per contro esaltato il mercato – quello senza regole e senza sindacati – che “non sbaglia mai” perché la concorrenza corregge sempre se stessa (naturalmente, non è vero).
In nome del mercato si tagliarono drasticamente le tasse ai ricchi, perché “così investono di più e creano più occupazione” – in realtà hanno solo intasato i paradisi fiscali, aumentando le rendite improduttive. Si abolirono le politiche per l’occupazione, creando così una massa di disoccupati, che permise di abbassare i salari ed eliminare gli scomodi controlli sui diritti dei lavoratori e sulla loro sicurezza. I sindacati furono emarginati, o si auto-emarginarono dedicandosi proteggere le categorie già protette.
La crescita enorme della disoccupazione (mascherata dai dati ufficiali, che presentano i lavoretti come occupazione stabile) costrinse i giovani mediamente istruiti ad emigrare o accettare lavori elementari e precari.
I risultati sono questi: una gran parte dei lavoratori si è talmente impoverita che non esprime più sul mercato una domanda di consumi sufficiente. Il calo della domanda di consumi ha indotto molte piccole imprese a non investire per mancanza di prospettive di vendita (infatti non è lo stato che ostacola gli investimenti è la scarsa domanda di consumi). La libertà di spostare le manifatture e molti servizi nei paesi con salari più bassi e con meno protezione dei lavoratori (anche per le imprese prima foraggiate dallo stato) ha ridotto ancor più le occasioni di lavoro.
Si è creato così un micidiale circolo vizioso che ha cronicizzato un’enorme disoccupazione (definita dal premio Nobel Stiglitz “il più grande fallimento del mercato”), che abbassa i salari e la sicurezza del lavoro (le crescenti morti sul lavoro derivano da qui), porta gli imprenditori ad accanirsi contro i lavoratori, i quali esprimono una domanda di consumo sempre più ridotta.
Si accorge di questo la Meloni? Sembra di no, visto che ripete di continuo che bisogna lasciare in pace gli imprenditori – cioè permettergli di pagare elemosine, evadere le tasse, e mettere a rischio i lavoratori – e insiste nel foraggiare con i soldi pubblici le imprese private, dalle cliniche ai servizi pubblici appaltati, alle scuole private, ecc.
La politica disastrosa del neoliberismo non attiverà mai lo sviluppo, come dicono di credere i nostri governanti, ma certamente raggiunge l’obbiettivo originario: quello di indebolire i lavoratori.
Se si ha a cuore il lavoro, che è quello che la ricchezza la produce davvero, bisogna fare una politica opposta. Innanzitutto dare regole al mercato, proprio per emarginare gli avventurieri e i parassiti e permettere alla concorrenza di far prevalere le imprese più innovative. Bisogna proteggere i salari col salario minimo, l’obbligo dei contratti collettivi, la sicurezza sul lavoro, i redditi di inclusione per i disoccupati. Solo così si ricostituisce la domanda di consumo e si dà alle imprese una prospettiva di vendita.
Infine bisogna fare una larga politica per l’occupazione che ricostituisca la ricchezza collettiva smantellata dal neoliberismo: scuole e ospedali migliori, infrastrutture estese o rinnovate, politica dell’acqua, ricerca per l’ambiente, ecc. L’occupazione creata dallo stato è anche l’elemento decisivo per far crescere i salari anche nel settore privato. Infatti essa mette in concorrenza gli investimenti pubblici con quelli privati.
Bisogna quindi capovolgere la politica attuale. Lo sviluppo di un’economia avanzata non si può basare sullo sfruttamento selvaggio del lavoro ma, al contrario, esige un lavoro sempre più qualificato, e quindi ben pagato e garantito.

(uscito anche sul Quotidiano 1-5–2023)

Ordoliberalismo: la negazione surrettizia dei diritti del lavoro

21 Mar


di Cosimo Perrotta

L’ordoliberalismo fu una corrente teorica giuridico-economica della Germania dagli anni Trenta fino ai Settanta del Novecento. Adelino Zanini ne ha fatto un’analisi approfondita, raffinata e colta, con un imponente apparato filologico (1). I suoi fondatori, riuniti nella scuola di Friburgo, volevano costruire un ordinamento giuridico che desse un orientamento normativo all’economia di mercato, regolando in particolare la concorrenza.

I suoi seguaci da un lato rifiutavano la giovane scuola storica tedesca, guidata da Schmoller, che non era riuscita a trovare un criterio unificante per interpretare i processi economici, dall’altro si opponevano al liberalismo tradizionale, quella neoclassico, che favoriva una spontaneità senza regole. Nessuno di questi due approcci aveva saputo dare allo stato un ruolo regolativo del mercato, che impedisse il formarsi di monopoli e oligopoli. Questi impedivano il formarsi spontaneo dei prezzi sulla base dell’incontro libero tra domanda e offerta e quindi riducevano i livelli della concorrenza.

Il fondatore della corrente, Walter Eucken, chiariva che lo stato di diritto non si sarebbe realizzato senza la capacità di regolare l’economia, perché gli istituti economici fondanti quel tipo di stato (proprietà privata, libertà di contratto, libera concorrenza) non si potevano attuare pienamente. Eucken e gli altri erano molto attenti ad evitare che l’idea di uno stato forte e regolatore impedisse direttamente la libertà economica. Ma volevano anche evitare che lo stesso impedimento avvenisse indirettamente, cioè attraverso quella mancanza di regole che portava ai monopoli, negatori della libera concorrenza.

Gli ordoliberali ammisero in casi estremi il salario minimo, ma di fatto rifiutarono ogni politica che volesse correggere il mercato liberale tradizionale. Si opposero alla cogestione nelle aziende (pp. 280-98) che, pure, in Germania ha funzionato. Si opposero soprattutto al keynesismo. Secondo loro, perseguendo la piena occupazione, il keynesismo stravolgeva la spontaneità dei prezzi. Essi obiettavano che un sostegno indiscriminato alla piena occupazione non era in grado di distinguere fra i settori dove c’era un’offerta scarsa di beni rispetto ai bisogni e settori dove invece c’era un eccesso di offerta (pp. 94-100). Questa obiezione è corretta e acuta, ma nessuna soluzione alternativa venne offerta né da Eucken né da Böhm o Grossmann-Doerth (tanto meno da Röpke o Rüstow (vedi III.2 e 3), che vagheggiavano il ritorno ad un’economia basata sull’agricoltura e i produttori indipendenti).

