di Cosimo Perrotta, 3-10-2022
Giuseppe Spedicato in La maledizione della violenza (Lecce, Youcanprint, 2022, http://www.giuseppespedicato.it) ci propone una serie di riflessioni su e contro la violenza, quanto mai opportune nei nostri anni. L’autore chiarisce di non presentare una ricerca scientifica ma considerazioni a carattere divulgativo, che però – notiamo – hanno il merito di andare dritte al cuore del problema.
Spedicato associa subito la violenza all’oppressione sociale, al lavoro iper-sfruttato, oggi così diffuso, che presenta però come il frutto inevitabile della crescita economica (cosa storicamente molto dubbia). Quest’ultima, scrive, crea l’illusione di un benessere per tutti, ma in realtà l’arricchimento che essa procura va a vantaggio di pochi. Ed è stato sempre così.
D’altra parte, emerge ben presto nel libro l’inquietante ambiguità della violenza. In una famosa lettera ad Einstein, che gli chiedeva se si potrà mai estirpare la violenza umana, Sigmund Freud rispose che diritto e violenza non sono contrapposti, come spesso si pensa, ma l’uno deriva dall’altra. Sono i vincitori – quelli che prevalgono con la violenza – a fondare il diritto che protegge i sudditi o cittadini. Inoltre, la produzione di violenza è associata alla produzione della ricchezza.
Ibn Khaldun, il grande economista e sociologo maghrebino del XIV secolo, mise in evidenza che il formarsi delle élite, l’imposizione fiscale e lo stesso stato derivano storicamente dal monopolio della violenza. Questo viene assunto dallo stato, il quale vieta l’uso della violenza ai privati proprio perché essi possano vivere in pace. La sua conclusione quindi coincideva con la tesi che esprimerà Freud: guerra e violenza sono la via storica per la civilizzazione.
Khaldun aggiungeva che solo lo stato così organizzato produce la ricchezza. Ricordiamo però che la nostra tradizione è un’altra. Per l’Occidente la ricchezza viene prodotta attraverso l’iniziativa individuale, che si realizza nel mercato. Tuttavia Douglas North, il premio Nobel per l’economia da poco scomparso, osserva che, attraverso il mercato, le élite si appropriano della produzione e distribuzione della ricchezza, e grazie a questo nasce lo stato.
Anche se le conclusioni di North appaiono vicine a quelle di Khaldun, in realtà tutta la teoria economica moderna (cioè occidentale) si basa su una visione opposta a quella di Khaldun. Nel secolo XVIII fu ripresa una tradizione millenaria, iniziata in Grecia, che oppone il commercio – come attività pacifica e fonte di ricchezza – alla guerra come attività di arricchimento violento a spese dei vicini. Utilizzando questa tradizione, gli illuministi contrapposero l’iniziativa economica individuale, vista come strumento di libertà e di arricchimento pacifico, al ruolo economico dello stato, che sarebbe invece oppressivo e contrario alla libertà.
A sua volta, l’approccio occidentale si differenziò un secolo dopo. La tradizione marxista (che è interna alla teoria economica classica) ha sempre affermato che il capitalismo nella sua fase decadente genera la tendenza degli stati al militarismo, e questo ha portato alle atrocità delle due guerre mondiali. Ma, ricorda Spedicato, secondo Werner Sombart, lo storico economico della prima metà del Novecento, il militarismo è l’educazione dei sudditi alla disciplina e all’amministrazione della violenza per conto dello stato. E’ dunque la guerra che genera il capitalismo, non il contrario. La tesi di Sombart sembra suffragata dalla coincidenza impressionante fra i periodi di sviluppo economico e i periodi di guerra che coinvolgono i grandi stati capitalisti europei per tutta l’età moderna e dal fatto che durante la seconda guerra mondiale il PIL degli USA aumentò in modo spettacolare, superando così la disoccupazione degli anni Trenta.
Spedicato assume in modo radicale la versione di Sombart e suggerisce un’equazione fra guerra e produzione capitalistica della ricchezza. Egli ne conclude che le teorie dominanti, basandosi sul principio della concorrenza, “propongono l’egoismo come valore supremo” (p. 37). Sì, l’elemento egoistico è presente, ma non va dimenticato che la concorrenza è stata considerata – ad es. proprio dagli illuministi – come una versione non violenta della rivalità fra i singoli, cioè come il perseguimento del proprio interesse personale in modo pacifico.
Questo dovrebbe significare che la tendenza naturale dell’uomo non è la violenza in quanto tale, bensì la competizione. Il che è molto diverso. Lo stesso Spedicato conclude questa riflessioni teoriche citando Bobbio e il suo saggio empirismo. La guerra, dice Bobbio, secondo tutte le teorie del progresso è una male necessario; mentre la pace è un bene, ma un bene di per sé insufficiente a creare benessere (ad esempio se non è accompagnata da una certa giustizia sociale).
Il libro tocca in modo interessante molti altri argomenti su cui non possiamo soffermarci, dalla criminalità organizzata del Sud d’Italia alla crisi della Somalia, ad un bel dialogo interculturale fra quattro interlocutori, occidentali e arabi, sulla violenza del colonialismo e quella della jihad.
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