Le elaborazioni di questi teorici erano protette da una spessa corazza di sottili giustificazioni filosofiche, storiche e morali, che qui non abbiamo spazio per illustrare. Ma alla prova dei fatti questo apparato così complesso si rivelò sterile. L’unica politica chiara che venne suggerita fu di ostacolare i sindacati dei lavoratori, in quanto monopoli che turbavano il mercato (pp. 72-85). Esattamente quello che dicevano anche i neoclassici degli anni Trenta. Quanto ai monopoli veri, quelli di impresa, i neoclassici non li vedevano e gli ordoliberali non sapevano in realtà come impedirli. Lo stesso Zanini mette in luce il carattere velleitario di voler controllare l’economia lasciando assolutamente libera la formazione dei prezzi sul mercato (pp. 480-82).

Diversa è la teoria della “economia sociale di mercato”, propugnata da Müller-Armack. Questo autore, pur richiamandosi all’ordoliberalismo, sosteneva la necessità di un intervento sociale dello stato con un apparato molto più ideologico e meno rigoroso di quello di Eucken e Böhm, infarcito di riferimenti etico-filosofici, che volevano fondare la teoria su valori ideali, doveri morali, vocazione cristiana dell’Europa e quant’altro.

Tuttavia Müller-Armack, insieme col cancelliere Erhard, elaborò la cultura necessaria alla costruzione di un poderoso welfare state, che fu alla base del “miracolo economico” tedesco. Questo era basato sulle garanzie di sostegno sociale delle famiglie, dei lavoratori e delle imprese e sulle tipiche politiche dei welfare state europei degli anni Sessanta-Settanta: case, infrastrutture, istruzione (in Germania, con il tipico abbinamento di apprendistato professionale e scuola), sistema sanitario e sistema pensionistico (2).

In definitiva, l’ordoliberalismo si oppose al keynesismo, l’unica corrente di teoria economica che contribuì in modo decisivo al formarsi del welfare state. Invece
la “economia sociale di mercato” sostenne il welfare state, pur derivando dalle stesse lontane radici dell’ordoliberalismo: il cameralismo, cioè la tradizione tedesca che vede l’economia soprattutto come parte della scienza dello stato e dell’amministrazione.

A. Zanini, Ordoliberalismo. Costituzione e critica dei concetti (1933-1973), il Mulino: Bologna, 2022.
(2) Oltre a Zanini, pp. 438-51, v. anche Hans-Michael Trautwein, “European models and transformations of the welfare state”, in I. Amelung & B. Schefold, eds., European and Chinese Histories of Economic Thought, London-New York: Routledge.

Dalla gestione pubblico-privato a quella pubblico-comunità

10 Gen


di Satoko Kishimoto e Louisa Valentin

Nel luglio 2021 la Commissione Europea ha presentato il Piano Verde (Green Deal), che dovrebbe trasformare la UE in una economia competitiva che gestisce in modo efficiente le risorse. Entro il 2050 le emissioni di gas-serra dovrebbero essere azzerate e “nessuno verrà lasciato indietro”.

Il Piano Verde si affida molto al finanziamento privato per creare grandi investimenti per il clima. Esso quindi si basa su un modello fallito: il partenariato pubblico-privato, che socializza i rischi e privatizza i guadagni. Allo stesso tempo, il piano trascura il ruolo che stanno avendo le comunità nel gestire la transizione ecologica, dalla riduzione delle emissioni al riadattamento delle abitazioni.

Dopo 40 anni, l’esperimento neo-liberista e le politiche di austerità si dimostrano più costosi e anche meno trasparenti. Essi hanno atrofizzato la capacità del settore pubblico di coordinare le politiche pubbliche, dal clima all’esclusione sociale.

I dati del Transnational Institute mostrano che la de-privatizzazione dei servizi pubblici è lo scopo per cui gli enti locali stanno abbandonando le collaborazioni pubblico-privato e stanno riportando i servizi all’interno (in-house). Attualmente le de-privatizzazioni sono 1.556.

Collaborazione pubblico-comunità
Dobbiamo ripensare radicalmente il nostro approccio e avviare un nuovo paradigma per salvare il clima e la sicurezza sociale. I punti di partenza sono l’impegno pubblico e il finanziamento. I Comuni devono accordarsi con i residenti e le organizzazioni locali, invece di cercare consulenti globali e investitori privati.

La collaborazione pubblico-comunità è un approccio innovativo che produce idee nuove per fornire beni e servizi pubblici. Essa permette di esplorare nuove forme di prestazioni pubbliche attraverso il rafforzamento delle comunità nell’affrontare le sfide odierne. Un recente rapporto del Transnational Institute esamina 43 collaborazioni pubblico-comunità per capire come funzionano la proprietà, la gestione e il finanziamento, analizzando più da vicino 10 casi.

Si sono trovati un gran numero e una grande diversità di collaborazioni sperimentali per ridurre la povertà e lavorare contro la crisi climatica. I Comuni sono più attrezzati dei monopoli privati per individuare i problemi locali, e possono trovare soluzioni lavorando sul terreno insieme con le comunità.

Comproprietà a Wolfhagen (Germania)
La collaborazione tra cooperative di cittadini e Comune per produrre energia rinnovabile, dopo la de-privatizzazione, è un eccellente esempio di comproprietà, co-finanziamento e decisioni prese insieme. Nel 2005 la cooperativa BEG Wolfhagen acquistò il 25% della compagnia municipale di energia. I cittadini, grazie alla comproprietà, poterono partecipare alle decisioni sulla produzione e fornitura di energia. Essi collaborano attivamente anche alla transizione verso il 100% di energia rinnovabile, un impegno preso nel 2008. La comproprietà delle energie rinnovabili è parte essenziale di una transizione basata sui cittadini.

Coinvolgimento dei cittadini a Cadice
Coinvolgere i cittadini per produrre insieme politiche per una corretta transizione può aiutare i Comuni a capire quali sono i loro bisogni e dar voce alle comunità. A Cadice (Spagna) il Comune ha risposto positivamente all’enorme richiesta di una transizione al 100% di energia rinnovabile.

La città ha costituito un gruppo di lavoro sulla transizione energetica e uno sulla povertà energetica. Il primo ha il compito di aiutare l’azienda a maggioranza comunale Eléctrica de Cádiz a trasformarsi in un fornitore al 100% di rinnovabili con la collaborazione di cooperative e organizzazioni ambientaliste e dell’Università.

L’altro gruppo di lavoro ha il compito di progettare un sussidio del Comune alle famiglie in difficoltà finanziarie. Il programma creato offre sostegno finanziario e alfabetizzazione energetica.

I due gruppi di lavoro hanno avviato un processo di coproduzione partecipata e hanno fatto convergere sulla sfida climatica diversi gruppi locali: la comunità, l’accademia, e altri con competenza tecnica.

Soluzioni innovative
Le collaborazioni pubblico-comunità hanno il potere di lanciare soluzioni innovative per le odierne sfide sociali ed ecologiche. Esse sono la prova che il denaro pubblico investito nelle comunità crea il cambiamento di cui abbiamo bisogno.

Il Piano Verde europeo rappresenta un’opportunità storica. Non c’è più tempo per ripetere gli errori del passato affidandoci troppo ai finanziamenti privati o a predizioni troppo ottimistiche su tecnologie non sperimentate, come la cattura della CO2.

Invece il denaro pubblico si può investire direttamente nelle comunità locali, facilitando subito la riduzione reale delle emissioni e una giusta transizione. Quindi, affrontare la crisi climatica può diventare un programma per ricostruire il benessere della comunità mettendo al centro i valori di solidarietà, giustizia e democrazia.

(testo originario: “European Green Deal: can it tackle the climate crisis?”, Social Europe, 4th January 2022)

Le due fonti della ricchezza

25 Mag

(Per un nuovo tipo di sviluppo – 2)

di Cosimo Perrotta

Qualche giorno fa si è spento l’editore Piero Manni, uomo di grandi risorse umane e di grande cuore. Lo ricordo ai lettori con tanta stima e affetto.

Le fonti principali della ricchezza sono due, non una sola. Una è l’investimento privato per profitto, l’altra si basa sul capitale sociale e il capitale umano. Il capitale sociale è dato dalle relazioni tra persone e gruppi; riguarda il senso civico, lo spirito di appartenenza, il costume, la solidarietà. Il capitale umano invece consiste nella qualità ed efficienza dei produttori, e dipende dalla loro istruzione e qualificazione. I due campi sono collegati dal tessuto di abitudini, norme, cultura amministrativa e organizzativa propri di ciascun tipo di lavoro o di associazione.

Tanto migliori sono quei due fattori, che sono governati dallo stato, tanto maggiori sono la domanda di beni e la produttività sociale. Lo stato, quindi, lungi dall’essere un peso economico, è indispensabile per creare profitto (1). Ad esempio, l’istruzione e la salute pubbliche sono essenziali per questo.

Nella storia lo stato ha anche costruito infrastrutture, ha protetto i beni comuni, ha creato tutti i servizi fondamentali. In Europa, nel sec. XVI, gli stati avviarono la pubblica amministrazione, l’apparato giudiziario, i trasporti, la protezione dei commerci, la gestione delle carestie. Nel sec. XVII estesero l’occupazione (con le workhouses), organizzarono il soccorso ai poveri e la lotta alle epidemie. Nel Sette-Ottocento avviarono l’istruzione pubblica, l’edilizia popolare, la sanità pubblica, l’urbanistica. Infine nel Novecento, il welfare state realizzò l’istruzione media obbligatoria, il servizio sanitario universale e gratuito, le pensioni obbligatorie, la protezione delle fasce deboli, ecc.

Non c’è fase di grande sviluppo economico nelle nazioni che non sia stata sostenuta dallo stato. Gli interventi detti sopra sono stati enormi investimenti che, da una parte, hanno creato direttamente ricchezza sociale e dall’altra hanno permesso o accresciuto la produzione di ricchezza in forma di profitto. La produzione della ricchezza sociale quindi deriva da un flusso di molteplici attività – pubbliche, private, semi-pubbliche, volontarie – nessuna delle quali potrebbe esistere senza le altre. Come diceva Alvin Hansen, nessun settore è autosufficiente, neanche quello privato. Chi lo pensa ragiona come i fisiocratici, che credevano che l’agricoltura mantenesse la manifattura (che sarebbe improduttiva). In realtà, ogni settore dipende dalle spese degli altri settori (2).

Ma non tutte le attività sono produttive, cioè utili alla società, nemmeno tutte quelle che danno profitto. In ogni settore si possono annidare attività inutili che, invece di produrre ricchezza, la consumano; nel lavoro pubblico ma anche nell’azienda che dà profitto all’imprenditore ma danneggia l’ambiente oppure viene assistita dallo stato.

Detto questo, la collaborazione fra stato e profitto può seguire due direzioni opposte. Può estendere l’occupazione e proteggere il livello dei salari. In tal modo, lo stato accresce la produttività, il capitale umano e i ceti medi. Crescono quindi sia la ricchezza sociale che il profitto.

Oppure lo stato può essere al servizio del profitto privato, e allora estende la povertà. Ad esempio, l’economia delle grandi piantagioni sin dall’età moderna ha creato una ristretta élite di benestanti che controlla lo stato ed è circondata da un mare di miseria. In America Latina questa situazione è tuttora diffusa. In questi casi i profitti sono altissimi ma non ci sono occasioni di investimento a causa della povertà della società. Perciò i capitali vanno all’estero per essere investiti o, più spesso, diventano rendite parassitarie.

Oggi in Occidente il neoliberismo ha avviato un processo simile. Ha imposto agli stati tasse regressive, tolleranza per l’evasione e i paradisi fiscali, protezione dei privilegi corporativi. Ne è nata una plutocrazia mondiale rapace che ha creato milioni di lavoratori precari (i rider, i call-center, le false partite Iva, il lavoro a cottimo, i voucher) e milioni di schiavi o semi-schiavi (i raccoglitori di frutta in Occidente, gli immigrati nel Golfo arabo, i bambini schiavi che lavorano per le multinazionali in Asia e Africa).

Questa via, non solo danneggia i ceti non protetti, ma nel lungo periodo danneggia il profitto stesso, perché essicca le fonti dell’aumento di produttività e dell’aumento di consumo, cioè lo stato e i salari alti (3). Allora il profitto, non trovando impiego produttivo, si trasforma in rendita. Oggi la pandemia ha aggravato molto questa situazione, e ci costringe a scegliere: o proseguiamo verso il degrado, come in America Latina, o accettiamo il primato dell’interesse pubblico e avviamo un nuovo sviluppo, come nel welfare state.

(1) V. Mariana Mazzucato, The Value of Everything, Penguin- Allen Lane, 2018, cap. 3 e 8.

(2) Alvin Hansen, Fiscal Policy and Business Cycle, Allen & Unwin, 1941, pp. 144-52.

(3) C. Perrotta, Is Capitalism still Progressive?, Palgrave, 2020, cap. III.2.

Liberarsi del neoliberismo

11 Mag

(Per un nuovo tipo di sviluppo – 1)
di Cosimo Perrotta

La pandemia sta mettendo a nudo le gravi distorsioni delle politiche neoliberiste. Quando nacque, agli inizi degli anni Ottanta, il neoliberismo aveva tre obbiettivi: smantellare lo “stato sociale”, cioè il sistema di garanzie per i ceti più bassi e i lavoratori; introdurre la deregulation, cioè liberare i ceti più alti e le imprese dalle norme che impediscono i comportamenti antisociali; proteggere (proprio attraverso lo stato!) i privilegi dei più ricchi.

L’argomento principe dei neoliberisti era che lo stato è per sua natura inefficiente, perché non agisce in regime di concorrenza (dove dovrebbe prevalere il più meritevole). Per loro, la spesa pubblica è improduttiva e va contenuta il più possibile. Perciò, disse Reagan, “lo stato non è la soluzione, è il problema”.

Quest’idea si diffuse facilmente, anche nella sinistra, come reazione alle deviazioni dello stato sociale (eccesso di assistenzialismo, uso politico della spesa pubblica, controlli di produttività assenti). Ma il rimedio è stato peggiore del male. Il neoliberismo ha imposto allo stato di privatizzare i suoi servizi e, quando non poteva farlo, di imitare il mercato. In Italia ospedali e scuole sono diventati aziende (che cosa c’entri il profitto con l’istruzione e la sanità pubbliche è un mistero).

In tutti i paesi la privatizzazione dei grandi servizi pubblici ha accresciuto – anziché diminuire – la spesa statale ed ha peggiorato i servizi. Le imprese private che li hanno rilevati, foraggiate dallo stato, sono diventate un modello di parassitismo, contrabbandato per mercato concorrenziale. Per di più, con un abile gioco di prestigio, si è presentato il conseguente eccesso di spesa pubblica come conferma che lo stato spende troppo, e ciò ha giustificato tagli ancora più drastici nell’apparato pubblico e ulteriori privatizzazioni. In questa follia c’è una logica: accrescere il potere dei politici che decidono quali imprese private favorire. Tutto ciò ha esteso la corruzione ed ha aumentato l’opacità delle decisioni istituzionali, a danno della democrazia.

Il risultato è che l’economia occidentale ristagna e le varie corporazioni impediscono di toccare i privilegi costituiti (alla faccia della concorrenza). La disoccupazione dilaga, sia perché la manifattura occidentale si sposta verso i paesi emergenti (dove trova salari più bassi e normative più lasche) sia perché l’economia digitale distrugge molti più posti di lavoro di quanti non ne crei. Grazie alla disoccupazione, lo sfruttamento del lavoro, soprattutto giovanile, si è aggravato e ha fatto crescere le disuguaglianze in modo mostruoso.

L’1% più ricco del mondo possiede più del doppio della ricchezza netta di 6,9 miliardi di persone. In Italia il patrimonio dell’1% più ricco è uguale a quello complessivo del 70% più povero (1). Lo stesso processo cumulativo che allarga le disuguaglianze fra i gruppi sociali avviene fra gli stati. Le economie più forti si arricchiscono grazie allo spread (il divario di valore dei titoli di stato) a spese delle economie più deboli.

Oltre a smantellare il servizio pubblico, si è smantellata la normativa che frenava i comportamenti anti-sociali delle imprese e dei più ricchi. Sono cresciuti enormemente l’evasione e la fuga dei capitali verso i paradisi fiscali, l’uso dei combustibili fossili, lo scempio del territorio, l’avvelenamento dell’ambiente, i consumi che favoriscono il riscaldamento globale. Tutti gli esperti confermano che le sempre più frequenti epidemie derivano dalla distruzione dell’ambiente attraverso i grandi allevamenti (2), la deforestazione, la riduzione dell’habitat non antropizzato.

Infine è stata imposta una tassazione di tipo regressivo: più si è ricchi più bassa è la percentuale di tasse da pagare. Warren Buffet e Bill Gates hanno lamentato il fatto che le loro segretarie pagano in percentuale più tasse di loro. L’argomento ipocrita a sostegno delle tasse regressive è che il reddito dei più ricchi si traduce in maggiori investimenti e occupazione per tutti: fattore trickle down (3). Niente di più falso. I ricchi impiegano quasi tutti i loro capitali nella speculazione finanziaria o immobiliare (4).

Il neoliberismo dunque ci lascia un’economia e una coesione sociale in rovina e la democrazia in pericolo. Molti oggi affermano che dopo la crisi saremo più solidali e più aperti all’intervento dello stato. Non ne sarei così sicuro. Gli interventi statali nella crisi finanziaria del 2008 non ci insegnarono niente, anzi si accentuarono l’egoismo sociale e il degenerare della concorrenza economica in bullismo.

Ma non si può abbattere il vecchio se non si costruisce il nuovo (Gramsci). L’epidemia ci aiuterà a cambiare tipo di sviluppo solo a condizione che si faccia una vera battaglia culturale (per capire che cosa vogliamo) e sociale (per costringere i governi ad attuarlo).
(1) Rapporto Oxfam 2020, online.

(2) Rob Wallace, Big Farms Make Big Flu, New York: Monthly Review Press.

(3) Gianni Vaggi, Development, London-New York: Palgrave-MacMillan, 2018, passim.

(4) Gabriel Zucman, The Hidden Wealth of Nations, Chicago Univ. Press, 2013, cap. 3 e 5.

La storia fa bene all’ambiente

4 Mag

di Luigi Guerrieri

Il 22 aprile è stata celebrata la Giornata della Terra, istituita dall’ONU e iniziata il 22 aprile 1970.
Intorno alla metà degli anni ’60 era già drammaticamente visibile l’impatto umano sugli ecosistemi terrestri. Vi avevano contribuito diversi fattori, antichi e recenti. Fra i primi, il più importante, la rivoluzione industriale in atto nel vecchio continente già da due secoli; fra i secondi, le guerre del ’900 (particolarmente distruttive dell’ambiente), l’estensione del modello industriale europeo a tutto il mondo, gli esperimenti nucleari, la ricostruzione economica dei Paesi devastati dalla guerra. I “Trenta Gloriosi” (1945-1975) e la “Grande Accelerazione” hanno avuto costi ambientali altissimi.
L’ambiente e la pace, quindi, erano in cima all’agenda dei movimenti giovanili e studenteschi di quegli anni. Anche allora i giovani avevano visto prima ma, nella società della ragione, neanche allora vennero ascoltati.
Adesso, nessuno può dire: “io non sapevo”. Tutti sapevano. E tutti sanno. Prevale l’indifferenza. Mentre scrivo queste righe e celebriamo la festa della Liberazione, mi vengono in mente le parole di quel giovane partigiano nella sua ultima lettera ai familiari: “Ricordate che tutto è successo perché non volevate saperne”.
Chi dimentica la storia è destinato a riviverne i momenti peggiori. Un giorno, spero non lontano, grazie ai giovani celebreremo la liberazione dai falsi miti che imprigionano le nostre esistenze. Primo fra tutti, quello della crescita infinita su un pianeta finito.
L’ONU nel 1972 convocò a Stoccolma la prima Conferenza sul clima. Quello stesso anno, il Club di Roma, in collaborazione col MIT di Boston, pubblicava I limiti dello sviluppo. Da allora gli istituti di ricerca sul clima proliferarono. Fra i tanti, il World Watch Institute fondato da Lester R. Brown nel 1974 e il Wuppertal Institute fondato nel 1991. Di grande prestigio anche gli scienziati isolati (in tutti i sensi): Nicolas Georgescu- Roegen, Barry Commoner, James O’Connor, Paul Crutzen, Ilya Prigogine e tanti altri. Grazie all’ONU uscirono il Rapporto Bruntland (1987), il Protocollo di Montreal (1987), L’Agenda 21 (Rio 1992), il Protocollo di Kyoto (1997) e così via.
Tutti questi studi concordavano su un punto: la pressione antropica aveva assunto dimensioni abnormi, molto prossima alla soglia di guardia, superata la quale si sarebbero aperti scenari raccapriccianti. L’azione del sole da benefica si sarebbe trasformata in venefica, la qualità dell’aria, dell’acqua e della terra si sarebbe deteriorata, innescando processi incontrollabili che avrebbero reso problematica la vita sulla Terra. Continuando a considerare il pianeta una dispensa inesauribile e una discarica senza fondo, l’umanità avrebbe presto fatto i conti con scarsità di risorse, cambiamenti climatici, pandemie.
Mentre i governi ignoravano il problema, le reazioni del mondo accademico furono feroci: cassandre, catastrofisti, reazionari, intellettuali snob, uccelli del malaugurio, nemici del progresso, primitivisti e via di seguito.
Eppure, è successo tutto esattamente così. Ma nonostante questo, c’è ancora chi nega l’evidenza. In testa alla lista, ancora i governi dei Paesi inquinatori storici (quelli del benessere), che più si ostinano a fare la guerra al pianeta più consenso ricevono dai loro concittadini. Il populismo non si spiega soltanto con la disperazione dei ceti schiacciati dalla crisi del capitalismo storico, ormai afflitto dalla “stagnazione secolare”. Si spiega anche con la difesa dei privilegi della “società signorile di massa”. Questo è un problema spesso ignorato che mette in discussione le stesse basi materiali della nostra democrazia.
Il capitalismo, una volta globalizzato, si è rivelato insostenibile per gli elementi vitali e incompatibile con il diritto alla vita di tutti i popoli del mondo. Per quanto armati di ottimismo della volontà, il pessimismo dell’intelligenza ci suggerisce che sciogliere questi nodi sarà tremendamente difficile. Ma la nostra condizione non ci lascia alternative. Spero che la scienza ci dia una mano.
Nell’attesa, mi chiedo: ma doveva proprio succedere il finimondo per accorgerci che il nostro destino è comune e per convincerci che al punto in cui siamo giunti non è più possibile distinguere fra la nostra salute individuale e la salute del pianeta, fra la nostra pace interiore e la pace nel mondo? Ma questo non era già chiaro mezzo secolo fa? La storia mi dice che i giovani di cinquant’anni fa lo hanno urlato in tutte le piazze del mondo, ricevendo in premio manganellate, piombo e lacrimogeni. Bastava ricordarsene. Non lo abbiamo fatto e ci siamo ammalati, se non di COVID 19, almeno di paura.
Azzardo una previsione: diventeremo tutti ambientalisti. Speriamo che quando accadrà non sia troppo tardi. E che chi sta oggi a guardare non dia ai giovani di domani lezioni di ambientalismo. La storia della Resistenza e del ’68 mi dice che questa non sarebbe una novità.

La sanità pubblica, quando ce n’è bisogno

25 Mar

di Lavinia Bifulco, Stefano Neri, Angelo Salento* 25-3-2020
il documento (da il manifesto 17 marzo 2020)
La mortificazione di tutta l’economia della vita quotidiana sta esponendo il corpo sociale a rischi straordinari
Al pari di tutto ciò che conta, la sanità (pubblica) si vede quando non ce n’è abbastanza: nell’emergenza, diventano chiare le sue virtù ed emergono i suoi limiti, esiti di orientamenti di lungo corso.
Innanzitutto, la tendenza a sacrificare la medicina di base e le attività di prevenzione e igiene pubblica a vantaggio dell’enfasi consumeristica sulle prestazioni di diagnosi e cura individuali. La spesa per l’assistenza collettiva in ambiente di vita e di lavoro è pari appena al 4% del totale della spesa per i livelli essenziali di assistenza (Lea). In secondo luogo, la tendenza al disinvestimento, su cui ha pesato l’ingiunzione dell’austerity. In linea con gli altri paesi mediterranei, l’Italia ha circa 3 posti letto ogni mille abitanti – erano quasi il doppio nel 1997 – a fronte degli 8 della Germania. In terzo luogo, la penalizzazione del lavoro sanitario. Fra il 2008 e il 2017 il personale sanitario è stato ridotto di 42mila unità (6,2%), l’età media è passata da 43 anni nel 2001 a 51 nel 2017 (e oltre il 50% dei medici ha più di 55 anni). Nel periodo 2018-2025, è previsto un ammanco di circa 16.700 medici, con le punte più alte in medicina di emergenza, pediatria, anestesia, rianimazione e terapia intensiva (stime Anaao-Assomed). In quarto luogo, la tendenza alla privatizzazione e alla finanziarizzazione, non soltanto con l’outsourcing di prestazioni in convenzione, ma anche con la promozione fiscale dei fondi sanitari integrativi, strumenti di intermediazione assicurativa che – valuta la Fondazione Gimbe – hanno inflazionato le prestazioni superflue. Infine, ma non da ultimo, la regionalizzazione, che ha frammentato il sistema sanitario in segmenti difficili da coordinare e strutturalmente inadatti a ridurre le disuguaglianze territoriali. I 3 posti letto medi per mille abitanti su scala nazionale, ad esempio, sono 3,3 nel Friuli ma 2,5 in Calabria. Senza dire dell’inefficacia del governo regionale della prevenzione.
La sanità, tuttavia, non è l’unico settore esposto oggi a un «effetto-verità». Nell’emergenza, salta agli occhi la straordinaria importanza di tutte le attività che «non si possono fermare», ovvero dell’intera economia fondamentale: la produzione e distribuzione alimentare, i servizi di cura, l’istruzione, i trasporti pubblici e le infrastrutture stradali, l’amministrazione pubblica, le telecomunicazioni, la distribuzione dell’acqua, dell’energia e del gas, il trattamento dei rifiuti. È uno spazio economico indispensabile, perequativo e anticiclico, che permette la riproduzione della società e occupa circa il 40% della forza-lavoro su scala continentale, con un repertorio di competenze impressionante per varietà e qualità.
Costruito fra l’epoca del «socialismo municipale» ottocentesco e i «trent’anni gloriosi», quest’insieme di attività negli ultimi trent’anni è stato attraversato da processi che ne hanno indebolito la capacità. Non si tratta soltanto dei tagli lineari pretesi dal regime di austerity nell’Europa mediterranea. Nell’intera Europa le attività fondamentali, intrinsecamente inadatte alla produzione di alti profitti e rendimenti, sono state reinterpretate come aree di business altamente remunerative. Paradossalmente trascurate da un pensiero economico tutto concentrato su tradables, innovazione tecnologica e competitività, sono diventate attraenti per gli investitori privati e per un ceto manageriale di orientamento finanziario. Privatizzazioni, outsourcing e tagli lineari hanno portato disorganizzazione e fragilità all’economia della vita quotidiana, inasprendo le disuguaglianze, esponendo il corpo sociale a rischi ordinari e straordinari. L’emergenza sanitaria presenterà un conto pesantissimo, e questa volta il collasso è interno all’economia reale.
La sfida che si prospetta è di ordine politico, perché le scelte che si faranno incideranno in maniera diretta sulla stratificazione sociale e sulla qualità della vita dei più. L’Europa ha un’occasione per rimettere in piedi la vita economica e le sue istituzioni restituendo centralità e forza all’economia fondamentale.
Non c’è una ricetta da seguire, ma si può convenire su alcuni principi di riferimento: (a) in quanto infrastruttura della vita collettiva, l’economia fondamentale non può essere assimilata all’economia dei tradables [beni e servizi scambiambili, ndr] e deve essere sottratta agli imperativi di redditività; (b) deve essere riportata nella sfera del diritto pubblico, quand’anche non interamente nella proprietà pubblica; (c) dev’essere finanziata attraverso un sistema fiscale radicalmente progressivo, che disincentivi l’estrazione di rendita e che non può essere surrogato dal filantropismo privato e dalla «finanza sociale»; (d) occorre promuovere l’auto-organizzazione economica, il mutualismo e l’azione sociale diretta delle comunità locali, che sono importanti serbatoi di innovazione, e tuttavia (e) bisogna prendere atto che il futuro dell’economia fondamentale – a cominciare dai dispositivi di salute pubblica – non si gioca interamente su scala locale, ma domanda forme di coordinamento e di finanziamento nazionale e internazionale.
È quanto basta per costruire un nuovo quadro di alleanze politiche fra le forze progressiste europee, investendo sulla possibilità che la crisi sanitaria lasci spazio non già a una domanda di autoritarismo, ma a un nuovo «spirito del ’45»: alla convinzione che sia indispensabile una piattaforma collettiva a garanzia del benessere di ciascuno.
* Gli autori aderiscono al Collettivo per l’economia fondamentale che ha pubblicato per Einaudi «Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana».

Epidemia e welfare state

24 Mar

di Mario Pianta, prof. ordinario di Politica economica – il documento 24-3-2020
M. Pianta ha pubblicato “Le conseguenze economiche del coronavirus” (Sbilanciamoci del 13 marzo 2020, tutto dedicato all’analisi sociale dell’epidemia) con questa premessa: “… Riscopriamo che la salute è un bene pubblico globale, che la sanità pubblica e il welfare state sono attività fondamentali, alternative al mercato, che ci aspetta una seria crisi dell’economia, della finanza e dell’Europa”. Pubblichiamo qui il paragrafo 2 dell’articolo.
Il welfare state, la responsabilità pubblica per i bisogni essenziali, è un modello alternativo al mercato: è un modello che funziona
Nella risposta all’epidemia di coronavirus nei paesi più coinvolti un ruolo chiave è stato svolto dal sistema della sanità pubblica. Un sistema che si fonda su una visione della salute come diritto fondamentale che dev’essere assicurato dallo stato attraverso la fornitura di servizi pubblici universali pensati per soddisfare i bisogni, fuori dalle logiche di mercato che vedono imprese private vendere merci per un profitto. Questo modello non riguarda solo la sanità ma tutto il welfare state costruito a partire dalle riforme radicali dei laburisti inglesi nell’immediato dopoguerra. Estesosi, con varianti significative, soprattutto in Europa, il welfare state resta strettamente associato al ‘modello sociale’ europeo: sanità, scuola, università, previdenza, assistenza e altre attività essenziali sono servizi forniti e finanziati in misura prevalente dall’intervento pubblico.
I tre decenni di politiche neoliberiste hanno seriamente ridimensionato il modello di welfare state: le privatizzazioni e i tagli di spesa hanno costretto le agenzie pubbliche a ridimensionare le proprie attività, perdendo a volte universalità, efficacia e qualità dei servizi. Le attività di imprese private si sono moltiplicate, a partire dagli ambiti più profittevoli, come le pensioni, la sanità e le università private. Varie ondate di ‘contro-riforme’ hanno spinto le agenzie pubbliche a comportarsi sempre più come imprese private – nella previdenza fondata sul sistema contributivo, nelle ‘Aziende sanitarie locali’, nella gestione di scuola e università. Finanziamenti ridotti, blocco del turnover del personale, pressioni per ‘far pagare’ gli utenti hanno reso molti servizi di welfare più simili alla produzione di merci vendute sul mercato a ‘clienti’ in grado di pagare. È stata l’‘universalizzazione’ del mercato capitalistico, presentato come unico modello capace di offrire merci e servizi, assicurando abbondanza ed efficienza.
L’epidemia ha mostrato che quel modello di mercato globale non solo crea minacce alla salute, ma è del tutto impotente nel dare risposte all’emergenza e alla tutela della salute. La sanità privata è del tutto irrilevante di fronte all’epidemia. È fondamentale ora riconoscere che il mercato deve fare molti passi indietro – nell’azione delle imprese come nelle politiche realizzate dai governi – e il welfare state deve tornare in primo piano, con la sua natura di modello di organizzazione della società e della produzione di servizi alternativo alla logica del mercato capitalistico.
Il welfare non è un ‘costo’ per il sistema economico privato, è un sistema parallelo che produce beni e servizi pubblici e assicura la riproduzione sociale in base a diritti e a bisogni, anziché alla capacità di spesa. È quello che produce la qualità sociale e ambientale che il Prodotto interno lordo (Pil) – fondato sul valore delle merci – non è in grado di misurare (Armiento, 2018). Esattamente le stesse considerazioni valgono per la qualità ambientale e per la necessità di un intervento pubblico in quell’ambito.
La conseguenza naturale di quest’analisi è che va rifinanziata in modo massiccio – attraverso una tassazione più progressiva di redditi e patrimoni e, se necessario, attraverso una spesa in deficit – tutta l’azione pubblica – sanità, scuola, università, ricerca, previdenza, assistenza, ambiente. Un obiettivo ragionevole per l’Italia è di arrivare agli standard nord-europei in termini di spesa per abitante e di qualità dei servizi. Il welfare state potrebbe diventare il motore di uno sviluppo ad alta qualità sociale e ambientalmente sostenibile.
L’intervento pubblico, tuttavia, non si deve limitare alla fornitura dei servizi di welfare. Deve indirizzare le traiettorie di sviluppo dell’economia e dei mercati, assicurando la coerenza tra comportamenti delle imprese e gli obiettivi sanitari, sociali e ambientali sopra ricordati. I dibattiti sul ritorno della politica industriale e sul ‘Green Deal’ europeo hanno aperto un nuovo spazio di azione delle politiche nazionali ed europee. C’è un consenso crescente sull’espansione del ruolo dello stato e dell’azione pubblica nell’economia e nella società. Un esempio importante è fornito dalle proposte di Mariana Mazzucato sullo ‘Stato innovatore’ (Mazzucato, 2014) e sulla (quasi) nazionalizzazione dell’industria farmaceutica (Mazzucato, 2020).
Sarebbe illusorio pensare che, passata l’epidemia, l’economia possa tornare come prima. Tra gli effetti dell’emergenza c’è l’esigenza di ripensare produzioni e consumi alla luce delle esigenze della salute e della sostenibilità ambientale. Un’altra crisi sanitaria che riceve pochissima attenzione in Italia è quella delle morti e degli infortuni sul lavoro; occorre spostarsi verso un sistema produttivo di maggior qualità, capace di provocare meno danni alla salute di lavoratori e cittadini.
In effetti, il sistema della salute e del welfare può diventare uno dei motori dello sviluppo dell’economia. Nell’attuale dibattito sul ritorno delle politiche industriali abbiamo proposto di individuare tre aree prioritarie in cui concentrare ricerca e investimenti pubblici e privati per sviluppare “buone” produzioni: ambiente e sostenibilità, conoscenza e tecnologie dell’informazione e comunicazione, e salute, welfare e attività assistenziali:
“L’Europa è un continente che invecchia ma è dotato dei migliori sistemi sanitari al mondo, sviluppati sulla base di una concezione della sanità come servizio pubblico. Gli avanzamenti nel sistema di assistenza, nella strumentazione medica, nelle biotecnologie, nella genetica e nella ricerca farmacologica devono essere finanziati e regolamentati con attenzione alle possibili conseguenze etiche e sociali (come nel caso degli organismi geneticamente modificati, della clonazione, dell’accesso ai farmaci nei paesi in via di sviluppo, etc.). Le politiche possono essere indirizzate a affrontare i problemi dell’invecchiamento della popolazione, al miglioramento dei servizi di welfare, a ridurre le disuguaglianze nella salute. Possono rilanciare la fornitura pubblica dei servizi, prevedere la partecipazione da parte dei cittadini e delle organizzazioni non profit, con la possibilità di forme di auto-organizzazione delle comunità” (Pianta, 2018).
In Europa e in Italia una politica di questo tipo è possibile, utilizzando strumenti istituzionali, competenze e risorse esistenti. Una politica per il cambiamento del sistema produttivo può orientare le attività economiche verso la tutela della salute e del welfare e verso una ‘politica industriale verde’ (Pianta et al., 2016, Lucchese e Pianta, 2020).
Riferimenti bibliografici
Armiento, M. (2018). “The Sustainable Welfare Index: Towards a Threshold Effect for Italy”. In Ecological Economics, 152, pp. 296–309.
Lucchese, M, e Pianta, M. (2016) Europe’s alternative: a Green Industrial Policy …,
https://ideas.repec.org/p/pra/mprapa/98705.html
Mazzucato, M. (2014). Lo stato innovatore. Roma-Bari: Laterza.
Mazzucato, M., Li, H.L., Darzi, A. (2020). “Is it time to nationalise the pharmaceutical industry?”, In BMJ, 368: https://www.bmj.com/content/368/bmj.m769
Pianta, M., Lucchese, M., Nascia, L. (2016). What is to be produced? The making of a new industrial policy in Europe. Brussels: Rosa Luxemburg Stiftung.
Pianta, M. (2018). Produrre. In G. Battiston e G. Marcon (a cura di), La sinistra che verrà. Roma: Minimumfax.

E’ tempo di agire per non lasciare indietro nessun minore

21 Ott

il documento

di Gitta Trauernicht

I minori senza cure parentali o a rischio di perderle sono una macchia sulla coscienza europea

Un minore su 10 nel mondo vive senza cure dei genitori o rischia di perderle e di restare indietro. Questi minori sono trascurati, abbandonati (…) e diventano invisibili.

Con i nuovi commissari europei in procinto di entrare in carica, questa è un’occasione importante per l’UE per raggiungere un progresso storico per i diritti dei minori, in Europa e nel mondo. C’è molto in gioco. Milioni di minori nel mondo vivono e sono accuditi negli istituti, nonostante le prove che questa sistemazione ha effetti dannosi per la crescita sul piano sociale, psicologico, emozionale e fisico. Un rapporto presentato poco fa all’Assemblea generale ONU mette in chiaro che centinaia di migliaia di minori che vivono negli istituti sono di fatto privati della libertà.

La Convenzione ONU sui diritti dei minori ha ridotto la mortalità infantile e ha migliorato l’accesso all’istruzione primaria, ma il problema della cura dei bambini senza genitori resta. Il documento “Linee guida per una cura alternativa dei minori”, del 2009, illustra i passi da fare per fornire cura e servizi a questi bambini. Ma c’è poca consapevolezza tra i governi della necessità di applicare queste indicazioni.

In Europa i minori poveri stanno aumentando, a causa della crisi economica e delle politiche di austerità. Almeno 25 milioni di minori nella UE sono a rischio povertà o esclusione sociale. Questa situazione è semplicemente inaccettabile per la UE, che è fiera di proteggere i diritti fondamentali e di promuovere la giustizia sociale e si candida a guidare la lotta mondiale contro povertà e ineguaglianza.

La UE deve riconoscere che investire nei minori significa investire nella società futura. Le soluzioni sono pronte, è solo questione di scelta politica. Innanzitutto il Parlamento europeo e la Commissione europea devono appoggiare con impegno l’adozione delle Garanzie per i minori da parte del Consiglio europeo. Questo schema è decisivo nella lotta contro la povertà dei minori.

Ciò assicurerebbe che ogni minore povero in Europa abbia accesso ai sevizi basilari – inclusi cure sanitarie, istruzione, cure parentali, abitazioni decenti e nutrimento adeguato – come parte di un piano integrato europeo.

Secondo: il nuovo bilancio UE per i prossimi 7 anni deve prevedere maggiori investimenti per sostituire la cura negli istituti con protezioni diverse, preventive e di qualità. (…) Inoltre bisogna prevedere investimenti per gli interventi tempestivi a sostegno delle famiglie, per prevenire separazioni non necessarie dai bambini e procurare una serie di opzioni alternative. I minori devono essere ascoltati nelle decisioni che influenzano la loro vita per adeguare gli interventi ai bisogni individuali. Inoltre i minori, quando diventano maggiorenni hanno bisogno di un sostegno finalizzato, sociale ed economico, per entrare nella vita adulta.

Quest’anno, oltre all’ingresso dei nuovi dirigenti europei, cade il 30mo anniversario della Convenzione ONU sui diritti dei minori e il decimo delle Linee guida per la protezione alternativa dei minori. Inoltre si sta trattando per una nuova risoluzione ONU sulla cura dei minori non protetti. Questa può essere una grande occasione per i politici UE di stabilire una tappa fondamentale sui diritti dei minori.

Un’alleanza delle sei maggiori organizzazioni per la cura dei minori, “Joining Forces”, recentemente ha fatto un appello per una seconda rivoluzione sui diritti dei minori, chiamando i governi e la comunità mondiale a far proprie tutte le parti della Convenzione e investire in servizi per i minori.

Non possiamo lasciare indietro un solo minore. (…)

(tradotto da Social Europe, 10 ottobre 2019)

Rilanciare lo sviluppo attraverso i migranti

6 Mag

 

di Cosimo Perrotta

Sintesi della relazione tenuta all’Università del Salento il 9-1-2019 per il Ciclo “L’Europa e le migrazioni internazionali”, organizzato da Humanfirst.

Perché oggi arrivano tanti migranti in Europa? La risposta è complessa. Dobbiamo partire dalla crisi economica che grava da qualche decennio sull’economia occidentale. Dopo il lungo boom del welfare state, c’è stata una saturazione della domanda privata, perché i bisogni elementari della grande maggioranza della popolazione erano finalmente soddisfatti. Ci sarebbe voluto quindi un grande rilancio degli investimenti pubblici, come si è verificato in tanti altri momenti cruciali dell’accumulazione capitalistica. Ma questa volta non è stato fatto.

In secondo luogo, nello stesso periodo – proprio grazie al massiccio investimento in capitale umano, in cui consistette il welfare state – c’è stata una forte accelerazione del progresso tecnico e il passaggio all’economia post-industriale, basata soprattutto sui beni immateriali. Si pensi all’economia digitale, ma anche alla robotica, le biotecnologie, le nuove tecniche sanitarie, ecc. Questi progressi stanno generando un aumento fortissimo della produttività del lavoro, e quindi anche una grande disoccupazione.

Ma, per la prima volta nella storia, la distruzione di posti di lavoro tradizionali, dovuta al progresso tecnico, non viene compensata dalla creazione di nuovi lavori, se non in piccola parte. Adesso infatti la saturazione frena gli investimenti. Si è cercato di rimediare aumentare le esportazioni. Già alla fine degli anni Settanta l’Occidente promosse la globalizzazione, in pratica la riduzione delle tariffe doganali per facilitare le sue esportazioni.

Però la Cina e gli altri paesi emergenti erano ormai in grado di competere con le merci occidentali nella produzione agricola e industriale, grazie anche al basso costo del lavoro. Il risultato è che oggi l’Occidente importa merci a basso costo dai paesi emergenti, a danno della propria stessa industria. Le industrie occidentali hanno riparato in parte al danno trasferendosi o investendo nei paesi a basso costo di lavoro.

In definitiva, i paesi emergenti prevalgono sull’Occidente non solo per i beni di bassa qualità, ma per tutta la gamma di prodotti, fino a una buona parte dei beni più avanzati. In Europa invece dilagano la disoccupazione e il lavoro precario; e quindi la povertà.

I paesi più poveri, però, al contrario di quelli emergenti, sono stati danneggiati – come sempre – dalla liberalizzazione dei dazi. Essi sono ancora soggetti al neo-colonialismo occidentale; che saccheggia le loro materia prime, sottrae loro la terra, pratica il dumping (cioè la concorrenza sui prezzi grazie ai finanziamenti extra) e soffoca la produzione locale.

Questo saccheggio delle materia prime è assicurato dalla corruzione dei governanti di quei paesi; la quale è promossa dall’Occidente e spesso è sostenuta da guerre sanguinosissime, che gli occidentali fomentano, sia per controllare le materie prime sia per vendere armi.

Da questo contesto nasce l’emigrazione. I fattori principali sono cinque: 1. C’è una carenza crescente in Occidente di lavoratori dei settori tradizionali. 2. C’è un inizio di benessere nei paesi poveri, causato soprattutto dal massiccio ingresso dei capitali cinesi. 3. Ma c’è anche la povertà tradizionale, che perdura. 4. C’è la crescente insicurezza, causa dalle guerre. 5. C’è infine il diffondersi del modello di vita occidentale, legato ad una società del benessere, tollerante, e che riconosce il merito.

Tuttavia il modello occidentale ormai è in crisi. La saturazione spinge i capitali occidentali, oltre che verso l’estero, verso la speculazione finanziaria o immobiliare, o verso i paradisi fiscali, trasformandoli in rendite. Il diffondersi della rendita sta peggiorando il costume, e incoraggia un’evasione fiscale diffusa, dai piccoli produttori fino alle grandi multinazionali del digitale. I privati più ricchi accumulano ancora ricchezza, ma questa è sempre più parassitaria. Gli altri privati si impoveriscono sempre più. D’altra parte la ricchezza pubblica diminuisce, quindi gli stati occidentali riducono la spesa per i servizi essenziali. Ciò ha un effetto negativo cumulativo: accresce ancora la disoccupazione, abbassa la qualità della vita, aumenta le disuguaglianze.

Per di più, le persone anziane, grazie al welfare state, mantengono in media una forte protezione del lavoro e dei redditi, comprese le pensioni. Invece i giovani, pur un livello di istruzione più alto, sono esposti alla disoccupazione e al lavoro precario. La politica non è in grado di capire questo groviglio di problemi, e tanto meno di affrontarli. Ciò apre lo spazio agli avventurieri e ai demagoghi, che trovano la facile “soluzione” di dare la colpa agli immigrati.

Ma vedere gli immigrati come causa dei nostri problemi è un inganno ignobile. Facciamo l’esempio dell’Italia. I nostri giovani più qualificati emigrano a vantaggio degli altri paesi europei. Il costo del lavoro è fra i più alti, mentre la produttività è fra le più basse dell’UE. La popolazione invecchia a ritmi accelerati, e già adesso il sistema pensionistico è in difficoltà. Se non ci fossero gli immigrati, queste carenze si aggraverebbero fatalmente.

Ci sono molti settori della nostra economia dove i lavoratori italiani sono insufficienti e che vengono mantenuti oggi dagli immigrati: manifattura, agricoltura, artigianato, lavori usuranti, servizi alla persona. Ci sono settori che che non soddisfano i relativi bisogni, e che solo gli immigrati potrebbero rivitalizzare: infrastrutture, commercio al dettaglio, assetto del territorio, risanamento ambientale, assistenza ai poveri, lavori ausiliari della sanità e della pubblica amministrazione. Solo dando impulso a questi lavori la domanda può crescere; e questo processo a sua volta può allargare i posti di lavoro della pubblica amministrazione, della scuola e della ricerca.